Il saggio che segue fa parte del libro “Rom, un popolo – diritto a esistere e deriva securitaria”, appena pubblicato da Edizioni Punto Rosso, che raccoglie numerosi interventi e documenti relativi alla “questione rom” e al securitarismo imperante. Considerata l’aria che tira, un libro da leggere e da far leggere e un’occasione per discutere e organizzare iniziative. Insomma, ve lo consiglio. Se non lo trovate nelle librerie, potere rivolgervi direttamente alle edizioni Punto Rosso, in via G. Pepe, 14 a Milano (tel. 02.874324, edizioni@puntorosso.it, www.puntorosso.it).
LA POLITICA DELLA PAURA
di Luciano Muhlbauer
È facile non accorgersi quando il mondo prende una brutta piega.
(Fabrizio Gatti)
Cronache lombarde
Opera, periferia sud di Milano, mancano pochi giorni al natale del 2006, ma il clima è per nulla festivo. Un nutrito gruppo di cittadini, guidato e incitato da esponenti locali di Lega e An, ha appena dato alle fiamme le tende della protezione civile, destinate ad ospitare fino a primavera le famiglie rom precedentemente sgomberate dalle baracche di via Ripamonti, nel confinante comune di Milano. Nuove tende vengono montate e il 29 dicembre arrivano anche i rom, una settantina, di cui circa 30 bambini, accolti da lanci di oggetti e cori razzisti. Un presidio permanente e non autorizzato, attrezzato persino con bar artigianale e bagni chimici, nasce all’ingresso del campo. Militanti della Lega, di An e di gruppi dell’estremismo neofascista milanese si incaricano di tenerlo in vita, giorno e notte. Le forze dell’ordine stanno a guardare.
Le famiglie rom, inclusi i bambini, subiscono quotidianamente insulti, i volontari che si recano al campo vengono minacciati e chiunque si permette di dissentire, compreso il parroco e l’arcivescovo, è apostrofato in malo modo. Il sindaco diessino tenta di resistere alla marea montante, ma trova nei responsabili provinciali del suo partito soltanto deboli sostegni. La stessa sinistra meneghina, inclusa la parte più militante e antagonista, è afona e disorientata. Soltanto il 10 febbraio arriva una mobilitazione di piazza antirazzista, ma ormai è troppo tardi e lo stesso giorno i rom e la Casa della Carità, che gestisce la tendopoli, decidono di gettare la spugna e abbandonano Opera.
Milano, zona di Chiaravalle. È il 13 giugno del 2007 e la polizia sgombera una baraccopoli abitata da rom. Alla quarantina di persone presenti non vengono lasciate molte alternative, come d’abitudine. Secondo la prassi del comune di Milano, infatti, alle donne e ai bambini vengono offerte sistemazioni d’emergenza nei dormitori comunali, mentre i maschi adulti dovrebbero arrangiarsi con la strada. Tuttavia, ormai fa caldo e la politica della divisione dei nuclei familiari difficilmente funziona in assenza del generale inverno. La “proposta” del comune viene dunque respinta, ma in cambio, come poi orgoglioso rimarcherà il vicesindaco De Corato, con delega alla sicurezza, i sette cuccioli di cane trovati nel campo sono accolti tutti nel canile municipale. Dall’altra parte, il plauso per come il comune ha gestito la vicenda si fa sempre più bipartisan. Soltanto pochi giorni più tardi, il Consiglio comunale di Milano voterà a larghissima maggioranza, esclusi soltanto i consiglieri di Rifondazione e Lista Fo, la mozione ideata dalla consigliera Rozza, targata Ds, che invoca il “numero chiuso” per i rom.
Pavia, Lombardia meridionale. È l’alba del 30 agosto e arriva lo sgombero annunciato dell’area dismessa dell’ex-Snia, rifugio iperprecario e insalubre per tante famiglie rom, ma anche luogo destinato a una mastodontica speculazione edilizia. Essendo il sindaco Piera Capitelli un’esponente storica dei Ds, molti si aspettano un comportamento diverso dal centrodestra che governa Milano e, dunque, che qualcuno abbia organizzato delle soluzioni alternative. Invece no, uomini, donne e bambini, cioè tutti, per strada e con il perentorio invito di abbandonare il territorio comunale. Ma loro non sanno dove andare, né come andarci e, quindi, inizia l’incubo. Qualche giorno più tardi, i 70 minori e i 50 adulti vengono caricati sui pullman, destinazione qualche piccolo comune della provincia. Ma non ci arriveranno mai, perché amministratori e residenti inferociti improvvisano blocchi stradali e qualcuno si mette persino a gridare alle “camere a gas”. Così, tutti tornano a Pavia per due notti, prima di essere ricaricati sugli automezzi e smistati in diversi luoghi dell’hinterland pavese, recuperati nottetempo dal Prefetto. Ma siamo soltanto agli inizi, poiché ovunque rinascono proteste e azioni minacciose contro i rom, con in prima fila militanti della Lega e di Forza Nuova. La situazione peggiore è quella del piccolo comune di Pieve Porto Morone, dove la Lega e mezzo paese assediano letteralmente, 24 ore su 24, la quarantina di rom, ospitati in una struttura della chiesa. A Pieve succede di tutto e di tutto ci passa per mostrare i muscoli, dal razzista di professione Borghezio fino a Forza Nuova, la quale ancora alla fine di novembre invita coraggiosamente alla mobilitazione di massa contro le tre donne e i dieci minori rimasti a Pieve.
Milano, via Triboniano, un giorno qualsiasi del 2007. L’ex campo abusivo più grosso e storico della città, ai tempi una vera e propria bidonville, ora è un campo regolare e farà da modello per gli altri insediamenti autorizzati dall’amministrazione comunale. Vi vige il Patto di legalità e socialità,che tutti gli abitanti rom devono firmare e rispettare alla lettera, pena l’immediata espulsione dalla struttura. E, siccome i controlli di polizia sono quotidiani e invasivi, per essere cacciati basta davvero poco. Cioè, è sufficiente ospitare per una sola notte un parente o un amico che non fa parte degli “autorizzati” del campo! A parte questa condizione di sorvegliati speciali, il Patto rappresenta poco più di un pezzo di carta, con il quale il firmatario si impegna a fare qualcosa che già deve fare, come chiunque, cioè a rispettare la legge. La Lega è contraria e critica i suoi alleati nel governo cittadino, perché pensa che tutti i rom vadano semplicemente cacciati via, ma il Partito Democratico, responsabilmente, apprezza il modello del centrodestra.
Annus Terribilis
Abbiamo scelto queste quattro storie per introdurre il nostro ragionamento, perché sono paradigmatiche e rappresentative di una dinamica generale e comunicano meglio di tanti trattati e analisi il senso delle cose. Potevamo sceglierne delle altre, ovviamente, tutte ugualmente degne di essere raccontate, ma ci pareva giusto e doveroso partire dalla questione rom, cioè dalla punta dell’iceberg della deriva culturale e morale che sta investendo la nostra società. E poi, diciamocelo, è proprio guardando alle popolazioni rom, storica minoranza europea, e ai moderni odi che si scatenano contro di loro, che possiamo riscoprire, meglio che altrove, qualcosa di già visto, che forse pensavamo espulso definitivamente dalla storia.
Ma, appunto, le nostre quattro storie ci raccontano molto di più. Anzitutto, esse si svolgono nel 2007, cioè l’anno che ha segnato indubbiamente un salto di qualità, e ne rispecchiano il movimento. Opera fu una sorta di prima volta, all’epoca –e forse tuttora- terribilmente sottovalutata a sinistra. Fu la prima volta che forze politiche che si caratterizzano per le loro posizioni xenofobe riuscirono a saldarsi intimamente con una protesta popolare, egemonizzandola, e a riportare una netta vittoria politica, dopo due mesi di braccio di ferro con le istituzioni (a dire il vero, poco combattive).
Così, Opera assurse a modello da imitare e da replicare. Non a caso, da quel momento in poi, le destre intensificarono i loro sforzi per costruire mobilitazioni analoghe, preferibilmente contro insediamenti di rom. Anzi, a Milano è diventato normale, a tal punto che non fa nemmeno più notizia.
Ma in politica non pesano soltanto le vittorie, ma anche le sconfitte. E la sinistra, in senso lato, era uscita sconfitta da Opera. Il nascituro Partito Democratico, in particolare la componente diessina, iniziava, quindi, a modificare il proprio atteggiamento rispetto alle questioni rom e sicurezza in generale. Ebbene sì, sicurezza, perché tutte le mobilitazioni xenofobe e razziste venivano giustificate, sia dai politici di destra, che dai semplici cittadini, con la richiesta di “sicurezza”.
L’accelerata definitiva arrivò dopo le elezioni amministrative di maggio, dove i partiti dell’Unione raccolsero risultati poco edificanti nel Nord, rimettendoci diversi comuni. Il Pd non perse tempo con riflessioni circa l’effetto negativo della deludente azione di governo nazionale, testimoniata altresì da un alto tasso di astensionismo a sinistra, ma considerò piuttosto casi come quello di Rho, comune alle porte di Milano, dove il centrodestra aveva conquistato la poltrona del sindaco con una campagna martellante contro un vecchio insediamento rom.
Infatti, i casi di Chiaravalle, dove esponenti diessini avevano organizzato delle marce anti-rom, e del voto bipartisan Centrodestra-Ulivo-Verdi in consiglio comunale risalgono a giugno. Lo stesso mese in cui il Presidente della Provincia di Milano, Penati, sempre targato Ds, iniziava la sua sterzata a destra, cambiando decisamente i toni nei confronti di rom e romeni, e approdando infine anch’egli al voto bipartisan Ulivo-Centrodestra sulla sicurezza. E poi arrivò la brutta storia di Pavia, che sembrava la fotocopia di Opera, ma con la significativa differenza che a innescare il tutto fu un sindaco di centrosinistra.
Nel frattempo le nostre storie lombarde avevano, però, smesso di essere semplicemente lombarde. Come spesso era già accaduto, nel bene o nel male, la Lombardia faceva da laboratorio politico e da anticipatore di processi più ampi. E così, il securitarismo xenofobo non solo aveva oltrepassato il confine politico tra destra e sinistra, invadendo pesantemente il campo del Pd, ma dilagava ormai su tutto il territorio nazionale. Il sindaco di Roma, Veltroni, anticipò la campagna di An e mise in cantiere la delocalizzazione dei rom fuori dai confini cittadini, mentre il sindaco di Firenze, in pieno periodo agostano, si inventò un nuovo nemico della pubblica sicurezza: i lavavetri! Cofferati, a modo suo anche lui un anticipatore, ora era meno solo.
A questo punto si moltiplicarono i Patti per la Sicurezza, siglati tra Ministero degli Interni e grandi comuni, e lo stesso Ministro Amato, fine pensatore politico, enunciò pubblicamente la tesi secondo la quale per fermare l’avanzata del fascisti, i democratici dovevano fare un po’ come loro. Il risultato di tutto questo crescendo fu, prima di tutto, che la pratica delle ronde e delle rivolte popolari contro i rom si stava estendendo lungo la penisola. Ma l’apice dello squallore venne raggiunto senz’altro con gli avvenimenti seguiti al brutale omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, con il capo di Alleanza Nazionale che organizzava conferenze stampa sul luogo del delitto, proclamando l’impossibilità tout court dell’integrazione dei rom, con quello del Partito Democratico che imponeva al governo di centrosinistra l’adozione di un pacchetto sicurezza, dall’esplicito sapore anti-romeno, e con le aggressioni contro cittadini stranieri da parte di gruppi neofascisti a Roma. La situazione era talmente grave e preoccupante che il 15 novembre intervenne persino il Parlamento Europeo, con una risoluzione votata a larga maggioranza, stigmatizzando il clima xenofobo creatosi e ricordando la lettera e lo spirito delle direttive europee, che non consentono l’espulsione di cittadini comunitari sulla base delle sole condizioni economiche e sociali dei soggetti.
Comunque, l’anno 2007 non era ancora finito e dopo la sbornia securitaria in salsa piddì arrivò, infine, il rilancio della Lega Nord, con la campagna dei sindaci veneti e lombardi che sventolavano le due ordinanze anti-immigrati dei comuni di Cittadella (Pd) e Caravaggio (Bg). La prima stabilisce che uno straniero, per ottenere la residenza, deve dimostrare di disporre di un reddito annuo superiore a 5mila euro e di vivere in un alloggio che risponda a determinati criteri di carattere edilizio e igienico-sanitario. Inoltre, istituisce una commissione comunale che valuta la “pericolosità sociale” dell’immigrato. La seconda, invece, decreta che uno straniero sprovvisto valido di permesso di soggiorno non può contrarre matrimonio con un cittadino italiano. Il tutto culminò poi nell’affollato corteo della Lega, a Milano, il 16 dicembre, dove vennero annunciate ronde di nuovo tipo contro gli immigrati, mentre il sindaco di Milano, Letizia Moratti, pensò bene di salutare il vicino natale con la decisione che i bambini di immigrati irregolari non avrebbero più potuto frequentare le scuole materne comunali.
Insomma, mettendo in fila gli avvenimenti e i fatti principali del 2007, compresi quei tanti qui non citati, e valutandone quantità, qualità e intensità, possiamo senz’altro ricorrere alla definizione di annus terribilis. Processi e dinamiche in atto da tempo, che non a caso trovano paralleli negli altri paesi europei, sono emersi definitivamente alla superficie e si sono tradotti in fatti politici e pubblici. In altre parole, l’accumulo di quantità ha prodotto un primo salto di qualità.
Possiamo, dunque, individuare almeno quattro tendenze. Primo, le tesi tipiche delle destre in materia di sicurezza e immigrazione hanno imposto la loro egemonia e iniziativa a livello di discorso pubblico. Secondo, hanno ceduto gli argini culturali e politici della sinistra moderata, contestualmente alla costituzione del Partito Democratico. Terzo, la sinistra alternativa, in tutte le sue articolazioni politiche e sociali, è collocata sulla difensiva e non dispone di efficaci strategie alternative. Quarto, il securitarismo si è affermato come uno dei principali canali di produzione di consenso elettorale, nonché come efficace strumento di insediamento e mobilitazione popolare.
A questo punto, tuttavia, si impongono alcune domande cruciali, alle quali non possiamo e non dobbiamo sfuggire. Cioè, da cosa deriva la forza e la fortuna del discorso securitario e xenofobo, qual è la sua essenza politica e culturale e rappresenta o meno un prodotto spontaneo e ineluttabile della modernità? Quesiti, tutto sommato, decisivi, poiché anche dalle risposte dipendono le alternative possibili.
L’insicurezza sociale
Cominciamo dai cittadini inferociti, da quelli che “non ne possiamo più” di rom, immigrati, tossici, prostitute eccetera. Beninteso, non stiamo parlando dei militanti politici che organizzano, incitano e istigano, ma dei semplici cittadini, solitamente di estrazione popolare, che costituiscono la base sociale o la forza d’urto dei presidi, delle marce o delle ronde. Bisogna distinguere le due cose, sempre. Guai a non distinguere!
Ebbene, c’è qualcosa che colpisce profondamente tutte le volte che ci si confronta con questi cittadini. Cioè, la distanza abissale tra la minaccia reale o ipotetica rappresentata dalle persone prese di mira e l’intensità e la violenza della reazione.
Torniamo allora un attimo nel pavese, nel piccolo comune di Pieve Porto Morone. Nella struttura messa provvisoriamente a disposizione dalla chiesa c’è appena qualche decina di rom, per metà bambini. Attorno ci sono i carabinieri a fare la guardia. Eppure, mezzo paese è in piazza, compreso il sindaco, e ci sono tutte le generazioni, dagli anziani agli adolescenti. Tutti a urlare e gridare, molti insultano, altri minacciano e qualche giovane indossa pure una maglietta con frasi indicibili. E tutto questo non dura un giorno o due, bensì lunghe settimane.
Pieve Porto Morone è paese tranquillo, come tanti altri nella campagna pavese. I suoi cittadini sono persone normalissime. Non sono né delinquenti, né nazisti. Alcuni dei pensionati ti raccontano che facevano gli operai. Ma, è come se avessero subìto una metamorfosi fulminea e ora sono una comunità in rivolta contro alcune persone che non hanno mai visto, né conosciuto e chiunque si presenti a parlare male dei rom e chiedere la loro cacciata, sia esso un leghista o un neonazista di FN, è ben accetto.
Uno sprigionamento di sentimenti ostili, dall’insofferenza militante fino all’odio, che raggiunge il suo culmine quando di mezzo ci sono i rom, ma che ritroviamo, con intensità variabile, in tanti altri casi, specie quando si tratta di immigrati, ma non solo. E, sempre e comunque, la giustificazione che viene data è che ci si sente insicuri, minacciati eccetera.
Se poi passiamo dal micro delle nostre storie al macro della dimensione sociale, si ripresenta tale e quale la medesima sproporzione tra entità del problema e intensità della reazione, cioè tra l’insicurezza reale e quella percepita. Infatti, qualsiasi statistica ufficiale ci conferma da anni che non vi è alcuna emergenza criminalità. Tuttavia, sebbene i dati forniti da polizia e carabinieri ci comunicano che il numero di reati commessi in Lombardia nel 2007 è persino inferiore a quello dell’anno precedente, la percezione di insicurezza dei lombardi risulta notevolmente accresciuta. Oppure, possiamo citare il caso delle violenze sessuali contro le donne, associate dal “senso comune” sempre di più alla presenza di immigrati nel nostro paese, ma in realtà, secondo i dati più recenti dell’Istat, commesse almeno nel 90% dei casi da maschi italiani, nonché quasi sempre (94%) da familiari o conoscenti. O ancora, alle continue richieste di “più agenti di polizia” corrisponde una realtà fatta dal più alto rapporto tra numero di addetti alla pubblica sicurezza e abitanti di tutta l’Unione Europea. Facendo poi la somma tra i funzionari delle varie forze di polizia, della polizia municipale, di quella penitenziaria e della agenzie private di sicurezza arriviamo all’esorbitante cifra di 480mila unità in Italia.
Un apparente paradosso, che richiede di essere indagato. Cioè, quella sproporzione tra realtà e percezione come si spiega? A noi pare sia sufficiente allargare lo sguardo, considerare e valutare le modificazioni intervenute nelle formazioni sociali, italiana ed europee, e dunque nelle nostre vite individuali e quotidiane, per avvicinarci alla verità. Riducendo all’osso il ragionamento, viviamo in società urbane profondamente segnate da decenni di liberismo, con le sue privatizzazioni, deregolamentazioni e riduzione del welfare e delle tutele pubbliche. La precarietà si è impadronita non soltanto del lavoro, ma delle esistenze. I territori urbani sono prede del business del mattone. Sono saltati sistemi relazionali e identità collettive, le disuguaglianze sociali sono aumentate e la cosiddetta globalizzazione ha spostato i luoghi decisionali in posti inafferrabili e inaccessibili. Le istituzioni e la politica appaiono lontane, come corpi separati, e sostanzialmente ininfluenti rispetto alle condizioni di vita. Oggi, un abitante di una città come Milano si sente terribilmente solo. È la solitudine del cittadino globale, per dirla con Bauman.
La percezione di insicurezza è diffusa, perché, in ultima analisi, gli uomini e le donne sono immerse effettivamente nell’insicurezza, anzitutto se appartengono ai ceti popolari. Cioè, come si fa a sentirsi sicuri, tranquilli e sereni se la vita quotidiana è una lotta perenne, per arrivare alla fine del mese, per riuscire a pagare l’affitto o il mutuo, per conservare o ritrovare un posto di lavoro eccetera? E se tutto questo lo devi affrontare da solo? Insomma, l’insicurezza è reale. Ed è economica e sociale. Ma, i patti per la sicurezza, i rom, gli immigrati, i lavavetri cosa c’entrano?
La sicurezza come arma politica
C’è dunque una base materiale e sociale che può aiutarci a decifrare razionalmente l’apparente paradosso della dissintonia tra realtà e percezione, ma è evidente che non si tratta di una spiegazione esaustiva, a meno che non vogliamo postulare l’ineluttabilità che queste contraddizioni si scarichino sul terreno della sicurezza, intesa come incolumità personale, e della xenofobia e non, come sarebbe astrattamente logico, su quello del conflitto sociale contro i poteri economici e politici. E l’elemento che ci manca ancora si chiama politica.
Per capirci meglio, iniziamo ad esaminare una delle tesi in voga in tema di immigrazione. Si tratta di un discorso che riecheggia un po’ ovunque e che, in estrema sintesi e nella sua versione nobile, sostiene che è certamente vero che le condizioni di vita delle persone sono peggiorate, ma proprio per questo l’impatto con i flussi migratori è insostenibile, da un punto di vista socio-economico, ma anche culturale, e che bisogna pertanto operare un scelta preferenziale per la tutela dei diritti e del benessere degli autoctoni, italiani o padani, a seconda delle variazioni sul tema. Occorre, dunque, chiudere le frontiere, perché gli immigrati sono già troppi. In altre parole, è l’immigrazione a produrre un effetto negativo sulle condizioni di vita degli autoctoni, portandogli via beni e servizi, e se c’è qualche “esasperazione” di troppo, questo non è razzismo, ma la conseguenza del non rispetto delle regole da parte degli stranieri e, soprattutto, di una politica che privilegia gli immigrati e ne fa arrivare degli altri. Quindi, ci vuole più repressione, più polizia e più controlli e, ovviamente, meno immigrati.
In fondo, questa tesi la conosciamo tutti, poiché è quella normalmente agitata dalle destre e, ultimamente, anche da altri. Ma, ahinoi, è altresì una tesi che nei suoi elementi essenziali si è insinuata pesantemente nel “senso comune” e che ha dunque dimostrato una sua indubbia efficacia politica. Eppure, si basa su una serie di premesse arbitrarie e su alcune autentiche menzogne.
Anzitutto, assume come naturale e immodificabile l’attuale modello economico e sociale e, quindi, anche le iniquità sociali e le condizioni di lavoro e di vita che ne derivano. In secondo luogo, postula che sarebbe effettivamente possibile chiudere le frontiere e dunque fermare i flussi migratori, omettendo però di ricordare che i confini sono di fatto già chiusi, al di fuori dei flussi programmati, come dimostra il fatto che la stragrande maggioranza degli immigrati regolari presenti in Italia sono ex-clandestini regolarizzati successivamente con la lotteria delle sanatorie, ufficiali o mascherate. In altre parole, fermare tout court i flussi migratori semplicemente non è possibile, poiché nemmeno le migliaia di morti che provoca la tratta dei migranti verso l’Europa (oltre 1.800 nel solo 2007) riesce a scoraggiare un esercito di disperati e profughi in cerca di un’esistenza migliore. In terzo luogo, comunica l’idea fallace che la presenza degli immigrati nella nostra società possa essere reversibile, cancellando en passant anche l’intera questione delle seconde generazioni. In quarto luogo, sostiene che gli stranieri nel nostro paese godrebbero di privilegi e zone franche e che bisogna quindi intensificare le politiche repressive e di controllo, anche se in realtà l’Italia brilla proprio per canalizzare oltre il 75% delle risorse complessive stanziate in materia di immigrazione verso misure repressive e per una legislazione che confina il migrante-lavoratore in una posizione di svantaggio strutturale. Infine, ed è forse la cosa più importante, costruisce un’immagine pubblica dell’immigrato come problema di ordine pubblico e/o competitore diretto dell’autoctono per l’accesso ai beni, ai servizi e agli spazi. Ovviamente, nemmeno di una parola viene degnato il fatto che una miriade di imprenditori, autoctoni, specula sulla condizione di maggior ricattabilità dei lavoratori immigrati per aumentare i propri profitti, aggirare leggi e contratti e abbassare, quindi, il livello complessivo dei diritti e dei salari nel mondo del lavoro.
Insomma, da questa breve discussione di uno dei discorsi tipici del securitarismo, nella sua versione più “fortunata”, cioè quella xenofoba, possiamo ricavare senz’altro alcune conclusioni più generali. Il discorso securitario non offre soluzioni praticabili ai problemi, semmai li alimenta e li fossilizza, ma si configura piuttosto come un prisma deformato attraverso il quale leggere la realtà o, per scomodare i classici, come falsa coscienza, capace di delineare un’interpretazione non antagonistica delle contraddizioni sociali e di fornire nemici abbordabili e facilmente identificabili, comunque distanti da potenti e benestanti. In questo senso, l’ideologia securitaria assolve una funzione conservatrice rispetto al modello sociale esistente e agli interessi dominanti e una funzione regressiva, reazionaria rispetto alla tenuta del tessuto civile, giuridico e democratico. Ovvero, si presenta come paradigma culturale generale, applicabile a ogni aspetto della vita sociale, fino ai comportamenti e alle “devianze”, e alternativo ad altri modelli, anzi, in lotta con loro per l’egemonia. In ultima analisi, non è altro che una moderna ideologia della guerra tra i poveri, che mette al riparo potenti, furbetti e profittatori, mentre istiga alla competizione violenta per gli spazi e i beni alla base della piramide sociale.
La semina della percezione
Non c’è dunque nulla di spontaneo o naturale nella psicosi securitaria. Certo, c’è un corpo sociale atomizzato e disorientato, la poltiglia di massa secondo la definizione del Censis, che la rende possibile, ma poi, appunto, vi è un decisivo intervento soggettivo e, dunque, una responsabilità politica. E così, l’ideologia securitaria vive e cresce attraverso tanti atti e azioni che la accreditano e la diffondono.
C’è una responsabilità da parte dei mass-media mainstream, che sono ormai pesantemente invasi dal securitarismo e, quindi, funzionano da amplificatori. Anche lì hanno ceduto degli argini. Non ci riferiamo tanto alle molte tv locali e non, dove politici senza scrupoli trovano indisturbati lo spazio per incitare all’odio e proclamare di tutto e di più. No, ci riferiamo anzitutto all’informazione in senso stretto, televisiva e stampata, dove quotidiano è il martellamento sulla sicurezza, solitamente accostata al tema immigrazione, ed è diventato normale sbattere in prima pagina il reato commesso da uno straniero, salvo poi confinare lo stesso reato in un trafiletto della cronaca locale se il responsabile è bianco e italiano.
Ma c’è soprattutto una responsabilità da parte di quelle forze politiche che fondano la raccolta del consenso elettorale scientemente sul securitarismo e sulla xenofobia, specie quando dalle parole si passa ai fatti, cioè ad atti amministrativi, istituzionali o addirittura legislativi. Ed è illuminante esaminare alcuni casi, che prendiamo dalla Lombardia, proprio per capire che quello che interessa non è risolvere dei problemi, bensì accarezzare e coltivare la percezione di insicurezza, per tradurla in consenso politico, anche a costo di aggravare la situazione ed esasperare la stessa percezione.
Primo caso: il comune di Milano e i rom. L’amministrazione comunale di centrodestra è al potere da 15 anni, ma per lunghissimo tempo ha semplicemente ignorato la crescita delle baraccopoli, con migliaia di abitanti. A denunciarne ripetutamente l’esistenza e chiedere, invano, interventi umanitari e sociali era soltanto qualche associazione, come il Naga. Poi, qualche anno fa, è cambiata la linea ed è arrivata la “tolleranza zero”, cioè gli sgomberi e le ruspe. Dal 2003 al 2007, nella città capoluogo si sono realizzati circa 350 interventi di sgombero di aree dismesse e insediamenti abusivi, in buona parte riguardanti rom. La politica del comune non prevede soluzioni abitative alternative e interventi di inclusione sociale, salvo qualche occasionale ospitalità temporanea per donne e bambini. Ebbene, qual è il bilancio? Semplice, l’unico risultato concreto sta nell’introduzione di una sorta di nomadismo coatto degli sgomberi per adulti e bambini, spesso con annessa perdita di faticosi inserimenti scolastici, ma in cambio ogni nuovo insediamento abusivo è occasione per una marcia o una fiaccolata e ogni sgombero diventa anche una conferenza stampa. Insomma, per i rom a Milano c’è soltanto la strada oppure i pochi “campi nomadi” regolari sul modello Triboniano, per una popolazione che per 90% non pratica più il nomadismo da tempo.
A riprova del fatto che non c’è alcun interesse ad affrontare veramente la questione, possiamo poi ricordare che la maggioranza formigoniana in Regione sta boicottando da anni l’applicazione di una legge regionale vigente, la n. 77/89, la quale, pur essendo un po’ vecchiotta, prevede comunque interventi sociali, sanitari e di contrasto dell’emarginazione urbanistica dei “campi nomadi”. E, soprattutto, prevede lo stanziamento di fondi regionali a favore degli enti locali per tali interventi. Insomma, neanche un euro per qualsiasi politica che non sia repressiva.
Secondo caso: la questione delle moschee. In Lombardia c’è ormai un numero significativo di cittadini immigrati di fede musulmana. Trattandosi di una presenza religiosa nuova per il territorio, manca ovviamente una rete consolidata di luoghi di culti e i fedeli si arrangiano come possono. Ebbene, da un po’ di tempo, diversi amministratori comunali lombardi, in maniera particolare di quella Lega Nord che punta sempre di più sul suo profilo xenofobo, hanno inventato un nuovo “gioco”. Funziona così: laddove ci sono fedeli islamici che si riuniscono per pregare, di solito in qualche capannone o spazio regolarmente affittato, arriva la polizia municipale, dichiara il luogo una “moschea abusiva” e fa piovere le multe e i divieti, invocando le norme urbanistiche. Se poi i fedeli optano per regolarizzare la loro posizione, come di solito accade, chiedendo i permessi e le autorizzazioni per una moschea con tutti i crismi, allora scatta immediatamente l’allarme sicurezza, al grido: “no, una moschea nel mio comune no!”.
Peraltro, il giochetto del gridare alle irregolarità, salvo poi negare uno spazio regolare, funziona da anni a Milano. Periodicamente torna sulla stampa cittadina la questione della moschea di viale Jenner, accusata frequentemente di essere coacervo di estremisti e mal sopportata dai residenti, poiché è troppo piccola per accogliere la massa dei fedeli. E così, ogni venerdì il traffico della zona va in tilt, con la gente che prega sul marciapiedi e anche oltre. Piccolo particolare: da anni la moschea vorrebbe spostarsi in luogo più idoneo e hanno pure raccolto i soldi necessari, ma ogni volta che presentano un progetto il comune nega qualche autorizzazione. Nel frattempo, i fedeli continuano a pregare per strada, i residenti si incazzano e, soprattutto, leghisti e postfascisti possono proseguire con i loro proclami anti-islamici sulla stampa.
Che non si tratti di qualche iniziativa estemporanea, ma di una linea politica, è poi confermata dall’iniziativa del centrodestra lombardo che, su sollecitazione della Lega, approvò nel giugno 2006 una modifica delle legge urbanistica regionale nella parte che regola i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili. Fino allora, come era ovvio, qualora questi non comportassero opere edilizie, non vi era necessità di chiedere il permesso di costruire. Ma, con la modifica leghista è scattata una incredibile eccezione: ora, nel solo caso che il mutamento sia finalizzato alla creazione di un luogo di culto, anche senza costruirci nulla, bisogna chiedere al sindaco comunque il “permesso di costruire”.
Terzo caso: i phone center. Si tratta dei centri di telefonia fissa, gestiti e frequentati soprattutto da cittadini immigrati. E questa è anche la loro grande colpa. E così, nel 2006, Lega e An, in nome della sicurezza urbana, imposero la discussione di un progetto di legge regionale specifico per il settore. Alla fine, la legge regionale fu approvata (l.r. n. 6/2006), con voto bipartisan Centrodestra-Ulivo, in una versione certamente attenuata rispetto al progetto originario, ma integra nella sua filosofia di fondo, cioè nell’obiettivo di provocare la chiusura forzata del maggior numero possibile di phone center. Le illegittimità contenute in quella legge, speciale e xenofoba, erano talmente macroscopiche che non solo tutte le sezioni del Tar della Lombardia accolsero tutti ricorsi, rinviando la questione alla Corte Costituzionale, ma persino l’Autorità nazionale garante della concorrenza e del mercato sollecitò formalmente Regione Lombardia a modificare la legge. Tuttavia, dalle parti di Formigoni tutto tace. Prima o poi arriverà la sentenza della Corte e la legge dovrà cambiare, ma nel frattempo i comuni lombardi, salvo qualche lodevole eccezione, continuano ad applicarla e numerosissime attività sono già state chiuse.
Quarto caso: la “polizia locale”. Secondo la legge nazionale si chiama polizia municipale, i cittadini la chiamano vigilanza urbana, ma dall’entrata in vigore della legge regionale n. 4 del 2003 in Lombardia si chiama polizia locale. Un cambio di denominazione non casuale, che allude a un cambio di pelle, di funzioni dei vigili urbani, in direzione di una polizia del sindaco, con competenze simili alle forze dell’ordine. Tutto ciò è ovviamente prematuro, poiché la normativa nazionale riserva in maniera esclusiva le funzioni di ordine pubblico agli organi statali, ma corrisponde perfettamente alle richieste e alle spinte di molti sindaci delle destre, nonché, da qualche tempo, anche di centrosinistra. Ma in Lombardia si tratta di un fenomeno in atto da parecchio tempo e il cambio di pelle, sebbene giocato sempre sul confine estremo della legalità, è un processo concreto.
Così, le polizie locali dei comuni lombardi, a partire dal capoluogo e da quelli governati dalla Lega, spostano sempre di più uomini e risorse verso le cosiddette “funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza”, emarginando contestualmente le funzioni proprie e tipiche della vigilanza urbana, che nessun altro più svolge. Oggi, a Milano, il poliziotto locale appare molto diverso rispetto al ghisa che conoscevamo. L’abbigliamento è più aggressivo e porta l’arma da fuoco e il manganello, chiamato però bastone distanziatore, per mantenere le apparenze di legalità. Ha persino fatto la sua comparsa, presso il campo rom di Triboniano, l’abbigliamento antisommossa, con tanto di giubbotto antiproiettili.
Una militarizzazione strisciante della vigilanza urbana che modifica, ovviamente, anche la selezione del personale. Diversi vigili urbani, specie di recente acquisizione, si sentono già poliziotti, ma senza disporre della medesima formazione. Quindi, capita facilmente anche il famoso “incidente”, come a Como nel 2006, quando un agente del “nucleo di sicurezza” della polizia locale, a caccia di writers, sparò alla testa del diciottenne Rumesh Rajgama Achrige, comasco di origine cingalese. Oppure, qualcuno si sente anche qualcos’altro, come quel gruppo di vigili milanesi che ha rivendicato pubblicamente di aver acquistato privatamente armi improprie, che è poi lo stesso che è sempre disponibile a svolgere determinati servizi in straordinario e che era rimasto coinvolto in una megarissa con dei cittadini peruviani in un parco cittadino nell’estate 2007. Per non paralare di quella banda di vigili urbani e carabinieri, sgominata grazie alla denuncia di un altro carabiniere, che a Calcio (Bg) organizzavano violenti raid notturni contro immigrati, intascandosi strada facendo anche droga e denaro.
Dell’urgenza di reagire
L’Italia, l’Europa e il mondo sono cambiati profondamente. Le trasformazioni epocali innescate dalle sconfitte del movimento dei lavoratori e delle sinistre negli anni Settanta, dall’affermazione globale del modello neoliberista e dal crollo dei regimi del “socialismo reale”, hanno modificato in profondità i rapporti di forza tra le classi sociali, tra quelli che stanno “sotto” e quelli che stanno “sopra”, e la stessa composizione dei soggetti sociali. Ma, come sempre accade nella storia, le trasformazioni strutturali e materiali necessitano di tempo per produrre compiutamente i loro effetti sul piano politico e culturale. E così, fino a poco tempo fa e, chissà, forse ancora oggi, a sinistra ci eravamo illusi di vivere ancora nell’epoca precedente e di poter, dunque, continuare come prima, aggiustando qualcosa di qui e qualcos’altro di là.
Ma oggi ci siamo. È ormai innegabile, incontrovertibile e palese che in Italia e su tutto il vecchio continente l’egemonia culturale appartiene alle destre, alle loro tesi, alla loro Weltanschauung. Di questo impianto culturale egemone è parte integrante il discorso sulla sicurezza, così come oggi si esprime concretamente, e le sue conseguenze sul piano delle coscienze e dell’organizzazione istituzionale e normativa. E non ne rappresenta un accessorio, bensì parte centrale e trainante.
Ecco perché frasi del tipo la sicurezza non è né di destra né di sinistra, se pronunciate da esponenti di sinistra o semplicemente democratici, rappresentano un autentico disastro politico e culturale. Sono espressione di una subalternità interiorizzata o di una profonda incomprensione delle dinamiche in atto. L’immaginario e l’orizzonte di un’alternativa di società, di un altro mondo possibile, non possono convivere con quelli del securitarismo, semplicemente perché alludono a due modelli di società diversi, alternativi e antagonisti.
Il Partito Democratico ha scelto, prendendo atto del cambiamento epocale e dichiarando chiusa ogni prospettiva di trasformazione, di alternativa. A modo suo rappresenta una risposta, non priva di efficacia, ma che, appunto, risponde alla crisi della sinistra, fuoriuscendo dalla sinistra stessa, e assumendo l’imperativo del governare comunque, a qualsiasi prezzo. E così che si è avviata la rincorsa delle destre anche sul terreno del securitarismo, contribuendo a diffonderlo e accreditarlo, anzi, a sdoganarlo a livello di massa. Nel salto di qualità negativo registrato nel 2007, le responsabilità del Partito Democratico sono immense.
Ma se il Piddì ha scelto comunque una strada, a sinistra sembra invece prevalere il disorientamento strategico, il tatticismo e il navigare a vista. Le troppe reticenze e rimozioni rispetto all’imperante securitarismo sono paradigmatiche. Beninteso, combattere il securitarismo e quello che comporta non è facile, Anzi, può essere terribilmente complicato per un amministratore locale, solo nel suo ufficio e assediato dall’isteria securitaria, non cedere e trovare altre strade. E può essere persino difficile, per un militante qualsiasi della sinistra, governativo o anti-governativo che sia, sostenere la discussione con il suo vicino di casa, quando scatta la psicosi.
Tuttavia, non ci sono scorciatoie e furbizie tattiche che reggano, poiché in questo stato di cose si rispecchia fedelmente la crisi della sinistra. Il discorso sulla sicurezza funziona, perché è capace di entrare in sintonia con le condizioni e gli stati d’animo di ampi strati popolari. Fornisce una lettura della realtà, dei nemici e delle “soluzioni”. Insomma, offre delle risposte, passando per la pancia e le mille paure, e a nulla serve replicare che la lettura è falsa coscienza, che i nemici sono quelli sbagliati e che le “soluzioni” non risolvono nulla, se poi non hai delle alternative credibili e, spesso, non sei nemmeno più presente fisicamente nei luoghi di vita e di lavoro.
Il securitarismo non si batte semplicemente resistendogli, anche se questo è il primo e necessario passo, bensì ripartendo dalle condizioni sociali concrete e dalla risintonizzazione delle sinistre con esse.
Le involuzioni e le derive in atto parlano una lingua chiara. Oggi, la questione del securitarismo è intimamente legata a quella della sinistra tout court. Per questo, continuare a minimizzare o rimuovere significherebbe mettere una grave ipoteca sulla possibilità di ri-fare la sinistra.
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