Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 maggio 2006 (pag. Milano)
Ha vinto la Moratti, ha perso Ferrante. Certo, rispetto a cinque anni fa il divario tra centrodestra e centrosinistra è diminuito notevolmente. E facciamo bene a sottolinearlo, poiché ci ricorda che a Milano e in Lombardia non siamo destinati a morire per forza berlusconiani, leghisti e post-fascisti. Eppure, non possiamo accontentarci di questa osservazione. Sa un po’ troppo di auto-assoluzione.
E per favore, ora non si dica che Ferrante era un candidato troppo debole, inadatto per una così alta sfida. Beninteso, egli avrà sicuramente dei limiti, ma onestà vuole che riconosciamo che in questa campagna elettorale il limite principale risiedeva nella coalizione che lo sosteneva, come la grottesca vicenda del Primo Maggio ha simboleggiato in maniera eloquente. È come se si fosse data per persa la partita, prima ancora di averla giocata.
L’analisi del voto va ovviamente affrontata con il tempo e la cura necessari, tuttavia ci pare evidente che l’astensionismo abbia colpito non soltanto le destre, come tradizione vuole, ma in maniera significativa anche l’Unione. Insomma, non siamo riusciti a motivare e mobilitare sufficientemente il nostro elettorato e ancor meno a realizzare incursioni in quello del centrodestra. Colpa del fatto di non averci creduto fino in fondo in campagna elettorale, sicuramente, ma anche dell’assenza di un cuore politico pulsante, cioè di un insieme di proposte forti e comprensibili che potessero indicare una politica alternativa per la città.
Lunghi mesi furono infatti spesi nella discussione del Cantiere, luogo di elaborazione del programma dell’Unione, con il coinvolgimento di movimenti e associazioni. Ma questi ultimi si sono presto persi per strada, evidentemente poco affascinati dall’imperante politicismo, mentre il programma si è trasformato in un illustre sconosciuto per la quasi totalità dell’elettorato.
Ma sullo sfondo si staglia la madre di tutte le questioni, tuttora irrisolta, cioè la crisi della sinistra milanese e la sua incapacità di pensare, costruire e comunicare un modello alternativo di città. Non basta sperare che prima o poi il riflesso delle dinamiche nazionali risolva il problema Milano. È qui che sono nati il berlusconismo e il leghismo, è qui che hanno scavato radici profonde ed è qui che vanno sconfitti. Ma per fare questo occorre ri-costruire consenso sul territorio, ritornare ad immergersi nei ceti popolari, nativi e migranti, e nei loro bisogni.
E questo non è un problema di altri, è anzitutto un problema nostro, della cosiddetta sinistra radicale. Messi tutti insieme, Prc, Verdi, Lista Fo’ e PdCI, realizzano a Milano un risultato inferiore a quello del 2001 (allora c’era anche Miracolo a Milano), mentre Rifondazione Comunista paga un prezzo altissimo, scendendo a un inedito 4,2%. Potremmo elencare molti fattori per spiegare questo dato, tra cui la frammentazione determinatasi con la Lista Fo’, ma non centreremmo il problema, che appunto sta da un'altra parte.
Ripartire in maniera autocritica, anzitutto come sinistra radicale e Rifondazione, da questo risultato elettorale non è soltanto un atto di rispetto per le scelte dei “nostri” elettori, ma è condizione imprescindibile per poter costruire, da domani in poi, un’opposizione incisiva alla Moratti e un percorso politico e sociale per un’altra città.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 11 febbraio 2006
L’aveva detto Umberto Bossi, sarebbe stata una campagna elettorale all’insegna dell’omofobia e della xenofobia. E la Lega, come un sol uomo, si è scatenata, dagli insulti razzisti di Calderoli in diretta tv fino alla mozione leghista nel consiglio comunale di Milano che vorrebbe imporre allo straniero richiedente la cittadinanza italiana un questionario, contenente domande illuminanti tipo “cosa pensa dell’omosessualità?” oppure “è giustificabile una reazione violenta per bloccare vignette?”.
Così vanno le campagne elettorali, dice qualcuno per minimizzare. Poche settimane fa, un esponente di primo piano dei DS, come Bersani, ha persino riesumato il concetto di “forza popolare” per dire che in fondo con la Lega si può anche parlare. Insomma, è netta la sensazione che dietro gli scandali per gli “eccessi” leghisti, dalla durata solitamente effimera, si nasconda in realtà una drammatica sottovalutazione politica.
E allora ripartiamo dalla Lombardia, terra natale e roccaforte della Lega Nord. Viste da qui le campagne leghiste dal tenore esplicitamente xenofobo o razzista non sono né una novità, né un’appendice, ma piuttosto una costante dominante.
Da tempo ormai la parola d’ordine dell’autonomismo ha perso la sua forza propulsiva ed espansiva e oggi appartiene soprattutto al ceto politico e ad alcuni interessi materiali ben identificati. Il federalismo, poi, non è più appannaggio della sola Lega, essendosi trasformato nella bandiera di tanti, dall’abile Formigoni fino a buona parte della sinistra moderata, come ci aveva dimostrato la sciagurata modifica del titolo V della Costituzione. Insomma, il classico “Roma ladrona” ha fatto il suo tempo.
L’ostilità nei confronti del diverso ha sempre fatto parte del bagaglio politico e culturale del leghismo, ma è soltanto negli ultimi anni che ha assunto il predominio, in concomitanza con il manifestarsi delle conseguenze sociali delle politiche liberiste. La perdita di potere d’acquisto di salari e pensioni, l’espansione della precarietà del reddito e della vita e i tagli al welfare stanno aumentando sempre di più le difficoltà quotidiane per ampie fasce popolari e producono un diffuso sentimento di insicurezza, specie nelle aree metropolitane. Ovvero, il brodo di coltura ideale perché le incertezze e le paure si traducano in avversione per il diverso, in primis per i diversi per antonomasia, cioè i migranti, che nella sola Lombardia sono ormai quasi un milione.
Insomma, la Lega ha scelto deliberatamente un cambio di strategia, mettendo in secondo piano l’autonomismo e sostituendolo con la xenofobia e l’islamofobia. Un discorso politico certamente rozzo, ma per nulla improvvisato e, anzi, perseguito con perseveranza. Una linea politica praticata in maniera martellante in Lombardia. Sulle tv locali è un succedersi senza soluzioni di continuità di insulti e requisitorie degne del Ku Klux Klan. Altro che le battute di Calderoli sulle “abbronzature”! I consigli comunali, provinciali e regionale sono pieni di iniziative dal sapore discriminatorio e razzista, contro le moschee, le scuole arabe, i rifugiati, i rom, i “clandestini”, gli immigrati che rubano la casa agli italiani e così via.
In altre parole, la Lega ha scelto di occupare uno spazio politico analogo a quello occupato in Francia da Le Pen. Non a caso, in Lombardia la Lega ha sorpassato a destra AN. E come succede in Francia con Sarkozy, quello è uno spazio che fa gola a molti e il razzismo della Lega riesce a contaminare e trascinare. Infatti, è del Sindaco di Milano, targato Forza Italia, e non della Lega la definizione grottesca, ma significativa, di “clandestini con regolare permesso di soggiorno” per i rifugiati politici di via Lecco.
Fare dunque finta che si tratti soltanto di campagna elettorale è un grave errore. La deriva lepenista della Lega è deliberata e lucida e i danni che provoca nel corpo sociale la legittimazione incessante delle tesi razziste e dei toni da crociati sono alla lunga incalcolabili. Bisogna porvi un freno e questo non può essere compito della sola Rifondazione, ma riguarda tutta l’Unione. E ci sono soltanto due modi per farlo: cominciare a chiamare le cose con il loro nome, senza reticenze e ipocrisie, e soprattutto con una politica in materia di immigrazione dichiaratamente e radicalmente alternativa a quella sinora praticata.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 12 nov. 2005 (pag. Milano)
Bruno Ferrante piace alla sinistra radicale e agli antagonisti. È questo il leitmotiv che domina la stampa in questi giorni. La Repubblica aveva persino osato un audace “e la sinistra-sinistra scende dalle barricate”.
Un paradosso! esclamano in molti. Sarà, ma forse la verità è più semplice, anche se più preoccupante. Il paradosso vero è che parte della sinistra italiana sembra aver smarrito la bussola, trasformando le proprie subalternità culturali in linea politica. Semmai, il paradosso milanese non è altro che un pallido riflesso di quello bolognese, dove invece un ex-sindacalista si comporta da Sarkozy nostrano.
Ma attenti alle illusioni ottiche. Anche a Milano, autorevoli esponenti della sinistra moderata non perdono occasione per invocare legalità e sicurezza, per dire che di cose come il Cpt di Via Corelli o di una politica alternativa in tema di immigrazione proprio non si deve parlare. Insomma, sotto il paradosso milanese cova silenzioso, ma insistente il quello bolognese.
A Cesare ciò che è di Cesare; quindi a Bruno Ferrante va riconosciuto quanto fatto come prefetto e quanto detto finora come neo-candidato. E sono comprensibili –e condivisibili- i sollievi da scampato pericolo dopo il tormentone neocentrista di Veronesi e le ruspe cofferatiane. Ma detto questo, quella parte di società politica e civile milanese, detta “sinistra radicale”, corre il pericolo di rimanere incastrata nel sollievo e persino di dividersi tra “aperturisti” verso Ferrante e sostenitori di Dario Fo. Il problema vero, invece, non è Ferrante o Fo, bensì con quale programma, con quale progetto, con quali idee si vuole governare Milano dopo i lunghi anni bui del dominio delle destre.
Le destre a Milano si sono occupate anzitutto di svendere e privatizzare, di ignorare con arroganza le istanze provenienti dalla società, scontrandosi sempre e comunque: dai tranvieri ai lavoratori della Scala, dai centri sociali ai comitati e associazioni di quartiere. I e le milanesi oggi stanno peggio, sempre più precarizzati nel lavoro e nella vita, con il disagio sociale e il degrado che si sono allargati, con sempre più famiglie che si indebitano, con le giovani coppie che scappano nell’hinterland per poter pagare l’affitto o il mutuo. Per non parlare poi come vengono trattati i nuovi milanesi, cioè quei 180mila migranti presenti sul territorio, accettati come manodopera a basso costo, ma mai come persone portatori di diritti. Ne sono triste simbolo alcune vie cittadine, come Corelli, Capo Rizzuto o Quaranta.
Ecco perché il problema non sono tanto il nome e il profilo del candidato sindaco, bensì i contenuti e le proposte. Ecco perché, per esempio, è importante che alle primarie cittadine non si ripeta lo scandalo dell’esclusione de facto dei migranti e si produca invece un fatto politico qualificante con una loro partecipazione massiccia. Ecco perché in questi mesi la sinistra radicale dovrebbe aprire un grande confronto sul territorio e con i soggetti sociali per costruire un progetto alternativo di città. E le priorità ce le indica la realtà: partecipazione e inclusione, lotta alla precarietà, condizioni di lavoro, rilancio dell’intervento pubblico, casa, riqualificazione dei quartieri popolari, diritti sociali e di cittadinanza uguali per tutti e tutte.
Quindi, altro che scendere dalle barricate. Questo sarebbe davvero il peggior servizio che si possa rendere a Milano.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 8 nov. 2005
Bologna non è una questione bolognese. Piuttosto, complice il piglio autoritario di Cofferati, è il luogo dove uno dei principali nodi politici e strategici dell’Unione è venuto al pettine. E, si badi bene, non si tratta semplicemente di qualcosa che riguarda il rapporto tra sinistra moderata e Rifondazione, bensì concerne il baricentro politico e il progetto di società degli eventuali futuri governi, nazionale e cittadini, del centrosinistra.
Altro che resa dei conti tra Rifondazione e Cofferati, come molte interessate opinioni sostengono. Siamo semmai di fronte al tentativo, nemmeno troppo velato, di mettere nell’angolo la sinistra radicale e di movimento, di espellere le sue istanze di cambiamento dall’orizzonte del centrosinistra e di spostare il centro di gravità dell’Unione verso destra.
Se preoccupante è l’operazione politica che si intravede, inquietante è il terreno prescelto. Chi scrive, vive e fa politica in una città e in una regione, cioè Milano e la Lombardia, dove le destre governano da tempo immemorabile. Legalità, ordine, sicurezza e tolleranza zero non sono certo delle novità, anzi sono parole d’ordine strasentite e ormai persino un po’ logore. Destinatari principali di quelle invocazioni securitarie sono da sempre i migranti, ma non vengono risparmiati nemmeno autoferrotranvieri in sciopero, centri sociali, occupanti di casa e lavoratori della Scala. Sempre e comunque ridotti a una questione di ordine pubblico, laddove le questioni sociali vengono invece bellamente ignorate.
La città è peggiorata, la precarietà del lavoro e della vita imperversa, le giovani coppie scappano nell’hinterland, perché affittare o comprare una casa è diventata un’impresa impossibile, le famiglie milanesi si indebitano sempre di più per far fronte alle spese normali, l’area del disagio sociale si è allargata e i 180mila nuovi cittadini, cioè i migranti, vengono guardati con sospetto, non per quello che fanno o non fanno, ma per quello che sono. Che dire, se non che siamo di fronte a un bilancio fallimentare e denso di nubi per il futuro?
Eppure, sarebbe sufficiente riflettere su quanto avviene ora in Francia, su quella rivolta dei figli e dei nipoti dei migranti, nati è cresciuti in terra francese, cittadini sulla carta, ma nella vita reale relegati nei ghetti urbani, nell’esclusione e nel degrado civile e sociale.
Il problema non si chiama legalità sì o legalità no. Il problema è il modello di società che intendiamo perseguire. Il problema è se assumiamo come nostro nemico da battere la povertà oppure i poveri, l’esclusione oppure gli esclusi, la condizione di clandestinità oppure i “clandestini”. Dalla risposta che diamo a tali quesiti discendono due politiche diverse e opposte.
Allo stato attuale, sia nella Milano di Albertini che nella Bologna di Cofferati, legalità e sicurezza non sono state altro che una clava impugnata per dare addosso a migranti, lavoratori e studenti. Quando mai abbiamo visto un simile impegno per altre illegalità, sicuramente più nocive, come l’evasione fiscale, equivalente al 7% del PIL, o quella contributiva, visto che secondo l’Inps nella sola efficiente Lombardia il 75% delle aziende ispezionate nel 2004 risultavano irregolari?
Insomma, il problema vero per la sinistra è uscire da quella subalternità culturale e politica che provoca balbettii ogniqualvolta si tocca il tasto della sicurezza o dell’immigrazione. Una subalternità che nel caso di Cofferati è diventata una esplicita rivendicazione. Occorre invece un autentico rovesciamento della questione, dello stesso concetto di sicurezza, mettendo al centro la giustizia sociale, i diritti di cittadinanza e l’inclusione. Continuare a rincorrere la destra sul suo terreno ci porta diritti alla sconfitta, anche quando si vincono le elezioni.
Qualcuno sembra invece aver deciso che Bologna è l’occasione buona per stroncare sul nascere la possibilità di una politica alternativa e per esigere delle rese preliminari. Ecco perché Bologna non è soltanto una questione bolognese ed ecco perché non possiamo permetterglielo.
Che nessuno si nasconda dietro un dito, il no dei cittadini francesi non è un incidente di percorso. Dalle urne di oltralpe esce sconfitta non un’Europa generica, bensì il progetto concreto di un’unificazione continentale su base iperliberista, dove i diritti sono ridotti a variabili dipendenti delle scelte dei potentati economici. Esce sconfitto un trattato costituzionale scritto da ristrette élite governative a propria immagine e somiglianza ed illeggibile per la grande maggioranza dei cittadini europei.
Il no francese non è un disastro, ma piuttosto una salutare boccata d’ossigeno. In Italia ci consegna l’opportunità di riaprire quel dibattito politico, soffocato in un ovattato clima bipartisan, per cui si sarebbe trattato semplicemente di uno scontro tra europeisti ed anti-europeisti. Ed ecco un parlamento italiano che approva il trattato costituzionale senza alcuna consultazione popolare, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini non ha mai avuto la possibilità di sapere che cosa ci fosse scritto.
Dalla Francia non ci viene un no all’Europa tout court, ma a questa Europa, generosa con i ricchi e impietosa con i lavoratori. Un no ad un’unificazione che affossa il modello sociale europeo per sposare quello “americano” e che pratica una politica lontana dai cittadini e dalle cittadine. Invece di insistere su una strada sbagliata e fallimentare, magari per consegnare il futuro del continente ai neo-nazionalismi, occorre ripartire da qui, per rilanciare un’altra Europa, che metta al centro i diritti sociali e di cittadinanza e si basi sulla partecipazione democratica dei cittadini e delle cittadine.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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