Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione e il Manifesto (pag. Milano) del 4 aprile 2006
Forse Rumesh Rajgama Achrige ce la farà a sconfiggere la morte. Non ce la fece invece Abdel Khalek Nakab due mesi fa. Apparentemente Abdel e Rumesh raccontano due storie diverse. Il primo aveva 37 anni, cittadino marocchino, ed era stato ucciso il 27 febbraio scorso da un colpo di arma da fuoco esploso da un vigilante privato in via Cavezzali, a Milano. Il secondo, comasco originario dello Sri Lanka, ha 19 anni ed è stato colpito alla testa il 29 marzo dal proiettile di un vigile urbano nelle strade di Como.
Due storie diverse, ma che si assomigliano maledettamente. In ambedue i casi le autorità si sono precipitate a decretare la natura “accidentale” dell’accaduto. Certo, né il vigile, né il vigilante volevano sparare veramente, eppure tutti e due hanno estratto l’arma con il colpo in canna e l’hanno puntata contro una persona inoffensiva e per motivi assolutamente futili, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Il vigilante di via Cavezzali, come altri suoi “colleghi”, faceva da poliziotto privato per la proprietà immobiliare e non era la prima volta che veniva estratta un’arma. Gli inquilini hanno ripetutamente denunciato alle forze dell’ordine minacce e violenze, l’ultima volta soltanto due giorni prima della morte violenta di Abdel, ma nessuno era intervenuto per porre un freno. Un “accidente” piuttosto annunciato, insomma.
E nemmeno quanto successo a Como deve e può essere liquidato come un “accidente”. La progressiva militarizzazione della Polizia Locale, come oggi si chiamano i vigili urbani, è stata invocata, voluta e promossa consapevolmente dalle destre, spesso con l’acquiescenza da parte della sinistra moderata. Oggi, nonostante le molteplici resistenze da parte degli stessi vigili urbani, sempre più di loro portano le armi, mentre la legge regionale lombarda n.4/2003 prevede altresì la possibilità di uso di spray irritanti e bastoni estensibili. Il tutto in omaggio all’esaltazione delle “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza” da parte della polizia locale. C’è da stupirsi che molti sindaci, desiderosi di disporre di una “loro” polizia, sono passati a costruire squadre speciali che vengono lanciati addosso non ai grandi delinquenti e speculatori, bensì a immigrati o writer?
Abdel è stato dimenticato troppo in fretta da Milano e sono rimasti soltanto i familiari e gli amici a chiedere giustizia. A Como, per fortuna, una parte della città ha deciso di reagire. E ci auguriamo che non sia un fuoco fatuo. Ma tutto questo non basta. Sia la tolleranza nei confronti delle polizie private e dell’uso sempre più disinvolto delle armi, che le leggi regionali o le ordinanze di sindaci sono figlie di una concezione della società insana e pericolosa.
Alla crescita dell’emarginazione e dell’esclusione, di nuove povertà e solitudini urbane, si risponde non con una politica sociale degna di questo nome, bensì con le politiche securitarie e criminalizzanti. E allora non si combatte l’esclusione, ma l’escluso. Non si favorisce la crescita di spazi sociali, ma si perseguita chi colora i muri cittadini.
Vi è la terribile urgenza che da sinistra, dalla politica e dalla società, venga presa un’iniziativa forte e decisa per rovesciare il paradigma securitario. Prima che sia troppo tardi. Lo dobbiamo a Abdel e a Rumesh, che sta ancora lottando per la sua vita, ma lo dobbiamo soprattutto a noi stessi e al nostro futuro.