Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
di lucmu (del 11/12/2014, in Lavoro, linkato 1325 volte)
Venerdì 12 dicembre c’è lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil. Gli obiettivi, ribaditi anche in questi giorni da Susanna Camusso, sono modificare il Jobs Act e la legge di stabilità, cioè praticamente tutta la politica economica e sociale del governo Renzi.
Obiettivi senz’altro in linea con le mobilitazioni di questo autunno e tecnicamente possibili, poiché la legge di stabilità è tuttora in discussione e al Jobs Act mancano ancora tutti quei decreti attuativi che scriveranno la legge vera e propria (vedi Liberi di licenziare). Eppure, in giro si sentono molti dubbi, tra lavoratori e cassintegrati, precari e disoccupati, non tanto rispetto agli obiettivi in sé, ma piuttosto rispetto alla loro sostenibilità e credibilità politica. Insomma, molti si chiedono a cosa serva questo sciopero.
Dubbi che nascono da alcune domande rimaste senza risposta, tipo come mai lo sciopero era stato proclamato in una data in cui prevedibilmente il Jobs Act sarebbe già stato approvato? Oppure, come si pensa di poter raggiungere l’obiettivo ora, considerato che non era stato raggiunto prima del 3 dicembre, quando la tensione sociale e lo scontro politico erano ben più intensi?
Sono domande vere e dubbi giustificati che inevitabilmente fanno pensare alle tante, troppe manfrine dell’epoca concertativa, dove prima si gridava alla rivolta di piazza per poi firmare le peggior cose in cambio di un piatto di lenticchie e di qualche privilegio per l’apparato. Anzi, ultimamente non si facevano neanche più le manfrine. E così, di fronte a questo 12 dicembre in molti non sono convinti. Ed è curioso notare che non sembrano crederci troppo neanche tanti funzionari e dirigenti della stessa Cgil, considerati i molti silenzi di questi giorni e il basso livello di mobilitazione di queste ultime settimane, esclusi ovviamente la Fiom e pochi altri settori.
Eppure, sbaglia chi pensa che siamo di fronte alla solita manfrina per riconquistare un posto a tavola (per l’organizzazione) a qualunque prezzo (per i lavoratori). E lo dico non perché pensi che siano cambiate le teste dei gruppi dirigenti, ma per il semplice fatto che è cambiato il contesto, lo scenario. In altre parole, la concertazione non c’è più, non serve più. Non ci sono più i margini economici, non ci sono più i rapporti di forza e non c’è più la volontà da parte del potere economico e politico.
Renzi non ha inventato nulla, sta semplicemente portando alle sue logiche conseguenze un processo in atto da tempo. Insomma, vuole fare quello che non è mai riuscito a Berlusconi e che invece avevano realizzato Reagan con i controllori di volo nel 1981e la Thatcher con i minatori quattro anni più tardi, cioè imporre ai sindacati una sconfitta secca e strategica per poter poi ridisegnare l’insieme delle relazioni industriali, indebolire la forza contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici e, di conseguenza, abbassare ulteriormente i livelli salariali.
La situazione è questa e oggi la Cgil è costretta quasi suo malgrado a lottare, a praticare il conflitto. Non aveva fatto uno sciopero generale contro i governi Monti e Letta e contro la Riforma Fornero e ora lo proclama contro un governo presieduto dal capo del partito al quale è iscritto larga parte del gruppo dirigente della Cgil. E non può contare neanche sulla sponda della cosiddetta “sinistra del Pd”, piena zeppa di ex dirigenti sindacali, compreso l’ex segretario generale, che si è letteralmente liquefatta di fronte alla prospettiva di perdere qualche poltrona.
Appunto, lo scenario è cambiato, radicalmente, e questo apre una contraddizione enorme. La crisi sociale è micidiale, la disoccupazione si fa sempre più di massa, chi lavora non arriva alla fine mese e la Cgil, come organizzazione, deve lottare per la sua sopravvivenza. Ma i gruppi dirigenti, centrali e periferici, del sindacato non sono attrezzati, sono cresciuti nella scuola della concertazione e, a parte quelli della Fiom e poche altre eccezioni, non sanno più come si fa conflitto. Anzi, faticano persino ad immaginarselo.
Il 12 dicembre e le sue ambiguità e contraddizioni si spiegano così. Tuttavia, non si tratta della solita manfrina, ma è appunto un’altra cosa, è una situazione nuova, magmatica e in attesa di definizione. Siamo in un momento sociale e politico di transizione e di gestazione di qualcosa, che potrà essere positivo o negativo, dipende. Anche e soprattutto per questo sarebbe sbagliato non esserci il 12 dicembre –così come negli altri giorni di mobilitazione di questo periodo- e non stare in mezzo ai lavoratori, precari e studenti che saranno in piazza. Perché quello che verrà non dipende dal fato, ma come sempre dalle azioni degli uomini e delle donne.
Infine, eccovi gli appuntamenti di piazza del 12 dicembre a Milano:
ore 9.30, P.ta Venezia, corteo Cgil e Uil
ore 9.30, L.go Cairoli, corteo degli studenti medi e universitari (Rete Studenti, Casc, UdS, CCS, Collettivo Bicocca, Progetto Dillinger ecc.), che scenderanno in piazza non solo contro il Jobs Act, ma anche contro il progetto governativo della Buona Scuola.
di lucmu (del 04/12/2014, in Lavoro, linkato 1727 volte)
Il Jobs Act è legge dello Stato e così nel paese soffocato dalla disoccupazione di massa d'ora in poi non ci saranno più ostacoli legali alla libertà di licenziare. Il Senato ha approvato la legge in maniera definitiva ieri sera, nella versione uscita dalla Camera il 25 novembre scorso e con l’ennesimo voto di fiducia. Tutto come previsto, nessuna sorpresa, nessun sussulto di dignità in casa Pd, a parte un unico voto contrario e due assenti.
Ma cosa cambierà esattamente con questo benedetto Jobs Act, che secondo Renzi risolleverà l’economia nazionale, produrrà nuova occupazione e aiuterà i precari? Ebbene, non si sa ancora con precisione, poiché non si tratta di un testo legge già pronto per l’uso, bensì di una legge delega, cioè di una delega al governo il quale scriverà poi in autonomia la legge vera e propria. E considerato che il diavolo si nasconde nei dettagli, specie quando parliamo di norme e leggi, dove una virgola o una parola possono cambiare tutto, questo non è certamente un fatto trascurabile.
Non a caso, in molti avevano sollevato dubbi di costituzionalità rispetto alla scelta di (auto)sottrarre al Parlamento la podestà legislativa in materie così delicate e rilevanti come il lavoro e i diritti e le libertà dei lavoratori e delle lavoratrici. Comunque sia, i dubbi non avevano i numeri per imporsi e quindi ha prevalso anche nel metodo la strada già intrapresa a suo tempo da Berlusconi. Ebbene sì, perché vi ricordate la cosiddetta legge Biagi di riforma del mercato del lavoro del 2003? Anche allora si procedette con una legge delega (legge 30/2003) e poi il governo scrisse la legge vera e propria con il d.lgs. 276/2003.
Sottolineo il fatto della delega per due motivi. Primo, perché in troppi ora ci diranno che la questione è chiusa e che quindi possiamo anche stare a casa invece che scendere in piazza. Secondo, perché i decreti legislativi che il governo adotterà in base alla legge delega potranno peggiorare ulteriormente il quadro.
Per capire quanto il discorso sia delicato basta considerare l’ampiezza della deleghe, le materie interessate e i “principi e criteri direttivi”. Il governo potrà infatti adottare decreti legislativi finalizzati al “riordino della normativa” in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e di politiche attive, a definire “disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti” in materia di “costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro” e, ovviamente, a scrivere un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, alla quale poi si aggiungeranno gli interventi normativi in tema di “maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Insomma, il governo potrà intervenire a tutto campo e con ampi margini di discrezionalità. Peraltro, i principi e criteri direttivi indicano assai chiaramente la direzione di marcia degli interventi.
In primo piano, ci sono ovviamente gli interventi di riscrittura dello Statuto dei lavoratori (legge 300/70), che andranno in direzione di un forte restringimento dei diritti e delle libertà del lavoratore o della lavoratrice e dell’allargamento dei poteri e delle discrezionalità del padronato. Anzitutto, l’articolo 18, già manomesso dalla Riforma Fornero (allora non contrastata dal sindacato confederale, ad esclusione della Fiom), viene definitivamente fatto a pezzi, poiché il reintegro nel posto di lavoro viene abolito completamente in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, mentre rimarrà solo nel caso di “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare ingiustificato e, ovviamente (perché qui c’è una questione di costituzionalità), nel caso di licenziamento discriminatorio. In poche parole, il reintegro ci sarà soltanto per quei casi che nella realtà sono quelli più difficili da dimostrare da parte della vittiman in sede giudiziaria.
Gli interventi sull’art. 18 sono legati all’introduzione “per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Cosa sarà esattamente questo contratto (durata, modulazione delle “tutele crescenti” ecc.) non è scritto nel Jobs Act e sarà definito dai decreti attuativi. Comunque, la nuova disciplina sui licenziamenti varrà sicuramente per i “nuovi assunti” (che è un concetto slegato dall’età anagrafica e comprende anche quanti vengono ri-assunti nello stesso posto di lavoro), mentre non è chiaro cosa succederà per gli altri lavoratori.
Poi ci saranno anche altri interventi sullo Statuto dei lavoratori, come quello che introdurrà la possibilità di demansionamento del lavoratore entro determinati limiti (comunque derogabili dalla semplice contrattazione aziendale) e quello che prevede la “revisione della disciplina dei controlli a distanza” sull’attività lavorativa, attualmente disciplinati in maniera restrittiva a tutela del lavoratore.
Ci saranno poi gli interventi che riguardano gli ammortizzatori sociali, dove si rilancia quanto già previsto dalla Riforma Fornero, cioè l’introduzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) come erogatore universale di indennità di disoccupazione. Si tratta di uno strumento che ha suscitato molte aspettative, specie tra i precari e tra quanti oggi sono privi di accesso agli ammortizzatori, ma i punti ancora oscuri sono davvero troppi, a partire dall’ammontare delle indennità, della durata dell’erogazione e dei requisiti d’accesso. Inoltre, cosa più che allarmante, l’Aspi si dovrà fare sostanzialmente a costo zero e quindi tendenzialmente sparirà la cassa in deroga e quelle ordinaria e straordinaria saranno probabilmente rimodulate. Insomma, si rischia che il tutto finisca con il togliere a chi oggi percepisce forme di cassa integrazione per dare qualcosina a una parte di quanti oggi non hanno niente, riducendo però complessivamente il livello delle tutele e delle prestazioni del sistema.
Persino nelle parti del Jobs Act che suonano positivamente, ci sono troppe cose non chiare oppure degli elementi di forte preoccupazione. Faccio soltanto due esempi.
Primo, si prevede di analizzare tutte le forme contrattuali esistenti e di realizzare dunque degli interventi di “semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”. Tutto bello, suona bene, ma a parte questa affermazione un po’ troppo generica, usato però nei comunicati stampa governativi per promettere la riduzione del numero dei contratti precari, non c’è assolutamente nulla di concreto.
Secondo, anche nel caso delle cure parentali, della maternità e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che giustamente vengono considerate delle cose molto importanti, siamo ad affermazioni piuttosto generiche. Ma poi c’è all’improvviso un dettaglio che suscita qualche preoccupazione: nel caso di “lavoratore genitore con figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute”, si prevede la possibilità che un altro lavoratore dell’azienda ceda “tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi” al suo collega in difficoltà. La solidarietà tra lavoratori è sacra, beninteso, ma qui c’è il legittimo sospetto che il governo voglia fare il furbo e scaricare il peso di un welfare sempre più magro sulle spalle dei lavoratori.
In conclusione, se ce l’avete fatta ad arrivare fino a qui, vi consiglio di leggere il testo della legge delega approvato. Guardatevi questa versione, perché così vedete anche le parti modificate dalla Camera settimana scorsa. È utile, perché così si capisce anche che il famoso maxiemendamento, spacciato come “miglioramento” e grande conquista da una parte della “sinistra del Pd”, rappresenta in realtà il nulla.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 12/11/2014, in Lavoro, linkato 1577 volte)
Il 14 novembre si sciopera. Non è ancora lo sciopero generale che ci vuole, cioè quello in grado, per quantità e qualità dell’azione, di sfidare davvero il progetto socialmente e politicamente regressivo dei poteri dominanti in Europa e del governo Renzi. Ma dopo lo sciopero generale di Usb del 24 ottobre e la grande partecipazione alla manifestazione nazionale della Cgil del 25 è senz’altro un ulteriore e importante passo nella giusta direzione, poiché consente di accumulare forze e consensi e, soprattutto, di mettere in campo un intreccio di diversi percorsi e di diverse lotte.
Venerdì 14, infatti, non ci sarà un unico sciopero, ma diversi scioperi e diverse mobilitazioni, che però significativamente si incontrano e si incrociano in un’unica giornata, evocando così con i fatti quella necessaria convergenza delle lotte, la cui mancanza pesa così tanto nello scenario italiano. In altre parole, venerdì è una giornata importante, su cui vale la pena investire, ognuno e ognuna per quello che può.
Ma andiamo con ordine. I primi a indicare il 14 novembre come giornata nazionale di mobilitazione sono stati i settori di movimento che hanno lanciato il percorso dello sciopero sociale (per approfondire visita il sito Sciopero Sociale), con l’obiettivo primario di coinvolgere i precari e le precarie. Poi è stato il turno dei sindacati di base e della Fiom. I primi, praticamente nella loro totalità (Cub, Conf. Cobas, Usi, Usb, Adl Cobas, Si.Cobas ecc.), proclamando per quella giornata lo sciopero generale di tutte le categorie e invitando alla mobilitazione di piazza e la seconda, proclamando lo sciopero generale dei metalmeccanici di otto ore in tutto il nord Italia con manifestazione a Milano.
Le mobilitazioni saranno dunque molte in tutto il paese, ma qui mi limito a indicare gli appuntamenti di Milano, probabilmente la piazza più importante venerdì prossimo. A Milano venerdì mattina ci saranno due appuntamenti di piazza e probabilmente tre cortei. Poi, nel corso della giornata ci saranno varie altre azioni e proteste.
Alle ore 9:00, in Porta Venezia, ci sarà il concentramento del corteo della Fiom, che si annuncia molto partecipato e terminerà in piazza Duomo, dove parleranno Landini e Camusso (per info vedi sito Fiom Milano).
Alle ore 9.30, in Largo Cairoli, ci sarà l’appuntamento dei sindacati di base, dei settori di movimento e degli studenti. Da lì partiranno di fatto due cortei. Uno sarà quello di buona parte dei sindacati di base (vedi per esempio il sito della Cub), l’altro quello degli studenti e degli attivisti. Il primo sarà incentrato sui temi del lavoro e del Jobs Act, mentre il secondo aggiungerà ovviamente anche quello del contrasto dell’operazione renziana “la buona scuola” e quello dell’Expo, in città un inevitabile paradigma anche delle mille forme di precarizzazione del lavoro, compresa quella del lavoro gratuito.
Insomma, venerdì partecipate e fate partecipare. Vedete voi a quale corteo partecipare, importante è esserci. Per il resto, l’auspicio è che l’intreccio di venerdì non sia una semplice parentesi, ma un punto di partenza su cui costruire.
Ci vediamo in piazza!
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 15/10/2014, in Lavoro, linkato 965 volte)
Volete sapere come sarà il meraviglioso mondo del Jobs Act, quello dove robe vecchie come i diritti dei lavoratori, articolo 18, Statuto dei lavoratori o contratto nazionale saranno poco più di un lontano ricordo dei padri e dei nonni? Ebbene, allora date un’occhiata a uno di quei tanti settori privi di diritti, tutele e voce che già oggi abbondano a casa nostra, come per esempio la logistica.
Già, la logistica. Sebbene si tratti di un settore strategico e nevralgico dell’economia nazionale, senza il quale la grande distribuzione vecchia e nuova non potrebbe funzionare nemmeno un minuto, dal punto di vista del mercato del lavoro sembra di trovarsi nell’Ottocento. Infatti, non ci sono tutele in caso di licenziamento e il diritto di sciopero non esiste. Anzi, a guardare bene, lì non sei nemmeno considerato un lavoratore.
Il trucco (si fa per dire, visto che è tutto perfettamente legale) sta nel non assumere i facchini che lavorano per te. E così, anche se lavorano in un deposito Ikea e movimentano tutto il giorno mobili Ikea, nessuno di loro è un dipendente Ikea, bensì della cooperativa X, alla quale Ikea ha appaltato il servizio di facchinaggio. Se poi i lavoratori della cooperativa X dovessero scioperare, perché i salari sono troppo bassi o perché le regole contrattuali non vengono rispettate, allora Ikea potrebbe tranquillamente sostituire la cooperativa X con la cooperativa Y, poiché si tratterrebbe semplicemente di una mancata erogazione del servizio previsto dall’appalto da parte della cooperativa X. Di conseguenza, i lavoratori della cooperativa X rimarrebbero disoccupati, senza che l’Ikea c’entri qualcosa sul piano formale, e se poi qualcuno dovesse decidere di protestare e di picchettare gli ingressi del suo posto di lavoro, allora arriverebbe la Celere a cacciarli suon di manganellate, perché sarebbero soltanto degli estranei che interrompono illegalmente un servizio e impediscono ai lavoratori della cooperativa Y di poter lavorare.
Nel nostro esempio ipotetico abbiamo usato il marchio Ikea, semplicemente perché tutti lo conosciamo, ma potremmo usare qualsiasi altro marchio della grande distribuzione o il nome di qualsiasi azienda che ricorre al "trucco" dell'appalto. E poi, si tratta di una “ipotesi” per modo di dire, visto che storie del genere si verificano quotidianamente, con le ovvie varianti sul tema. Per esempio, oltre l’appalto ci sono anche i subappalti oppure, come ormai accade sempre più spesso, l’azienda potrebbe procedere a un “cambio di cooperativa”, cioè al licenziamento dei lavoratori, anche in assenza di scioperi e lotte, ma soltanto perché quei lavoratori si sono permessi di iscriversi a un sindacato non gradito. Appunto, l’Ottocento incombe.
Beninteso, tutto questo non vuol dire che non si possa più lottare o organizzare sindacati. Anzi, l’esperienza di questi anni ci insegna che proprio i lavoratori della logistica, dov’è fortissima la componente migrante, si sono resi protagonisti di uno dei più interessanti, intensi e freschi processi di sindacalizzazione e di lotta di questi anni. E si comincia anche a vincere qualche vertenza, ma solo al prezzo di durissime lotte, come nel caso della Granarolo. Alla fine Legacoop ha dovuto firmare un accordo con il sindacato di base S.I.Cobas e accettare il reintegro dei 51 licenziati, ma ci sono voluti 15 mesi interrotti di lotta.
Insomma, oggi stare con i facchini è un dovere e una scelta lungimirante, perché bisogna ricominciare a lottare per i diritti che ci vogliono togliere e che a tantissimi lavoratori hanno già tolto.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 19/09/2014, in Lavoro, linkato 1317 volte)
La vera domanda non è quando usciremo dalla crisi, ma come ne usciremo e, soprattutto, in che mondo ci ritroveremo dopo. Già, perché comunque vada, non sarà un ritorno al prima, come se si trattasse di guarire da una febbre passeggera, e le attuali politiche di governi, banche centrali e troike varie non servono tanto e soltanto per riattivare un’economia depressa, ma anche per disegnare un altro e nuovo modello sociale e politico, in dichiarata antitesi con quanto abbiamo conosciuto nell’epoca post sessantottina e persino post Liberazione. Insomma, con quello che a volte viene riassunto nel termine generico di modello sociale europeo.
Certo, lo so, detto così suona un po’ astratto e soprattutto terribilmente lontano dai problemi ben più impellenti che la maggior parte di noi deve affrontare nella quotidianità, tipo come arrivare alla fine del mese, come trovare un lavoro o un reddito o come immaginarsi un futuro. Siamo stufi, sfiduciati, squattrinati, precari e disillusi, non abbiamo più tempo e voglia di interrogarci sui grandi temi, desideriamo soltanto che finisca e che torni il sole. E così, siamo anche disposti a cantare nel coro delle Riforme, qualunque cosa vogliano dire, e persino a consegnare a Renzi il 40% dei voti.
Tutto comprensibile, per carità, ma anche tutto sbagliato, perché di questo passo rischiamo una fregatura grossa come una casa e potremmo ritrovarci con tante riforme fatte, un Pil in crescita e un debito pubblico in calo, ma noi più scemi di prima, con il conto da pagare in mano e sempre precari, squattrinati e con un futuro incerto. Insomma, magari ci conviene ricominciare ad occuparci dei grandi temi e leggere le famose riforme alla luce del modello di società che indicano, cioè del futuro che ci preparano. E questo vale anche –e forse soprattutto- per l’annosa questione dell’articolo 18 e della riforma del mercato del lavoro, cioè uno di quei dibattiti con il maggior tasso di teatrini, ipocrisie e giochi pirotecnici che ci sia in giro.
Il teatrino
Correva l’anno 2001, quello di Genova, e al governo c’era di nuovo Berlusconi. Nell’ottobre di quell’anno l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il leghista Roberto Maroni, pubblicò il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, con l’obiettivo di “una complessiva rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro”. Alla sua stesura aveva lavorato un gruppo di lavoro coordinato dall’allora sottosegretario Maurizio Sacconi e dal giuslavorista Marco Biagi. Quel libro bianco avrebbe poi partorito il D.lgs. n 276/2003 (più conosciuto come legge Biagi), cioè quella riforma del mercato del lavoro che diede una potentissima spinta alla diffusione dei contratti precari, a cui erano già state aperte le porte dal cosiddetto Pacchetto Treu nel 1997.
Con il libro bianco si era anche aperto il fronte dell’articolo 18, che da allora in poi non si sarebbe più chiuso. Ma a quel tempo il teatrino era ancora limitato e lo scontro era più trasparente e vero. Infatti, le velleità di modificare direttamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori furono bloccate da una fortissimo mobilitazione sindacale, sfociata nella famoso manifestazione dei 3 milioni del 23 marzo 2002. Ma erano altri tempi, erano gli anni dei movimenti di Genova, che infatti avevano sostenuto la mobilitazione della Cgil, e poi al governo c’era Berlusconi e quindi anche dalle parti del centrosinistra si era più radicali.
Ma appunto, i tempi cambiano, e quando fu ripreso il tema dell’articolo 18 il teatrino non aveva più freni. In questi anni l’articolo 18 è stato incolpato più o meno di tutto, ma fondamentalmente le accuse sono di due tipi: primo, sarebbe una roba vecchia, da privilegiati, anzi il pilastro di un sistema di apartheid (copyright by Renzi) che discrimina i giovani e, secondo, sarebbe uno dei responsabili del fatto che non si facciano investimenti in Italia.
Nel merito queste accuse sono piuttosto inconsistenti e persino ridicole. Infatti, è un po’ difficile sostenere seriamente che la precarietà sia colpa dei lavoratori che hanno ancora un contratto a tempo indeterminato e non delle leggi che hanno liberalizzato i contratti precari. E poi, cosa vuol dire risolvere il dualismo del mercato del lavoro, togliendo i diritti a chi ancora ce li ha e non riconoscendo i diritti a chi oggi ne è privo? Per quanto riguarda gli investimenti, basterebbe leggersi le valutazioni delle società specializzate in materia o sentire le lamentele dei famosi investitori esteri, dove tra le ragioni di criticità dell’Italia è molto difficile trovare l’articolo 18 e il reintegro, se non nelle ultime posizioni. Infatti, ben altre sono lamentele, dal costo dell’energia al peso degli adempimenti burocratici, dai tempi lunghi della giustizia civile alla corruzione.
Ma, appunto, il merito ha poco spazio in questo dibattito e nella sua dimensione pubblica e propagandistica contano le percezioni e le sensazioni trasmesse. E così, il teatrino va a gonfie vele, alfaniani contro bersaniani, forzitalioti contro sindacalisti, camussiani contro governativi, Pd di minoranza contro Pd di maggioranza eccetera eccetera. Ognuno con la sua bandiera e ognuno interessato più agli affari suoi che al merito della questione. Un teatrino utile, beninteso, anzitutto per chi vuole fare tabula rasa di ogni tutela in materia di licenziamenti, perché rafforza la sensazione che la contesa non riguardi i lavoratori, i precari e i disoccupati, ma che sia soltanto una questione di litigio tra politici.
Infine, il meschino gioco di dire al giovane precario che la sua situazione è dovuta a chi ha il “privilegio” dell’articolo 18 fa leva su un dato materiale: oggi soltanto una minoranza dei lavoratori e delle lavoratrici nel nostro paese può usare a propria tutela l’articolo 18, poiché sono esclusi de iure tutti i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti e de facto tutti i precari. Quindi è facile sparare sull’articolo 18, mentre è molto più difficile che chi ne è escluso si mobiliti per difenderlo. A questo punto sarebbe però anche lecito chiedere “ma allora come mai è così importante eliminare questo articolo 18?”, ma questo, si sa, è un altro discorso.
Le ipocrisie
Non c’è teatrino senza ipocrisia e questo vale anche nel nostro caso. Anzi, le troppe ipocrisie accentuano la sensazione di estraneità da parte di molti, specie dei più giovani. Insomma, non si può gridare al colpo di stato e invitare all’insurrezione popolare quando a toccare l’articolo 18 è un governo Berlusconi e, poi, essere invece responsabilmente disponibili a modificarlo quando al governo c’è il centrosinistra. E questo non riguarda soltanto esponenti politici del Pd, ma anche –e questo è molto peggio- dirigenti dei sindacati confederali.
Infatti, l’articolo 18 in quanto tale non è mai stato modificato da un governo di centrodestra. Non ci sono mai riusciti. È stato modificato, invece, nel 2012 dalla Riforma Fornero, cioè dal governo Monti e con i voti della grande coalizione, compresi dunque quelli del Pd. Anzi, quella modifica fu approvata con il consenso di fatto di Cgil, Cisl e Uil, che infatti si astennero da qualsiasi forma di protesta o mobilitazione.
Con la riforma Fornero la sfera di applicazione dell’articolo 18 è stata ulteriormente ridimensionata, perché ora il reintegro nel posto di lavoro è obbligatorio soltanto in caso di licenziamento discriminatorio, che però è anche la fattispecie più difficile da provare in sede processuale, e in alcuni casi ben circoscritti dell’illegittimo licenziamento disciplinare. In tutto il resto dei casi, sebbene l’illegittimità del licenziamento sia accertata, non c’è più il diritto al reintegro, ma solo quello a un risarcimento economico.
Infine, arriviamo all’oggi, al governo Renzi e al tentativo di dare l’ultima spallata all’articolo 18. Allo stato, ovviamente, non si sa come sarà esattamente la modifica finale, perché il Jobs Act (attualmente in discussione in Parlamento) è una legge delega. Cioè il Parlamento voterà una sorta di legge quadro, delegando così la formulazione della legge vera e propria al Governo. E così, cosa già di per sé molto discutibile, il Governo potrà ri-scrivere con ampia autonomia interi pezzi fondanti dello Statuto dei Lavoratori.
Comunque, a giudicare dal testo dell’emendamento presentato dal Governo e approvato ieri dalla Commissione Lavoro del Senato, ci si dovrebbe orientare verso un “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, il che vorrebbe dire che per un neoassunto (di qualsiasi età) non varrà più l’articolo 18 e il reintegro per i primi (3?) anni. Insomma, è un po’ come un periodo di prova lungo anni.
Inoltre, tanto per non lasciare dubbi sul senso dell’operazione, l’emendamento presentato ieri prevede anche due altre modifiche allo Statuto dei Lavoratori. La prima intende consentire alle aziende la pratica del demansionamento del lavoratore e la seconda prevede l’attenuazione del divieto del controllo a distanza del lavoratore.
La posta in gioco
Tra teatrini e ipocrisie e un articolo 18 già oggi fortemente ridimensionato, si impone infine la domanda sulla vera posta in gioco. O meglio, a questo punto c’è ancora una posta in gioco? Ebbene, io credo che ci sia, eccome.
Molti, da destra a sinistra, in queste settimane hanno parlato di totem, simbolo e scalpo a proposito dell’articolo 18. C’è una parte di verità in questo, anche perché nella vita sociale e politica queste cose sono importanti, hanno il loro peso. Ma c’è molto di più in questo accanimento contro un articolo 18 ormai malconcio, manomesso e traballante: c’è la ricerca deliberata di una rottura culturale, di un atto costituente di una nuova epoca.
Lo Statuto dei Lavoratori con il suo articolo 18, diventato legge il 20 maggio 1970, fu una conseguenza diretta dei movimenti e delle lotte del 68 e dell’autunno caldo del 69. Fu oggettivamente una conquista del movimento operaio, anche se a sua tempo non fu riconosciuto e percepito come tale dai protagonisti delle lotte. E non mi riferisco soltanto ai settori più radicali in rapida crescita, ma allo stesso PCI, che in Parlamento non votò a favore della legge, ma si astenne, perché la considerava troppo favorevole alle imprese e agli interessi padronali.
Molto tempo è passato da allora e i rapporti di forza sociali sono cambiati, parecchio. Quello che allora si presentava come un’operazione democristiana per fermare l’impeto delle lotte operaie, era nel frattempo diventato uno preziosissimo strumento di difesa dei lavoratori, nonché una questione di civiltà (perché è sempre bene ricordare che l’art. 18 non vieta affatto i licenziamenti, ma si limita a sanzionare mediante il reintegro il licenziamento illegittimo). Fare a pezzi lo Statuto dei Lavoratori e il suo articolo più conosciuto e invocato, il numero 18, non servirà a produrre nuovi posti di lavoro e nuovi investimenti e non aiuterà nemmeno un precario a diventare meno precario. No, servirà a sancire la fine di un’epoca, ad abbattere l’ultima barricata rimasta di un tempo quando la classe operaia voleva andare in paradiso. Con un articolo 18 giustiziato sulla pubblica piazza non ci saranno più argini, barricate e trincee. Non ci saranno più tabù. Questo è il senso dell’operazione.
E se mi chiedete come sarà dopo, vi dico che non lo so, ma è sufficiente guardare a quelle quote di futuro senza diritti già ben presenti oggi per aver un’idea di che cosa si stia preparando. Guardate a quello che succede nelle cooperative che lavorano per la grande distribuzione, nella raccolta dei pomodori e degli agrumi o in uno dei tanti interstizi urbani dove prolifera il precariato senza regole e sottopagato. Dietro i teatrini, le ipocrisie e i fuochi pirotecnici c’è infatti questo, un ritorno al passato.
Insomma, penso proprio che sia di nuovo tempo di pensare ai grandi temi e di lasciarci alle spalle la rassegnazione.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 25/07/2014, in Lavoro, linkato 1187 volte)
Un’altra buona notizia dal fronte della logistica. Dopo la positiva sentenza del processo Bennet di alcune settimane fa, dove sul banco degli accusati sedeva di fatto il diritto di sciopero, ora arriva anche la firma di un accordo sindacale tra S.I.Cobas e Legacoop sulla vertenza Granarolo, dopo 15 mesi di lotta contro il licenziamento di 51 operai.
La firma di un accordo sindacale rappresenterebbe la più normale delle notizie se parlassimo di altre categorie economiche, ma nel caso della logistica e della movimentazione merci, dove ormai predominano gli appalti e i subappalti, le cooperative e la sistematica elusione dei più elementari diritti dei lavoratori, nonché l’uso abituale della repressione contro chi sciopera, un accordo sindacale rappresenta una mezza rivoluzione. Già, perché la primissima cosa che si nega ai facchini è il loro diritto di potersi organizzare sindacalmente e scioperare.
Con la firma di questo accordo, il 22 luglio scorso nella Prefettura di Bologna, si compie il primo passo verso il reintegro dei 51 facchini licenziati perché avevano scioperato (per i dettagli leggi il comunicato S.I.Cobas) e, per prima volta, la Legacoop riconosce il diritto di questi lavoratori, come peraltro prevedrebbe la nostra Costituzione, di potersi organizzare liberamente in un sindacato. È dunque un accordo importantissimo, perché rappresenta un precedente da valorizzare e da estendere, a partire da tutte le vertenze aperte, Ikea compresa.
Ma soprattutto occorre sottolineare un’altra cosa: la lotta paga! Già, perché questo accordo non è il frutto del caso o di una gentile concessione, bensì di una lotta durissima e prolungata, dove ci si batteva ad armi assolutamente impari. Da una parte i facchini e la loro determinazione, il piccolo ma preziosissimo sindacato di base S.I.Cobas, il sostegno militante di alcune realtà del movimento bolognese e una solidarietà diffusa che si espresse anche in altre città con la campagna di boicottaggio dei prodotti Granarolo. Dall’altra parte, non solo la potente Legacoop, sostenuta da un’analoga posizione da parte di tutti i giganti della grande distribuzione, ma anche l’ostilità, sovente molto attiva, da parte di Cgil, Cisl e Uil, di ampie parti dell’informazione mainstream e della grande maggioranza del mondo politico. Ma alla fine ha vinto Davide e Golia si è dovuto sedere al tavolo della trattativa.
Insomma, facciamo tesoro di questo insegnamento, perché di questi tempi la confusione è tanta.
Luciano Muhlbauer
Aggiornamento del 30 luglio: dopo quello con Legacoop, oggi è stato firmato a Bologna il secondo accordo sulla vertenza Granarolo, quello tra S.I.Cobas e Cogefrin e Consorzio SGB (vedi comunicato sindacale S.I.Cobas). A questo punto è previsto, per ora sulla carta, come sottolineano anche i lavoratori, il reintegro di tutti i 51 facchini licenziati.
di lucmu (del 08/07/2014, in Lavoro, linkato 1415 volte)
Volevano condanne forti ed esemplari contro i lavoratori e sindacalisti per gli scioperi alla Bennet di Origgio (VA) del 2008, ma la sentenza di primo grado emessa ieri 7 luglio dal Tribunale di Busto Arsizio è una sostanziale vittoria per i lavoratori. Certo, ci sono anche le quattro condanne a 2 mesi, con sospensione della pena, per minacce e ingiurie, ma le 16 assoluzioni e, soprattutto, la bocciatura della tesi centrale dell’accusa, cioè che scioperi e picchetti fossero un reato da sanzionare, rappresentano indubbiamente una notizia positiva per quanti si battono per i diritti dei lavoratori nel settore della logistica.
La situazione di pesante sfruttamento e di sistematica elusione delle più elementari regole del diritto del lavoro che predomina nel settore della logistica, rende infatti estremamente difficile la stessa sindacalizzazione, figuriamoci l’organizzazione di vertenze e lotte. Nei poli logistici e nella movimentazione merci della grande distribuzione lo sciopero è de facto fuorilegge, sebbene sia una diritto costituzionalmente tutelato.
Beninteso, formalmente è tutto in regola, grazie a quel micidiale sistema di appalti e subappalti, per cui l’azienda (Granarolo, Ikea, Bennet o comunque si chiami) non assume direttamente i facchini, ma appalta invece alcune fasi di lavoro a delle cooperative. Così, quando i facchini della cooperativa X scioperano e si blocca quindi la movimentazione delle merci nell’azienda Z, allora quest’ultima mobilita semplicemente un’altra cooperativa, che chiamiamo Y –magari controllata dagli stessi che controllano anche la cooperativa X-, per garantire il “servizio” che la cooperativa X non riesce più a garantire. Facendo così, i lavoratori in sciopero della cooperativa X diventano una sorta di paria, dei senza diritti, che sostano abusivamente all’ingresso dell’azienda Z, impedendo in maniera illegale l’ingresso delle merci ed ostacolando il diritto al lavoro dei facchini della cooperativa Y.
Questa dinamica, con le tante possibili varianti sul tema, la troviamo regolarmente in praticamente tutte le lotte nel settore della logistica di questi ultimi anni. E quindi, anche la risposta tende ad essere normalmente quella repressiva, dalle botte di polizia e carabinieri, come a Basiano, ai fogli di via per sindacalisti, passando per i licenziamenti politici e i pestaggi paramafiosi. È un mondo duro, esposto alle infiltrazioni malavitose e dove sembra di essere tornati indietro nel tempo, agli albori del movimento sindacale. Ma è un mondo al servizio dei modernissimi interessi dei padroni della logistica e della grande distribuzione.
Ecco, la vicenda Bennet (grande distribuzione) fa parte di quel mondo. Lavoratori, sindacalisti e persone solidali, secondo l’accusa, avrebbero dovuto pagare caro, anche in termini di risarcimento monetario, il fatto di aver lottato e scioperato. Il processo e il giudice hanno detto invece un’altra cosa, assolvendo tutti per le accuse relative alle lotte sindacali, picchetti compresi.
Dal 2008 ad oggi la sindacalizzazione nella logistica ha fatto grandi passi avanti, grazie all’impegno di alcuni sindacati di base (quelli confederali brillano invece per assenza o peggio) e alla determinazione dei lavoratori del settore, spesso in maggioranza migranti. Ma moltissima strada è ancora da fare, poiché continua a prevalere la risposta repressiva e l’assenza di diritti. E anche larghissima parte del mondo politico fa finta di non vedere, quando non si schiera apertamente contro le lotte dei facchini, rendendosi di fatto complice di questa allucinante situazione.
Anche per questo, la sentenza sul caso Bennet è un piccolo ma prezioso segnale.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 06/06/2014, in Lavoro, linkato 1300 volte)
Quando circa due mesi fa uscì la notizia che il Presidente lombardo, Roberto Maroni, intendeva promuovere nel nome di Expo un “Patto per lavoro” che estendesse le deroghe contrattuali oltre il territorio milanese e oltre lo spazio temporale dell’evento, ci fu una rumorosa levata di scudi da parte della Cgil e rimase soltanto la Cisl a difendere la bontà della proposta del presidente leghista.
Ora invece la Cgil, insieme a Cisl e Uil, ha firmato tranquillamente un Avviso comune regionale “Expo e Lavoro” (vedi allegato), che dice le medesime cose che alcuni mesi fa ufficialmente non andavano bene e che va persino oltre a quanto stabilito nello Jobs Act del Governo Renzi, anch’esso ufficialmente bersaglio delle critiche della Cgil.
Ma quello che a prima vista appare come un improvviso cambio di linea, in realtà non lo è. Infatti, già nel febbraio scorso esisteva un “appunto Cgil Cisl Uil Lombardia”, di carattere riservato e intitolato “Un patto per lavoro ed Expo in Lombardia”, che stava alla base delle discussioni confidenziali con gli uomini del Presidente Maroni (ne abbiamo scritto 3 mesi su questo blog, pubblicando anche il testo dell’appunto). Ma era un momento diverso, era in corso il congresso Cgil e la segretaria nazionale era impegnata a contrastare il forte dissenso della Fiom e, quindi, mica si poteva dare pubblicamente ragione alle critiche di Landini. Finito il congresso, si è tornati alla normalità e una settimana fa il direttivo della Cgil Lombardia ha dato il via libera alla firma dell’Avviso comune, con il voto contrario della Fiom.
E così, proprio mentre a Roma Susanna Camusso spara a zero sullo Jobs Act di Renzi, accusato (giustamente) di precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro, qui la Cgil firma un patto che precarizza ancora di più. Ma è un’altra contraddizione soltanto apparente, poiché il vero punto è che si è contro lo Jobs Act perché non è concertato con la Cgil, mentre laddove si concerta, come in Lombardia, tutto diventa possibile.
Cosa dice questo benedetto Avviso comune, vi chiederete a questo punto. Anzitutto, essendo un avviso comune, definisce principi generali e linee guida, da applicare poi concretamente e in dettaglio con specifici accordi di categoria e/o aziendali, in deroga alle normali regole contrattuali. Questo potrà avvenire su tutto il territorio regionale (basta che i settori e le aziende siano in qualche modo “correlati all’evento”) e con validità fino al 31 marzo del 2016, “fatta salva la possibilità di intese per un periodo ulteriore”.
Un’estensione, in nome di Expo, delle deroghe contrattuali in termini territoriali e temporali, dunque, e con l’unica preoccupazione di moltiplicare le forme precarie e di evitare scioperi. Infatti, si auspica che ci sia un ricorso ai “contratti a tempo determinato e di somministrazione” maggiore “rispetto a quanto attualmente previsto” e si intende “promuovere incisivamente l’istituto dell’apprendistato”, aggiungendo persino “l’apprendistato in somministrazione”, definito una “interessante opportunità”. Inoltre, si “auspicano” maggiori “soluzioni di flessibilità mansionaria ed organizzativa”. Infine, poi, si stabilisce che “siano definite le procedure per la prevenzione, la composizione e il raffreddamento delle controversie sindacali”.
In altre parole, più precarietà, meno diritti e niente scioperi. Il tutto giustificato dall’obiettivo “di trasformare una parte importante dell’occupazione che si creerà nel periodo dell’evento, in posti di lavoro stabili e qualificati” (vedi dichiarazione Segreteria regionale Cgil). Peccato però che nessuno spieghi da nessuno parte come dovrebbe avvenire il miracolo per cui l’estensione della precarietà nel periodo 2014-2016 si trasformi in nuovi posti di lavoro stabili a evento finito. Stando a quanto è stato firmato, sembra invece più probabile che avvenga l’esatto contrario, cioè che i posti di lavoro stabili che ancora esistono finiscano per essere trasformati in precari.
Expo non mi ha mai convinto – figuriamoci ora – ma vista la drammatica situazione sociale non posso che augurarmi che produca un po’ di posti di lavoro, anche se precari, e un reddito, anche se misero, per chi oggi è disoccupato o in cassa o in mobilità. Ma una cosa sono gli auspici, un’altra i fatti.
E quelli prodotti da Regione Lombardia e Cgil-Cisl-Uil con questo avviso comune purtroppo vanno nella direzione sbagliata. Poi, che tutto questo sia avvenuto in mezzo a un mare di doppiezze e ipocrisie, non fa che peggiorare la situazione.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo dell’Avviso Comune Regionale “Expo e Lavoro”, firmato il 5 giungo 2014
di lucmu (del 15/04/2014, in Lavoro, linkato 2607 volte)
Emma Marcegaglia festeggia la sua nomina a presidente dell’Eni chiudendo una fabbrica a Milano e togliendo il lavoro a 169 operai. Sembra incredibile, ma a meno di 24 ore dalla nomina, il gruppo dell’ex presidente di Confindustria ha annunciato ai sindacati la chiusura della Marcegaglia Buildtech di viale Sarca 336, sul confine tra Milano e Sesto San Giovanni.
Il tutto è successo questa mattina e le ragioni vere di questa chiusura non sono chiare, poiché in viale Sarca nessuno era in cassa e, anzi, si facevano persino i turni di notte. Insomma, il lavoro c’è, si produce. Tuttavia, sebbene l’azienda non abbia chiarito alcunché, non è difficile fare delle ipotesi, considerato che l’area dove si trova lo stabilimento, cioè la zona Bicocca, è ad altissimo valore immobiliare.
E non è nemmeno chiaro cosa succederà agli operai. Il gruppo Marcegaglia parla di un trasferimento verso il suo stabilimento di Pozzolo Formigaro, in provincia di Alessandria, ma a parte la fumosità della “proposta” e i circa 100 chilometri di distanza, c’è il piccolo particolare che lo stabilimento di Pozzolo F. ha recentemente annunciato 40 esuberi…
Mentre scriviamo gli operai della Marcegaglia stanno scioperando e bloccando viale Sarca. La rabbia, giustamente, è tanta. Nelle prossime ore decideranno come proseguire la mobilitazione.
Se siete in zona, magari passateci e portate un po’ di sacrosanta solidarietà.
Luciano Muhlbauer
Aggiornamento delle h. 16.30: l’assemblea dei lavoratori ha deciso di tenere il presidio permanente davanti alla Marcegaglia in viale Sarca 336. Fanno sapere che “la solidarietà è ben accetta”. Domani decideranno come andare avanti.
Aggiornamento del 16 aprile – comunicazione di Massimiliano Murgo, delegato Rsu Fiom della Marcegaglia Buildtech di v.le Sarca, a proposito delle decisioni dei lavoratori: “L’assemblea di oggi e i lavoratori della Marcegaglia hanno deciso che domani e dopodomani rientriamo a lavorare. La battaglia contro la Marcegaglia durerà almeno tre-quattro mesi e comunque probabilmente fino a dicembre. Restiamo in stato di agitazione permanente e articoleremo iniziative improvvise di blocco e sciopero. Attualmente il presidio ai cancelli è stato sospeso. Nei giorni in cui lavoreremo è stata comunque indetta una drastica autoriduzione dei ritmi di lavoro. Grazie a tutti dei messaggi di solidarietà. La lotta continua.”
di lucmu (del 01/04/2014, in Lavoro, linkato 4736 volte)
Fallimento aziendale, Compagnia delle Opere, amministrazione straordinaria, appalti che girano, Expo 2015, software antimafia disperso. Sono questi alcuni degli ingredienti che fanno di Opera 21 una vicenda poco chiara e per nulla trasparente, dove l’unica certezza, tanto per cambiare, è che oltre 250 lavoratori e lavoratrici rischiano di pagare il conto con la perdita del posto di lavoro. Per questo mercoledì mattina, 2 aprile, saranno in sciopero e manifesteranno sotto il Palazzo della Regione a Milano.
Ma facciamo un passo indietro, per cercare di capire come siamo arrivati a questo punto. Fino al 2013 Opera 21, azienda del settore informatico, era una delle tante società del circuito Compagnia delle Opere -il braccio economico di Comunione e Liberazione-, disponeva di tre sedi italiane (Vimodrone, Roma e Napoli) e impiegava circa 450 dipendenti, di cui oltre la metà nel milanese.
Ma nel giugno dell’anno scorso la proprietà decide di chiudere e l’azienda passa in amministrazione straordinaria. Alcuni mesi più tardi, a novembre, arriva la TopNetwork S.p.A. che prende in mano l’azienda mediante un contratto d’affitto, che prevede la salvaguardia dei livelli occupazionali. In quel momento, i dipendenti di Opera 21 erano ancora oltre 300.
Ma a questo punto arriviamo all’oggi, cioè a marzo, quando la TopNetwork invia una sua relazione (vedi allegato) a tutte le parti interessate, in cui annuncia che in assenza di elementi nuovi restituirà l’azienda al commissario straordinario. Una relazione dai toni duri, anzi, un vero e proprio atto di accusa. La TopNetwork parla di “aggressione” e sostiene di aver subito un “incontrovertibile saccheggio di clienti e di personale”. Insomma, secondo questa accusa Opera 21 sarebbe stata “depredata delle attività più remunerative”, cioè le sarebbero state portate via in modo poco corretto e in pochi mesi importanti appalti e il relativo personale specializzato.
La TopNetwork non fa molti nomi, più che altro accenna a complicità interne a Opera 21 e a “clienti disponibili all’avvicendamento, anche operanti nel settore della pubblica amministrazione”. Ma poi qualche nome lo fa: “Un esempio eclatante e ‘spudorato’ è rappresentato dalla commessa Expo 2015”. La TopNetwork non dice di che appalto si tratti, ma in cambio lo fa il Fatto Quotidiano (vedi allegato): si tratta dell’appalto per il software Sigexpo, cioè la piattaforma informatica al servizio del controllo di legalità sugli appalti Expo, annunciato con gran clamore come “sistema innovativo” nel febbraio 2012 in occasione della firma in Prefettura del Protocollo di Legalità.
Ebbene, due anni dopo, tra una cosa e l’altra, Sigexpo non esiste ancora. Opera 21, che aveva ottenuto l’appalto in epoca ciellina, non l’aveva realizzato e ora la commessa è stata soffiata da Wiit.. Ma pare che neanche loro lo realizzeranno, poichéExpo S.p.A. ha dichiarato che la Wiit c’è l’ha soltanto “temporaneamente” e che si farà una nuova procedura di gara per trovare un “nuovo appaltatore”. Chissà, forse per la fine di Expo sarà pronto…
In conclusione, non ho la più pallida idea se in questa vicenda vi siano elementi di rilevanza penale. Auspico ovviamente che la TopNetwork, considerati i toni della sua relazione, abbia presentato denuncia formale, in modo che ci possano essere gli accertamenti del caso. Anche perché altrimenti è legittimo pensare che si tenti soltanto di costruire la giustificazione per eventuali licenziamenti di massa.
E comunque sia, dal punto di vista della salvaguardia occupazionale ogni eventuale accertamento postumo di irregolarità sarebbe purtroppo irrilevante. L’hanno già dimostrato casi ben più eclatanti che abbiamo conosciuto sul nostro territorio, come l’Agile-Eutelia di Pregnana o la Lares di Paderno Dugnano, dov’era stato accertato che fossimo di fronte a autentici fatti delinquenziali da parte della proprietà, ma alla fine i lavoratori sono rimasti disoccupati lo stesso.
Per questo, a parte la necessità che si faccia celermente chiarezza e che eventuali responsabilità vadano accertate, occorre che le istituzioni, in primis Ministero e Regione Lombardia, intervengano immediatamente, cioè a partire dallo sciopero di domani, per impedire che il conto lo debbano pagare i lavoratori.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona sotto, puoi scaricare la relazione della TopNetwork (priva degli allegati, poiché contengono dati sensibili) e l’articolo “Expo, il software ‘antimafia’ è scomparso”, pubblicato dal Fatto Quotidiano il 29 marzo 2014.
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