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LE LARGHE INTESE SINDACALI SEQUESTRANO LA DEMOCRAZIA – RIFLESSIONI SULL’ACCORDO DEL 31 MAGGIO
di lucmu (del 05/06/2013 @ 15:10:13, in Lavoro, linkato 1837 volte)
Non merita sicuramente l’appellativo epocale, ma l’accordo sulla rappresentanza, firmato il 31 maggio scorso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, certifica indubbiamente un cambiamento di fase. Cioè, si chiude il periodo delle divisioni tra la Cgil e Cisl-Uil e si apre una nuova fase all’insegna della ricostituzione del quadro unitario tra le tre confederazioni, del restringimento della sfera di autonomia di lavoratori, delegati e categorie e della compressione della conflittualità sociale.
Insomma, in sintonia con il clima di larghe intese politiche, si ripropone, o si tenta di riproporre, lo schema neocorporativo e concertativo degli anni ’90 del secolo scorso, ma con la significativa differenza che oggi i rapporti di forza sono immensamente peggiori e i margini di manovra vengono continuamente erosi dalle politiche d’austerità. In altre parole, a queste condizioni il massimo che si può concertare è la resa e non è nemmeno detto che sia onorevole.
Molto difficile pensare che i vertici di Cgil, Cisl e Uil non avessero piena coscienza di ciò e ne è dimostrazione il fatto che il terreno concreto dell’accordo fosse proprio la questione della rappresentanza e della democrazia, cioè del chi e del come decide. Peraltro anche un altro accordo “storico”, quello del 23 luglio 1993, conteneva un nucleo duro dedicato alla questione. Infatti, lo scempio antidemocratico del 33% dei delegati RSU assegnati d’ufficio a Cgil-Cisl-Uil, a prescindere dal voto dei lavoratori, fu introdotto proprio allora.
L’accordo del 31 maggio va dunque valutato per quello che è e per quello che produrrà, da un punto di vista politico e da un punto di vista sostanziale.
 
La subalternità al quadro politico
Sembra quasi un controsenso parlare di subalternità al quadro politico nel momento storico in cui i partiti attraversano una crisi di credibilità e di legittimità senza precedenti e la politica appare più che mai ininfluente, anzi irrilevante, rispetto agli interessi sociali ed economici dominanti. Eppure, è proprio così. Anzi, fa sempre impressione constatare il basso livello di autonomia degli organismi dirigenti confederali dai partiti e dai governi. Beninteso, non tutte le grandi scelte sindacali si spiegano così, ci mancherebbe altro, ma è praticamente impossibile fare la storia recente delle divisioni e delle ricomposizioni dei gruppi dirigenti confederali senza tenere conto dell’evoluzione del quadro politico.
Il decennio di conflitti tra la Cgil e la Cisl, con la Uil di solito schierata con la seconda, è iniziato grosso modo nel 2003, con le grandi mobilitazioni della Cgil in difesa dell’art. 18. Erano gli anni del secondo governo Berlusconi e della riforma liberista del mercato del lavoro, ma anche dei movimenti no global e contro la guerra. I DS erano stretti tra i movimenti, la critica della base e un Berlusconi saldamente in sella e avevano necessità di fare opposizione. Nessuno invitava la Cgil a fermarsi, mentre la Cisl, fedele alla sua impostazione corporativa e collaborazionista, iniziava a rafforzare i rapporti con il centrodestra. Bonanni e il Ministro Sacconi facevano praticamente squadra e alla fine del decennio al Ministero del Lavoro c’era il pieno di dirigenti e funzionari targati Cisl.
L’esperienza del governo Prodi (2006-2008) era stata troppo breve e precaria per poter modificare il quadro, anche se in quella fase la Cgil aveva ovviamente abbassato parecchio la conflittualità. Poi era tornato Berlusconi e quindi anche l’antiberlusconismo, compreso quello sindacale.
La svolta iniziava a prendere corpo lentamente, ma inesorabilmente, a partire dal primo governo delle larghe intese, che vedeva il Pd in maggioranza. Già ai tempi di Monti il tasso di conflittualità espresso dalla Cgil era scandalosamente basso. Per intenderci, basso non rispetto alle aspettative di qualche estremista, bensì rispetto a quello che succedeva nel resto d’Europa. Persino il sindacato democristiano belga era più combattivo! Da noi invece, neanche uno sciopero generale, nemmeno contro la scandalosa riforma delle pensioni, e la stessa manomissione dell’articolo 18 da parte della riforma Fornero passò in maniera piuttosto indolore. Infine, è arrivato il governo Letta e con esso anche l’accordo del 31 maggio.
Certo, non tutto si spiega con il quadro politico ed è anche vero che la segreteria Camusso, nata prima dei governi delle larghe intese, aveva sin dall’inizio la mission strategica della ricostruzione dell’unità confederale e del rientro nei ranghi dei riottosi, a partire dalla Fiom. Tuttavia, è lampante che il quadro politico e, in particolare, il posizionamento del Pd eserciti un condizionamento determinante sui gruppi dirigenti della Cgil e, in ultima analisi, inibisca la costruzione di una battaglia sociale contro le politiche d’austerità.
 
Una democrazia escludente
Ma arriviamo al merito dell’accordo del 31 maggio. A suo favore si è detto che finalmente, dopo il pubblico impiego, anche nel settore privato sia stata regolata la rappresentanza sindacale, cioè che in qualche maniera sia stato attuato l’articolo 39 della Costituzione. Già, ma qui sta anche il primo enorme problema, cioè il primo vulnus. Se i titolari dei diritti e delle libertà sindacali sono i lavoratori, tutti i lavoratori, come si fa a ritenere soddisfacente, da un punto di vista democratico e costituzionale, una soluzione che assegna la regolamentazione dell’esercizio di tali diritti e libertà non a una legge, bensì a un accordo tra Confindustria e alcune organizzazioni sindacali, sebbene maggioritarie?
Non a caso, infatti, diversi giuslavoristi, come ad esempio Piergiovanni Alleva (vedi il Manifesto del 2 giugno scorso), pur valutando positivamente l’accordo, ritengono che un intervento legislativo sia tuttora necessario. Peccato però che a questo punto, con l’accordo del 31 maggio vigente, la speranza di vedere prima o poi una legge sia nel migliore dei casi una pia illusione.
Il fatto che siano delle parti in causa a scrivere le regole del gioco produce di per sé una distorsione e se, poi, questo avviene in un quadro segnato dalla recessione e dalla prospettiva di firmare contratti a ribasso per i lavoratori, allora eccoci di fronte alla realtà di una democrazia sotto tutela ed escludente, dominata anzitutto dalla preoccupazione di non perdere il controllo. E così, si realizza l’apparente paradosso di una situazione dove i contratti nazionali continuano a perdere forza e importanza rispetto ai contratti aziendali, ma contestualmente le organizzazioni sindacali tendono ad accentuare il controllo centrale e burocratico, riducendo l’autonomia e la forza dei livelli aziendali, Rsu e lavoratori, e delle categorie.
L’accordo del 31 maggio disegna un sistema escludente e autoreferenziale. Anzitutto esclude a monte tutte le organizzazioni sindacali diverse da Cgil, Cisl e Uil o che comunque, in un secondo momento, non accetteranno la linea dettata dalle tre confederazioni. Cioè, se non condividi l’accordo del 31 maggio, sei fuori.
Vi è poi la cosiddetta “soglia anti-Cobas”, per dirla con le parole di Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24 Ore. Il sistema prevede la misurazione della rappresentatività facendo una media tra la percentuale degli iscritti al sindacato e la percentuale di voti ottenuti nelle elezioni RSU, su base nazionale e per comparto contrattuale. Se superi il 5% allora puoi sederti al tavolo delle trattativa per il contratto nazionale, altrimenti sei fuori.
In linea di massima è lo stesso sistema già vigente nel Pubblico Impiego, ma con qualche significativa differenza. Anzitutto, nel privato il datore di lavoro non ha alcun obbligo di fare la trattenuta della quota sindacale in busta paga per un lavoratore iscritto a un sindacato non firmatario di contratti nazionali, come di solito sono i sindacati di base. E quindi, la certificazione del numero degli iscritti da parte dell’Inps, così come previsto dall’accordo del 31 maggio, semplicemente non è possibile in molti casi. In secondo luogo, al fine del calcolo della percentuale di voti ottenuti alle elezioni RSU non valgono tutti i voti dei lavoratori, ma “esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”.
In conclusione, il sistema non soltanto riproduce nel privato l’esclusione de facto dei sindacati conflittuali e di base, che spesso sono molto radicati e rappresentativi in alcuni luoghi ma che difficilmente raggiungono il 5% su scala nazionale, ma è persino peggiorativo. In questo senso, lascia aperto moltissime preoccupazioni per quello che potrà succedere a livello aziendale, in tema di diritti e libertà sindacali, man mano che gli effetti dell’accordo ricadranno sui livelli inferiori.
 
Delegati sotto tutela
Sarebbe tuttavia un grande errore pensare che l’accordo prenda di mira soltanto le organizzazioni sindacali di base, che negli ultimi due decenni hanno dimostrato di poter organizzare o sostenere lotte straordinarie (la vertenza dell’ospedale San Raffaele di Milano è l’ultimo caso in ordine di tempo), ma che complessivamente non sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di fondo, cioè la rottura del monopolio di Cgil-Cisl-Uil e il rinnovamento democratico e conflittuale del movimento sindacale italiano. Insomma, che sono rimasti troppo spesso ostaggio dei propri limiti e delle proprie divisioni.
No, l’accordo del 31 maggio si preoccupa anzitutto e soprattutto di disciplinare e mettere sotto controllo le realtà aziendali e categoriali che eventualmente non dovessero attenersi alle indicazioni del centro. E non importa che siano Cobas, delegati della Cgil o della Cisl, gruppi autorganizzati di lavoratori eccetera, importa evitare che si possano organizzare focolai di resistenza e di conflitto, laddove il centro ha invece deciso che deve regnare la calma.
Lo so, a qualcuno questo giudizio può sembrare eccessivo e a sostegno della sua critica potrebbe citare il fatto che l’accordo del 31 maggio abolisce la vergogna del 33% garantito a Cgil, Cisl e Uil e prevede l’elezione con voto proporzionale dei delegati RSU. Verissimo, l’abolizione del 33% è una cosa buona e, aggiungerei, anche sacrosanta dopo 20 anni (sic), ma in fondo il 33% ha perso anche la sua utilità in presenza di un sistema di per sé escludente.
Che non ci sia, da parte delle segreterie di Cgil, Cisl e Uil, una grande voglia di rendere protagonisti i lavoratori e i delegati è poi dimostrato da altre due clausole contenute nell’accordo. La prima prevede che laddove non siano già costituite delle RSU elette, “il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo”. La seconda, che rappresenta un’autentica new entry, stabilisce una sorta di mandato imperativo per i delegati RSU. Cioè, “il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica”. Certo, si tratta della solita norma anti-Cobas, ma non solo, perché funzionerebbe egregiamente anche per un delegato eventualmente espulso dall’organizzazione, tanto per fare un esempio. In altre parole, una spada di Damocle e un monito perenne, per non dimenticare mai che alla fin della fiera devi rispondere all’organizzazione sindacale e non certo ai lavoratori che ti hanno eletto.
 
Il referendum che non c’è più
Chi decide sui contratti? Una domanda sempre decisiva, come è giusto che sia, poiché i contratti nazionali, una volta firmati, anche se soltanto da una parte minoritaria del sindacato, hanno efficacia erga omnes. Cioè, valgono per tutti i lavoratori e le lavoratrici del comparto contrattuale.
È quindi una questione di democrazia e di autonomia del sindacato dal padrone, perché la logica dei contratti separati consegna alla parte padronale la libertà di scegliersi il sindacato più accomodante e il contratto più corrispondente ai propri interessi o capricci.
Bene dunque che si abbia voluto porre fine alla pratica dei contratti separati, tanto cara al sindacalismo collaborazionista della Cisl di Bonanni. È stato quindi introdotto il principio che i contratti nazionali sono validi soltanto se firmati da organizzazioni sindacali che abbiano nel loro insieme un livello di rappresentatività di almeno il 50%+1 e se validati dai lavoratori. Ma qui iniziano i problemi, perché la parte decisiva (decisiva almeno per chi scrive), cioè la validazione da parte dei lavoratori, è di un’ambiguità disarmante e, soprattutto, è sparito del tutto il referendum.
L’accordo del 31 maggio parla, infatti, di “consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori”, “le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto”. Insomma, un po’ pochino, mi pare. Non solo è sparito il referendum, ma le modalità sono incerte e demandate alle categorie. E alla fine, come dice Alleva, “qualcuno potrebbe essere tentato di mettere su semplici assemblee senza un voto realmente certificato”.
 
Il mantra dell’esigibilità e il conflitto sanzionabile
Una parola sconosciuta ai più, compresi molti attivisti sindacali: esigibilità. Eppure, è una parola che oggi sembra un mantra e che dobbiamo imparare. Vuol dire che i contratti, cioè quanto scritto e previsto dal contratto, debba trovare effettiva applicazione e che le parti che firmano il contratto sono in questo senso vincolati. Ovviamente, perché l’esigibilità possa funzionare, occorre prevedere anche delle sanzioni per chi è inadempiente.
A questo punto tutti quanti avranno capito perché fino a poco tempo fa il tema dell’esigibilità non faceva parte del dibattito pubblico. A dir la verità, qualche sindacalista nel passato ne aveva parlato, ma i padroni non avevano mai accettato un regime sanzionatorio e così, dopo aver conquistato il contratto, dovevi conquistare anche l’applicazione del contratto. Oggi le cose sono cambiate, con i contratti non arriva più maggior salario e maggiori diritti, ma i contratti portano generalmente sacrifici, meno diritti e salario e più orario. E con le cose sono cambiate anche le opinioni dei padroni: ora vogliono l’esigibilità e le sanzioni, da applicarsi a sindacalisti e lavoratori disobbedienti.
Aveva iniziato Marchionne, che anche in questo caso ha fatto da apripista. Il contratto di Pomigliano prevede sanzioni anche contro i lavoratori e non solo contro i delegati e le organizzazioni sindacali. Ovviamente, aggiungerei, perché puoi buttare fuori dalla fabbrica la Fiom e i Cobas, ma non è detto che poi qualche operaio, magari neanche tesserato, non possa disobbedire ai sindacati complici.
Comunque, la storia di sanzionare il lavoratore se sciopera o protesta dev’essere sembrata un po’ eccessiva a tutti nel mondo sindacale e così, l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 28 giugno 2011 aveva accolto il principio dell’esigibilità, ma escluso che le sanzioni potessero essere applicate ai “singoli lavoratori”.
L’accordo del 31 maggio, che si richiama a quello del 28 giugno 2011, ritorna sull’argomento dell’esigibilità e formalizza la sua applicazione, ma curiosamente (o forse no) si dimentica di riaffermare l’esclusione dalle sanzioni dei singoli lavoratori.
D’ora in poi, vi sarà “la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa” e l’impegno “a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi”. Anche in questo caso, la definizione delle “clausole e/o procedure di raffreddamento” , cioè del regime sanzionatorio, è demandata alla contrattazione di categoria, ma sin d’ora si chiarisce che “le parti firmatarie della presente intesa si impegnano … affinché le rispettive strutture ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto concordato”. Insomma, messaggio chiaro e, a questo punto, non poteva essere diversamente.
 
La questione Fiom
Già, la Fiom. Al sindacato metalmeccanico e, in particolare, al suo segretario, Maurizio Landini, è piovuto addosso di tutto in termini di accuse, compresa quella terribile di “tradimento”. Infatti, all’indomani della firma dell’accordo del 31 maggio, Landini aveva espresso un giudizio positivo e questo, inutile e sbagliato negarlo, ha prodotto non poco disorientamento tra quanti e quante in questi anni avevano condiviso battaglie, lotte, difficoltà, gioie e speranze con i metalmeccanici della Fiom.
Capisco l’asprezza dei toni e conosco le leggi della competizione sindacale e politica, ma non condivido per nulla l’introduzione della categoria del tradimento in questo dibattito. E non per una questione di bon ton, ma per il semplice motivo che credo che questa categoria non spieghi assolutamente nulla e non sia utile per guardare avanti. Anzi quella categoria ha qualcosa di troppo rassicurante, permette di individuare facilmente i buoni e i cattivi e, soprattutto, consegna l’illusione che tutto si riduca a una semplice questione di posizionamento nel dibattito. Invece, purtroppo, le cose sono meno semplici.
Non mi sono piaciuti gli applausi acritici della Fiom e penso che il via libera all’accordo, di cui le dichiarazione pubbliche fanno parte, sia il prezzo che i metalmeccanici hanno dovuto pagare alla maggioranza Cgil, per tenersi aperti alcuni spazi nella categoria. Infatti, se leggiamo l’accordo dal punto di vista della Fiom, inteso come sindacato di categoria, anche la serie di rinvii alla contrattazione di categoria assume una valenza diversa, poiché facendo leva sui rapporti di forza tra i metalmeccanici, la Fiom può pensare legittimamente di avere ora qualche carta in più da giocare.
Ma se quanto detto ha un senso, allora dobbiamo aggiungere subito un’altra considerazione. Cioè, la Fiom ha fatto una scelta tattica che è frutto di una debolezza, di una difficoltà, di un arretramento. Beninteso, non sto parlando di arretramenti politico-ideologici-eccetera di qualche dirigente, bensì di rapporti di forza sociali e politici con i quali la Fiom, come tutti noi, si trova a fare i conti.
La Fiom ha combattuto in questi anni una battaglia controcorrente in una situazione sociale difficilissima. Tra gli iscritti dilagava la cassaintegrazione e le fabbriche chiudevano, non doveva sostenere soltanto il conflitto con Federmeccanica e Marchionne, ma anche con Fim e Uilm, mentre la stessa Cgil si è mostrata vieppiù ostile alla linea Fiom. In un certo senso è quasi un miracolo che la Fiom stia ancora in piedi.
C’era un'unica maniera per reggere questa situazione e conquistare una prospettiva: allargare il campo, generalizzare la lotta e il discorso. Penso che sia ciò che la Fiom ha effettivamente tentato di fare in questi anni, conquistandosi un ruolo, un’autorevolezza e un’interlocuzione ben oltre la categoria e il mero terreno sindacale. Ma alla fine non si è determinato un movimento generale in crescita e anche le tante attenzioni ricevute dalla politica non si sono mai tradotte in qualcosa di sostanziale. Forse l’immagine più chiara della situazione l’ha fornita la manifestazione nazionale del 18 maggio scorso: nonostante la difficile situazione, ancora una volta gli operai della Fiom hanno riempito la piazza, ma erano soli, attorno alla Fiom c’era poco o nulla, in termini sindacali e di movimento, e le numerose delegazioni politiche presenti hanno fatto soltanto passerella. Insomma, il 19 maggio era uguale al 17 maggio, cioè non era cambiato nulla da nessuna parte.
Questo credo sia il dato di realtà da cui partire. Certo, forse la Fiom poteva fare meglio in questi anni, forse c’erano alcune scelte da non fare e altre che invece andavano fatte. Forse anche altri avrebbero potuto fare meglio, di più o diversamente, invece di chiedere alla Fiom di fare, magari anche al posto loro. Tutto questo è importante, ma forse non decisivo, perché c’è una situazione più generale e alla lunga nessuno può reggere in solitudine lo scontro. Questo è l’insegnamento di fondo e su questo, forse, dovremmo ragionare.
 
Ebbene, se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui, allora avrete capito che penso che questo accordo sia altamente negativo e che renderà più difficile la vita dei lavoratori e degli attivisti sindacali che vogliono continuare a battersi per un salario dignitoso, i diritti e per una fuoriuscita dall’austerità. E ancora più difficile sarà la lotta per quei lavoratori, sempre di più, che sono esclusi strutturalmente da accordi del genere, perché precari, perché impiegati da cooperative che lavorano in appalto eccetera e pertanto privi dei più elementari diritti sindacali, come accade per esempio ai lavoratori della logistica. Tuttavia, il fatto che dall’alto continuino a piovere restringimenti di diritti e libertà, sui luoghi di lavoro e nella società, significa anche che non sono poi così tranquilli e sereni, che anzi sono inquieti al solo pensiero che ci possa essere una lotta, un’insubordinazione, un conflitto. Ricordiamocelo.
 
Luciano Muhlbauer
 
aggiornamento: il 6 giugno l’accordo è stato sottoscritto anche dalla confederazione sindacale di destra UGL
 
in allegato il testo dell’accordo del 31 maggio 2013