Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 6 nov. 2007 (pag. Milano)
Come un pugile suonato. Così è apparsa la sinistra nelle sue varie articolazioni, politica e sociale, governativa e antigovernativa, nelle ore e nei giorni seguiti all'omicidio di Giovanna Reggiani. Pochi hanno conservato lucidità, molti hanno scelto il silenzio e altri hanno vacillato. E, diciamoci la verità, il riferimento non è soltanto a dirigenti e nomi noti, ma anche, e forse soprattutto, agli uomini e alle donne che fanno la sinistra nella realtà quotidiana.
Ebbene sì, perché ormai, quando si parla di sicurezza e immigrazione, può essere molto più difficile reggere la discussione con il tuo vicino di casa, che non affrontare lo scontro politico nelle istituzioni. Infatti, se in questi giorni si fosse svolto un referendum popolare sul cosiddetto pacchetto sicurezza, i “no” sarebbero stati ridotti alla dimensione di una specie in via di estinzione.
La misura del disastro politico e civile che si consuma in Italia e in Europa sta tutto qui, cioè nel fatto che le destre hanno conquistato l’egemonia culturale. E così, sempre più spesso risuona la domanda “stai con gli italiani o con gli immigrati?” e a fartela è magari un lavoratore o un inquilino delle case popolari. Insomma, non di borghesi e ricchi si tratta, ma di gente nostra, dei nostri referenti sociali.
Il securitarismo xenofobo non è soltanto populismo o furbizia elettorale, ma è anzitutto un paradigma di lettura della realtà, capace di scomporre e ricomporre identità sociali e culturali e di fornire nuovi nemici e colpevoli. È l’ideologia della guerra tra i poveri, che mette al riparo potenti, furbetti e profittatori, mentre istiga alla competizione violenta per gli spazi e i beni alla base della piramide sociale.
La posta in gioco è dunque molto alta, di indubbia valenza strategica, e il tempo stringe terribilmente, come evidenzia l’accelerazione di questi giorni dopo un anno di crescendo incessante di fatti e fattacci. E allora dobbiamo tornare al nostro pugile suonato, cioè a noi stessi.
In ultima analisi, non ci sono che due possibili strade da imboccare. La prima è quella già scelta dal Piddì veltroniano, che postula il superamento storico di ogni ipotesi di alternativa e il primato del governo dell’esistente a ogni costo, compreso il cedimento politico e culturale.
L’altra strada è sicuramente più faticosa, perché è quella della ricostruzione della sinistra e di un orizzonte di cambiamento sociale. E questo significa, oggi e qui, sottrarsi all’abbraccio securitario e reagire, assumendosi anche la responsabilità di scelte non facili e controcorrente. Ma, beninteso, questo non basta, perché l’incitamento al razzismo non avviene nel vuoto, bensì in una situazione di disagio sociale diffuso, di precarietà del lavoro e delle esistenze e di degrado urbano. Ed è qui che la sinistra è ormai troppo assente, spesso anche fisicamente, e non riesce più né a organizzare vertenze e conflitti, né a offrire prospettive di cambiamento credibili.
Insomma, se non vogliamo arrenderci all’aria che tira, ma nemmeno fare la fine di chi dice no al securitarismo, ma poi non ha alternative da offrire, c’è urgente bisogno di un fatto nuovo a sinistra, che non sia un semplice e inutile assemblaggio di ceti politici, ma una sorta di ripartenza dal basso, assumendo come bussola le condizioni e i bisogni dei ceti popolari e un po’ meno gli equilibrismi istituzionali.
Ma appunto, il tempo rimasto è poco e se non vogliamo finire sul tappeto, occorre agire subito.
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