Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 31/03/2008, in Lavoro, linkato 1186 volte)
Mentre nella nostrana campagna elettorale Berlusconi e Veltroni cantano in coro l’inno al “patto tra produttori” e annunciano la morte della lotta di classe per sopraggiunti limiti di età, dalla vicina Svizzera, considerata per molto tempo un modello di pace sociale, arrivano segnali diametralmente opposti.
Infatti, gli operai delle Officine FFS di Bellinzona sono in sciopero ad oltranza sin dal 7 marzo scorso contro lo smantellamento del loro stabilimento e stanno raccogliendo una vasta solidarietà da parte della popolazione locale e persino delle istituzioni. Tanto per capirci, il capoluogo del Canton Ticino conta soltanto 17mila abitanti, ma alla manifestazione di ieri 30 marzo hanno partecipato oltre 10mila persone (12mila per il comitato di sciopero, 8mila per la polizia).
La storia dei 400 operai di Bellinzona è simile a molte altre di questi tempi di liberismo e privatizzazioni. Cioè, le ferrovie svizzere hanno deciso, annunciandolo alle maestranze per mezzo stampa (sic), un “piano di ristrutturazione completo” per Cargo FFS, una delle quattro società in cui sono state suddivise le FFS, che prevede la soppressione tout court delle storiche Officine per la manutenzione di Bellinzona. E, come sempre in casi del genere, di mezzo non ci sono soltanto i posti di lavoro dello stabilimento da liquidare, ma anche quelli dell’indotto.
I lavoratori sono ormai alla quarta settimana di sciopero e preparano una nuova manifestazione per mercoledì 2 aprile. Insomma, mandateli un segno di solidarietà, andando sul loro sito (www.officine.unia.ch) e firmando l’appello in loro sostegno.
Un altro sito utile da vistare è quello del sindacato svizzero dei trasporti (www.sev-online.ch/it).
 
 
Mentre le polemiche politiche sui destini di Malpensa riempiono quotidianamente la stampa, quasi nulla si dice dei licenziamenti che potrebbero prodursi già in questi mesi nello scalo varesino. Si tratta degli oltre 500 dipendenti precari della Sea.
Infatti, negli ultimi sei-sette anni la società di gestione degli aeroporti milanesi ha fatto vieppiù ricorso al lavoro precario -a tempo determinato e interinale-, non per fare fronte ai picchi stagionali, bensì per coprire l’organico di Malpensa. E così, i lavoratori precari rappresentano attualmente ben oltre il 50% degli operai addetti al carico e scarico degli aerei e alla movimentazione dei bagagli, nonché il 40% degli impiegati della registrazione e degli imbarchi.
Questi lavoratori, oltre al danno degli anni di ingiustificato precariato, rischiano ora anche la beffa della disoccupazione. E l’azienda non deve neanche parlare di licenziamento, perché semplicemente scade il contratto, quasi per tutti entro la fine di marzo, e non c’è nemmeno la possibilità di accedere a qualche ammortizzatore sociale.
Riteniamo che non sia sufficiente riempire i mass-media con dichiarazioni e proclami roboanti, ma che occorra anzitutto produrre dei fatti concreti. E la Sea, considerato anche il prolungato abuso dei contratti temporanei, ha una indubbia e primaria responsabilità rispetto al destino di questi lavoratori, che vanno trattati alla stregua di tutti i dipendenti e non scaricati alla prima occasione.
Su pressione delle organizzazioni sindacali, la Sea ha rinviato i primi licenziamenti, prorogando di un mese i 102 contratti a tempo determinato in scadenza il 31 gennaio, mentre nulla si sa circa i 122 lavoratori interinali che scadranno sempre a fine gennaio.
Chiediamo pertanto alla Sea e, soprattutto, al suo azionista di maggioranza, il Comune di Milano, e a quello di minoranza, la Provincia di Milano, di non limitarsi a qualche rinvio temporaneo, ma di farsi carico fino in fondo di questi lavoratori, adottando da subito una moratoria sui licenziamenti, comunque chiamati. E c’è un’unica maniera per farlo, cioè trasformare i contratti precari in contratti a tempo indeterminato.
Da parte nostra, ribadiamo contrarietà al piano Air France e disponibilità a sostenere tutte le iniziative idonee a salvaguardare l’occupazione a Malpensa, purché si scenda dal treno della propaganda e si faccia sul serio. E, in questo senso, la vicenda dei precari a rischio licenziamento rappresenta per noi un banco di prova.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 11/01/2008, in Lavoro, linkato 1810 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 11 genn. 2008 (pag. Milano)
 
Minacce, negazione dei diritti sindacali minimi, lavoro irregolare e condizioni di salubrità e sicurezza considerati un optional sono il pane quotidiano che accompagna il duro lavoro degli operai del centro logistico di Cascina Nuova, nel comune di Lacchiarella (Milano). E così, ieri una quarantina di loro, aderenti al sindacato SdL intercategoriale, hanno incrociato le braccia e presidiato i cancelli.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso e portato allo sciopero è stato l’ennesimo sopruso a danno di un delegato sindacale interno, fatto allontanare dal posto di lavoro, con tanto di intervento dei carabinieri, unicamente perché aveva risposto a una telefonata. Dall’altra parte, questo sembra essere il trattamento normale riservato a ogni lavoratore che osi fare attività sindacale, visto che di recente due rappresentanti sindacali (Rsa) della Cisl sono stati addirittura licenziati in tronco, sempre in base a delle quisquilie.
Intimidire e licenziare è cosa assai semplice da quelle parti, poiché praticamente tutti gli operai lavorano per delle cooperative, nella fattispecie per l’Uniter e la C.C.C. Scarl, in qualità di soci-lavoratori. Quindi, ti dichiaro non più socio e il gioco è fatto, senza fastidiosi articoli 18. A tutto questo si aggiunga che la grande maggioranza degli operai sono immigrati non comunitari e quindi più ricattabili, o considerati tali, di altri.
In fondo, con lo sciopero gli operai non chiedono la luna, bensì cose molto più elementari, cioè il rispetto delle norme di legge e  dei diritti sindacali. Infatti, sembra che non basti fare la segnalazione delle numerose irregolarità alle autorità competenti, perché qualcuno intervenga, come dimostra per esempio il fatto che l’Asl non si è ancora fatta vedere, nonostante una denuncia formale del sindacato di otto giorni fa.
Ora qualcuno deve assumersi le proprie responsabilità, a partire dal noto gruppo Standa-Billa. Ebbene sì, perché il centro logistico funziona da magazzino per i punti vendita del gruppo, anche se nessuno dei 300 operai risulta essere un dipendente Standa-Billa. Ma il gioco è sempre lo stesso e ormai molto in voga, persino nelle pubbliche amministrazioni. Cioè, non assumo nessuno in maniera regolare, ma appalto ed esternalizzo il “servizio” a delle cooperative e, quindi, non vedo, non sento e non parlo.
La situazione di Lacchiarella non rappresenta un’eccezione, ma piuttosto uno specchio di quello che avviene in maniera sempre più vasta nell’intera economia del nostro territorio. Delle autentiche zone franche, dove leggi e contratti semplicemente non esistono. Eppure, nessuno sembra curarsene, anzi, è molto più comodo e redditizio fare finta di niente, salvo poi inventarsi le campagne di criminalizzazione degli immigrati.
Gli operai che ieri hanno trovato il coraggio di scioperare e denunciare meritano che gli si dia ascolto e che si impedisca che domani subiscano nuove intimidazioni. Ecco perché chiediamo alle autorità di vigilanza di svolgere i necessari controlli e alla Standa-Billa di porre fine all’omertà e di assumersi tutte le responsabilità del caso.
 
 
Da settembre dell’anno scorso, migliaia di precari lombardi si vedono rifiutare dai Centri per l’impiego provinciali le loro domande per i posti di lavoro temporanei presso le pubbliche amministrazioni della regione.
Si tratta delle cosiddette “chiamate art. 16”, cioè di assunzioni a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni per qualifiche che richiedono l’unico requisito dell’assolvimento della scuola d’obbligo (bidelli, cantonieri, videoterminalisti, giardinieri ecc.). Certo, si tratta di posti di lavoro a tempo determinato e sicuramente non ben pagati, ma era pur sempre una possibilità di reddito in più.
Ebbene, con le nuove modalità e procedure, definite dalla Giunta regionale nel giugno 2007 e, poi, applicate dalle Province lombarde, i precari fino allora considerati “privi di occupazione”, perché con reddito annuo lordo inferiore a 8.000 euro, non possono più accedere alle domande.
Si tratta di una situazione inaccettabile in sé, perché colpisce un settore di lavoratori già svantaggiato, e inoltre in contrasto con la normativa nazionale, nonché con la prassi seguita dalle regioni limitrofe (Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte).
Pertanto, oggi abbiamo depositato un’interpellanza al competente assessore regionale, chiedendo di ristabilire il regime precedente e di rimuovere l’esclusione dei precari.
 
qui puoi scaricare il testo dell’interpellanza
 

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di lucmu (del 07/12/2007, in Lavoro, linkato 964 volte)
Alla faccia di quanti ritengono la legge 30 una cosa positiva e il protocollo sul welfare il migliore possibile, il rapporto annuale 2007 del Censis conferma che la precarietà continua a dilagare, specie tra i giovani. Ecco cosa dice il Centro Studi Investimenti Sociali a questo proposito: “dei quasi 1 milione 900 mila lavoratori che hanno trovato un’occupazione, il 38,2% ha un contratto a termine, l’8,7% un contratto di lavoro a progetto o occasionale e il 36,1% un contratto a tempo indeterminato. Tra gli under 35 si registre la più elevata incidenza di contratti atipici. I giovani infatti rappresentano la parte decisamente maggioritaria - il 58,2% - del lavoro atipico in Italia. Ma nel 2006, su 902 mila lavoratori che si sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono ritirati dal lavoro, più di 346 mila erano persone con meno di 34 anni (il 38,4%) e il 22,2% persone dai 35 ai 44 anni.”
 
Per consultare l’intero rapporto Censis: http://www.censis.it/
 
 
 
di lucmu (del 05/12/2007, in Lavoro, linkato 1101 volte)
Che lavorare di notte e fare i turni non faccia bene alla salute, cioè che ti “usura” più che lavorare nelle sole ore diurne, lo sapevamo già. Ma, secondo uno studio di un’agenzia dell’Oms, l’International agency for research on cancer, chi fa i turni sarebbe anche più esposto al rischio tumore.
Le conclusioni dello studio sono state pubblicate sul numero di dicembre della rivista specializzata The Lancet Oncology e rappresentano il primo tentativo di riunire i risultati prodotti da ricerche di dieci diversi paesi. Si tratta di studi di avanguardia, per ora limitati ai casi di personale ospedaliero e assistenti di volo, ma che fanno concludere ai ricercatori che vi è un nesso tra rischio tumore e lavoro notturno. In particolare, una ricerca di Seattle (Stati Uniti) ha evidenziato che le lavoratrici che svolgevano turni di notte presentano un rischio di tumore al seno superiore del 60% rispetto alle loro colleghe che lavorano soltanto di giorno.
Dalle nostre parti, la notizia delle conclusioni di questo studio è stata ripresa da pochissimi organi di stampa. Forse per semplice disattenzione o forse perché la salute dei lavoratori non interessa il circo mediatico. Eppure, quasi il 20% della forza lavoro in Europa e America del Nord fa i turni, specie nella sanità, nell’industria, nelle comunicazioni e nei trasporti.
O forse non è stato dato risalto alla notizia per semplice vergogna, visto che proprio pochi giorni fa il governo ha impedito, ponendo la fiducia in Parlamento, che si accogliessero alcune modifiche al protocollo sul welfare già concordate in commissione, che peraltro avrebbero reso effettivo il diritto per i turnisti di essere considerati lavoratori “usurati”. Ebbene sì, perché così com’è rimasto il protocollo devi fare almeno 80 notti annue per poter rientrare nei lavori usuranti. Peccato, però, che nella realtà concreta la stragrande maggioranza dei turnisti faccia un numero di notti che si aggira attorno ai 70…
 
per saperne di più:
 
qui puoi scaricare l’articolo (in inglese) pubblicato da The Lancet Oncology

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di lucmu (del 19/11/2007, in Lavoro, linkato 1171 volte)
I lavoratori dipendenti hanno perso 1.900 euro di stipendio reale negli ultimi sei anni, se prendiamo come riferimento una busta paga da 25.890 euro. Questo è il dato forse più eloquente sulla condizione salariale in Italia, che emerge dal rapporto dell’Ires-Cgil su “Salari e produttività 2002-2007”, reso pubblico oggi.
Ma, andate a leggervi tutti i materiali prodotti dalla ricerca Ires, perché scoprirete quello che in realtà già sappiamo. Cioè, solo i lavoratori hanno perso, mentre le imprese e i dirigenti hanno migliorato la loro situazione economica. E così, una famiglia di operai ha perso circa 2.600 euro dal 2002 ad oggi, ma quella di professionisti e imprenditori ha guadagnato mediamente 12mila euro. Una vera e proprio redistribuzione alla rovescia, confermata anche dal fatto che sul 16,7% di crescita della produttività nel periodo 1993-2006, soltanto il 2,2% è andato al lavoro, mentre il restante 14,5% è stato assorbito dalle imprese.
 
I materiali completi della ricerca Ires li trovi qui: www.ires.it
 
 
e qui puoi scaricare direttamente il file con i dati relativi alla dinamica salariale:

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di lucmu (del 22/10/2007, in Lavoro, linkato 1034 volte)
Esprimiamo la nostra totale solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici in sciopero del trasporto aereo della Lombardia. Sono loro, infatti,  che rischiano di pagare il conto della crisi di Alitalia e del sostanziale caos in cui sono cresciuti gli scali lombardi negli ultimi anni.
Inutile nascondersi dietro facili ipocrisie, perché oggi vengono al pettine i nodi segnalati da tempo immemorabile anzitutto dalle organizzazioni dei lavoratori. La crisi della compagnia di bandiera è una crisi annunciata e i vari governi nazionali succedutIsi portano in eguale misura la responsabilità di aver lasciato degenerare la situazione. E ora, la scelta sembra essere semplicemente quella di liberarsi al più presto di Alitalia, rinunciando a un suo rilancio e riducendola a un ruolo subalterno all’acquirente di turno.
Le colpe, però, non stanno soltanto a Roma, ma anche in Lombardia. Infatti, gli scali regionali - Malpensa, Linate, Orio e Montichiari - sono cresciuti in questi anni senza che ci fosse un minimo di programmazione o coordinamento. Quanti governano la Regione Lombardia hanno sempre fatto orecchie da mercanti ogni volta che l’opposizione o i sindacati hanno chiesto di definire finalmente un piano del trasporto aereo, in grado di mettere un po’ di ordine nel caos. Anzi, qualche assessore regionale si è perfino spinto a parlare di Montichiari come il secondo hub lombardo…
Siamo francamente disgustati dal gioco dello scaricabarile innescato dal Presidente Formigoni, che sembra più interessato ad attribuire ogni colpa a Roma, piuttosto che ad assumersi le proprie responsabilità, dando un contributo per soluzioni possibili.
Pertanto, chiediamo ancora una volta che il piano industriale di Alitalia venga rivisto e che Regione Lombardia inizi finalmente a definire un piano del trasporto aereo, in coordinamento con le altre Regioni settentrionali e con il Governo nazionale, al fine di individuare una soluzione di sistema, capace di salvaguardare la quantità e la qualità dell’occupazione negli aeroporti lombardi.
 
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
di lucmu (del 13/10/2007, in Lavoro, linkato 1467 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 13 ott. 2007 (pag. Milano)
 
All’alba di lunedì 8 ottobre, la parte sud-orientale di Milano offriva uno spettacolo impressionante: centinaia di Tir sostavano un po’ ovunque e il consueto intasamento del traffico mattutino ne risultava così ulteriore amplificato. Persino i mezzi per la raccolta dei rifiuti dell’Amsa faticavano ad uscire dai loro depositi. Era questo l’effetto più visibile dello “sciopero spontaneo”, con annesso blocco degli ingressi, degli operai dell’Ortomercato milanese, la più grande struttura del genere in Italia con i suoi 450mila mq di superficie.
Lo sciopero, iniziato domenica sera e proseguito fino alla mattina successiva, era stato promosso da un nutrito gruppo di lavoratori delle cooperative storiche per rivendicare il rispetto delle misure di sicurezza -tre sono le morti bianche negli ultimi tre anni- e provvedimenti contro lo sfruttamento del lavoro nero. A bloccare gli ingressi erano circa 150 operai, sostenuti anche dalla presenza solidale di delegazioni di SdL intercategoriale, Slai-Cobas e C.s. Vittoria, nonché da una rappresentanza della segreteria della Filcams-Cgil.
Il tutto filava liscio per molte ore, poiché gli stessi camionisti, costretti a un lunga attesa, si mostravano assai comprensivi con gli scioperanti, ma verso le cinque del mattino, a riprova della situazione grave all’interno dell’Ortomercato, una cinquantina di persone, organizzate da personaggi ambigui, compreso qualche noto caporale, ha cercato lo scontro, al fine di forzare il blocco. Mossa comunque non riuscita, grazie al senso di responsabilità degli operai in sciopero e all’atteggiamento intelligente tenuto in questa occasione dalla questura.
Questa sintetica cronaca non rende tuttavia giustizia al coraggio dei lavoratori, perché scioperare all’Ortomercato -o semplicemente denunciare quanto vi avviene- non è facile, né esente da rischi. Ne sanno qualcosa due operai delegati alla sicurezza, Jose Dioli e Giuseppe Sangiorgi, che hanno subìto ripetutamente minacce e intimidazioni a causa della loro attività e che ora, in seguito allo sciopero, sono ulteriormente esposti.
Dall’altra parte, è di pubblico dominio che all’Ortomercato succeda un po’ di tutto. Una recente operazione delle forze dell’ordine aveva persino scoperto un traffico all’ingrosso di stupefacenti che faceva capo alla ‘ndrangheta. Eppure, tanti anni di denunce e fattacci non hanno migliorato significativamente la situazione, nonostante l’Ortomercato sia gestito da un ente pubblico, la Sogemi, che è una controllata del Comune di Milano. Solo di recente sono stati messi in cantiere progetti per migliorare la sicurezza e contrastare il lavoro nero, ma, come dimostra lo sciopero di domenica, quello che manca sono i fatti concreti. L’ennesima dimostrazione che a Milano le tante chiacchiere sulla legalità valgono soltanto per alcune categorie di sfigati, ma non per gli interessi consolidati.
 
allegato articolo versione pdf

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di lucmu (del 06/02/2007, in Lavoro, linkato 1781 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 6 febbraio 2007 (pag. Milano)
 
Esprimiamo la nostra totale solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici della WIND Telecomunicazioni, oggi in sciopero contro il progetto di esternalizzazione del call center di Sesto San Giovanni (Milano).
Quanto rischia di accadere ai 275 lavoratori di Sesto, in larga parte donne, è paradigmatico di un modus operandi delle società transnazionali. Infatti, una parte significativa delle crisi occupazionali che oggi si consumano in Lombardia non sono provocate da difficoltà aziendali o da bilanci in rosso, bensì dalla volontà di realizzare autentici super-profitti o da semplici operazioni finanziarie.
La WIND ha chiuso il bilancio 2006 in attivo, ma il nuovo padrone del gruppo, l’imprenditore e finanziere multinazionale Sawiris, quasi contestualmente con l’uscita definitiva dell’Enel, cioè del pubblico, dalla proprietà, ha annunciato l’esternalizzazione del call center di Sesto S. Giovanni. Gli obiettivi reali di questa operazione sono tuttora oscuri, ma è certo che manca qualsiasi piano industriale, che Sawiris ha accumulato debiti in altre sue attività in giro per il mondo e che il call center di Sesto è per certi versi atipico, cioè quasi tutti i dipendenti sono assunti a tempo indeterminato. Non a caso, la società Omnia Service, che dovrebbe assorbire il call center, brilla per l’utilizzo indiscriminato dei rapporti di lavoro precari.
Insomma, il gioco è semplice: mantengo inalterati i mercati di sbocco, ma realizzo un guadagno extra, scaricando i costi dell’operazione sui lavoratori e sulle comunità locali. Nel caso del gruppo WIND potremmo poi aggiungere un’ulteriore aggravante, cioè che circa il 30% del suo fatturato deriva da contratti con la pubblica amministrazione.
Emerge qui tutta la desolante assenza della politica, dove da troppo tempo ormai si teorizza che il mercato è un sovrano assoluto e che non si debba intervenire. A noi pare invece inaccettabile, nonché miope, non pretendere e imporre un minimo di regole, che anzitutto stabiliscano un principio elementare: se tu intendi continuare a fare i tuoi affari sul mio territorio, allora devi garantire la tenuta del livello occupazionale e rapporti di lavoro decenti.
La vicenda del call center di Sesto assume oggi una valenza più generale e non bisogna essere dei geni per capire che se passa l’esternalizzazione, allora si apriranno le porte ad ulteriori operazioni, sia nel gruppo WIND, che in altre società di telecomunicazione. Quindi chiediamo con urgenza che la Giunta Regionale della Lombardia e il Governo nazionale non lascino da soli i lavoratori e le lavoratrici, il Comune di Sesto e la Provincia di Milano e che venga bloccata questa indegna operazione.
 
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