Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Questo è il vecchio blog di Luciano Muhlbauer e contiene tutti i post dal 2005 al dicembre 2014. Funziona ora come archivio storico. Se vuoi visitare il nuovo blog allora vai su www.lucianomuhlbauer.it
Alla fine la Provincia è stata costretta a fare retromarcia e il Presidente Guido Podestà, smentendo quanto dichiarato da lui stesso fino a cinque minuti prima, ha revocato la sala al raduno neonazista organizzato da Forza Nuova. Sul piano formale, la revoca è motivata dal fatto che il consigliere leghista Fusco ha dichiarato che non avrebbe partecipato al convegno (cosa che però non era nemmeno prevista…), ma sul piano sostanziale è palese che la retromarcia di Podestà è la conseguenza diretta della mobilitazione degli antifascisti e delle antifasciste, che in queste ultime ore si stava allargando. Infatti, al presidio di domani pomeriggio davanti alla Camera del Lavoro si è aggiunto oggi anche la mobilitazione lanciata dagli studenti del collettivo del liceo Leonardo da Vinci, che si trova nello stesso edificio della sala della Provincia e che ha raccolto l’adesione di numerose realtà studentesche.
Niente raduno nazi in centro città e in una sala istituzionale quindi. Bene. Ma attenzione, questo non significa non ci sia più il raduno. Infatti, Forza Nuova ha annunciato che questo si terrà lo stesso, nell’orario programmato e in un albergo, l’Hotel Milton Milano di via Enrico Annibale Butti 9, zona v.le Jenner (per mandare all'albergo proteste, mailbombing, quello che volete; tel. 02.66802366, fax 02.66802909, mail miltonmilano.mi@bestwestern.it e info@miltonmilano.com). In questo momento non è però chiaro se sarà effettivamente questa la nuova sede del raduno oppure se l’annuncio di FN rappresenta un depistaggio, come successo tante altre volte. E non è nemmeno semplice sapere cosa succede effettivamente, poiché lo stesso Ministero degli Interni e i suoi organi periferici, cioè Prefettura e Questura, che in teoria dovrebbero impedire manifestazioni pubbliche di carattere neofascista e neonazista, si stanno invece adoperando perché il raduno si possa realizzare senza problemi. Ma questo è un problema ormai risaputo.
Insomma, abbiamo ottenuto un primo risultato, impedendo l’allucinante scempio di un raduno nazi ospitato dalle istituzioni, ma non è assolutamente il caso di abbassare la guardia e di smobilitare, poiché in nazifascisti domani saranno in città. Quindi, tutte le mobilitazioni antifasciste di domani sono confermate, cioè il presidio degli studenti davanti al Leonardo a partire dalle ore 12.15 e quello davanti alla Camera del Lavoro alle ore 14.00. Per il resto, come si suol dire, stay tuned.
Luciano Muhlbauer
Un convegno nazifascista in pieno centro città in uno spazio pubblico concesso dalla Provincia di Milano. Non è una battuta, ma è la triste realtà e dovrebbe accadere sabato 20 dicembre alle ore 16.00. La location è l’auditorium di via Corridoni 16 a Milano. Secondo il programma comunicato dagli organizzatori, cioè Forza Nuova, saranno presenti rappresentanti del peggio che l’Europa oggi sta producendo, dagli eurodeputati neonazisti di Alba Dorata (Grecia) e del Npd (Germania) ai neofascisti francesi, inglesi, spagnoli e svedesi. E tutto questo, appunto, con una copertura istituzionale pazzesca, visto che la sala è stata richiesta dal leghista Ettore Fusco (Sindaco di Opera e habitué degli assalti ai campi rom), concessa dalla Provincia presieduta da Guido Podestà e che al convegno, secondo il programma, è previsto anche l’intervento della Consigliera regionale lombarda Maria Teresa Baldini (eletta con la lista Maroni e da questa estate passata al gruppo misto).
Solo chi ha le fette di salame sugli occhi poteva non aspettarsi che una cosa del genere sarebbe successa prima o poi. Da troppo tempo estremisti di destra, neofascisti e neonazisti di ogni risma e provenienza stanno puntando Milano, inondandola di iniziative di vario tipo, dai convegni ai concerti nazi, passando per le iniziative di piazza. E perché non dovrebbero farlo? Milano è logisticamente comoda, è una preda ambita in quanto città medaglia d’oro della resistenza e, soprattutto, in questa città i gruppi nazifascisti hanno trovato un’agibilità politica che in molti altri paesi europei neanche si sognano, come anche l’anno che sta per finire ci ha ricordato. Infatti, da parte di Prefettura e Questura sono arrivate soltanto chiacchiere, ma mai un divieto o un’iniziativa incisiva, e anche sinistra ci sono troppi che pensano che l’antifascismo sia ormai demodé.
Si facciano pure gli appelli alle autorità, affinché la legalità costituzionale venga rispettata, poiché questa è cosa giusta e doverosa, ma poi bisogna essere realisti e stare con i piedi per terra. Non c’è alcuna volontà ufficiale di porre un freno all’attivismo dei gruppi neofascisti, che anzi trovano nuova legittimazione nella brutta aria che tira in Europa e nelle iniziative di alcune forze politiche, come la Lega di Salvini.
L’antifascismo può essere efficace soltanto se è frutto dell’impegno diretto dei cittadini e delle cittadine, se vive quotidianamente sui territori, sui luoghi di lavoro e di studio. Ecco perché bisogna reagire in prima persona, come a Milano abbiamo fatto con il bel corteo del 29 aprile scorso, e come dovremo fare di nuovo sabato prossimo, 20 dicembre.
Milano non merita questo ennesimo fregio, con tanto di complicità istituzionale. È quasi natale, pensiamo -o cerchiamo di pensare ad altro- ma sabato prossimo troviamo il tempo per partecipare tutti e tutte alla mobilitazione antifascista che si terrà sabato 20 dicembre, alle ore 14.00 davanti alla Camera del Lavoro, in c.so P.ta Vittoria 43, a Milano.
Fate girare, cercate di esserci.
Luciano Muhlbauer
Vi ricordate lo sciopero generale del 12 dicembre e la notizia degli scontri tra polizia e studenti davanti al Pirellone, sede del Consiglio regionale lombardo? Probabilmente sì, perché praticamente tutti gli organi di informazione hanno sbattuto gli scontri in prima pagina o, meglio, hanno riproposto il solito cliché degli antagonisti desiderosi di scontrarsi sempre e comunque con le forze dell’ordine. E così, quasi nessuno ha saputo la cosa più importante, cioè che gli studenti vestiti da babbo natale avevano scavalcato la recinzione del Pirellone per restituire simbolicamente al Presidente Maroni il “pacco” dei tagli natalizi all’istruzione.
Già, perché ormai i tagli all’istruzione sembrano essere diventati la nuova tradizione natalizia della Lombardia a gestione leghista. Un anno fa era toccato ai contributi regionali alle famiglie della scuola pubblica, tagliati brutalmente e quasi azzerati, pur di salvaguardare il privilegio dei 30milioni di euro di denaro pubblico consegnati alle famiglie della scuola privata. Quest’anno, invece, dovrebbe toccare ai fondi regionali destinati al diritto allo studio universitario, che secondo quanto deciso nelle Commissioni che hanno discusso il bilancio regionale dovrebbero subire un taglio del 40%.
La riduzione riguarda i fondi per il funzionamento degli enti per il diritto allo studio ed è nell’ordine di 6 milioni di euro su un totale di 15. Qualora confermati dal Consiglio in sede di votazione del bilancio nella seduta del 22 e 23 dicembre prossimi, i tagli metterebbe seriamente a repentaglio non solo i servizi erogati agli studenti, come per esempio le mense o gli alloggi, ma gli stessi livelli occupazionali nei servizi gestiti dal CIDiS (Consorzio Pubblico Interuniversitario per la gestione degli interventi per il diritto allo studio universitario). Infine, è bene ricordare che nel caso del diritto allo studio piove sul bagnato, cioè che dopo anni di tagli i fondi disponibili, sia per le borse di studio che per i servizi, sono ormai ridotti all’osso.
Insomma, Maroni e la Lega sono come e peggio di Formigoni e Cl. Si salvaguardano comunque le proprie clientele politiche e gli interessi privati, mentre il taglio di fondi operati dal Governo vengono scaricati esclusivamente sulla scuola pubblica e sul diritto allo studio.
Considerata l’entità del bilancio regionale, i 6 milioni eventualmente risparmiati con i tagli al diritto allo studio sono davvero poca cosa. Considerata invece l’esiguità dei fondi per i diritto allo studio, questi 6 milioni sono tantissimi. In altre parole, questo taglio non è assolutamente sostenibile e giustificabile.
Comunque sia, poiché il silenzio e l’immobilismo non cambiano mai nulla, bene hanno fatto gli studenti a recarsi al Pirellone il 12 dicembre scorso, come peraltro avevano fatto già un anno fa, prendendosi manganellate anche allora. Male hanno invece fatto gli organi di informazione a non parlare del vero problema, cioè dei tagli al diritto allo studio da parte del governo regionale.
E benissimo fanno gli studenti a non fermarsi. È stato infatti indetto per mercoledì 17 dicembre, alle ore 17.30, un presidio davanti al Palazzo Lombardia (MM Gioia), sede dell’amministrazione regionale, per continuare a chiedere il ritiro di questi tagli.
Se potete, fateci un salto.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 11/12/2014, in Lavoro, linkato 1325 volte)
Venerdì 12 dicembre c’è lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil. Gli obiettivi, ribaditi anche in questi giorni da Susanna Camusso, sono modificare il Jobs Act e la legge di stabilità, cioè praticamente tutta la politica economica e sociale del governo Renzi.
Obiettivi senz’altro in linea con le mobilitazioni di questo autunno e tecnicamente possibili, poiché la legge di stabilità è tuttora in discussione e al Jobs Act mancano ancora tutti quei decreti attuativi che scriveranno la legge vera e propria (vedi Liberi di licenziare). Eppure, in giro si sentono molti dubbi, tra lavoratori e cassintegrati, precari e disoccupati, non tanto rispetto agli obiettivi in sé, ma piuttosto rispetto alla loro sostenibilità e credibilità politica. Insomma, molti si chiedono a cosa serva questo sciopero.
Dubbi che nascono da alcune domande rimaste senza risposta, tipo come mai lo sciopero era stato proclamato in una data in cui prevedibilmente il Jobs Act sarebbe già stato approvato? Oppure, come si pensa di poter raggiungere l’obiettivo ora, considerato che non era stato raggiunto prima del 3 dicembre, quando la tensione sociale e lo scontro politico erano ben più intensi?
Sono domande vere e dubbi giustificati che inevitabilmente fanno pensare alle tante, troppe manfrine dell’epoca concertativa, dove prima si gridava alla rivolta di piazza per poi firmare le peggior cose in cambio di un piatto di lenticchie e di qualche privilegio per l’apparato. Anzi, ultimamente non si facevano neanche più le manfrine. E così, di fronte a questo 12 dicembre in molti non sono convinti. Ed è curioso notare che non sembrano crederci troppo neanche tanti funzionari e dirigenti della stessa Cgil, considerati i molti silenzi di questi giorni e il basso livello di mobilitazione di queste ultime settimane, esclusi ovviamente la Fiom e pochi altri settori.
Eppure, sbaglia chi pensa che siamo di fronte alla solita manfrina per riconquistare un posto a tavola (per l’organizzazione) a qualunque prezzo (per i lavoratori). E lo dico non perché pensi che siano cambiate le teste dei gruppi dirigenti, ma per il semplice fatto che è cambiato il contesto, lo scenario. In altre parole, la concertazione non c’è più, non serve più. Non ci sono più i margini economici, non ci sono più i rapporti di forza e non c’è più la volontà da parte del potere economico e politico.
Renzi non ha inventato nulla, sta semplicemente portando alle sue logiche conseguenze un processo in atto da tempo. Insomma, vuole fare quello che non è mai riuscito a Berlusconi e che invece avevano realizzato Reagan con i controllori di volo nel 1981e la Thatcher con i minatori quattro anni più tardi, cioè imporre ai sindacati una sconfitta secca e strategica per poter poi ridisegnare l’insieme delle relazioni industriali, indebolire la forza contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici e, di conseguenza, abbassare ulteriormente i livelli salariali.
La situazione è questa e oggi la Cgil è costretta quasi suo malgrado a lottare, a praticare il conflitto. Non aveva fatto uno sciopero generale contro i governi Monti e Letta e contro la Riforma Fornero e ora lo proclama contro un governo presieduto dal capo del partito al quale è iscritto larga parte del gruppo dirigente della Cgil. E non può contare neanche sulla sponda della cosiddetta “sinistra del Pd”, piena zeppa di ex dirigenti sindacali, compreso l’ex segretario generale, che si è letteralmente liquefatta di fronte alla prospettiva di perdere qualche poltrona.
Appunto, lo scenario è cambiato, radicalmente, e questo apre una contraddizione enorme. La crisi sociale è micidiale, la disoccupazione si fa sempre più di massa, chi lavora non arriva alla fine mese e la Cgil, come organizzazione, deve lottare per la sua sopravvivenza. Ma i gruppi dirigenti, centrali e periferici, del sindacato non sono attrezzati, sono cresciuti nella scuola della concertazione e, a parte quelli della Fiom e poche altre eccezioni, non sanno più come si fa conflitto. Anzi, faticano persino ad immaginarselo.
Il 12 dicembre e le sue ambiguità e contraddizioni si spiegano così. Tuttavia, non si tratta della solita manfrina, ma è appunto un’altra cosa, è una situazione nuova, magmatica e in attesa di definizione. Siamo in un momento sociale e politico di transizione e di gestazione di qualcosa, che potrà essere positivo o negativo, dipende. Anche e soprattutto per questo sarebbe sbagliato non esserci il 12 dicembre –così come negli altri giorni di mobilitazione di questo periodo- e non stare in mezzo ai lavoratori, precari e studenti che saranno in piazza. Perché quello che verrà non dipende dal fato, ma come sempre dalle azioni degli uomini e delle donne.
Infine, eccovi gli appuntamenti di piazza del 12 dicembre a Milano:
ore 9.30, P.ta Venezia, corteo Cgil e Uil
ore 9.30, L.go Cairoli, corteo degli studenti medi e universitari (Rete Studenti, Casc, UdS, CCS, Collettivo Bicocca, Progetto Dillinger ecc.), che scenderanno in piazza non solo contro il Jobs Act, ma anche contro il progetto governativo della Buona Scuola.
Sono passati 45 anni dalla strage fascista e di Stato di piazza Fontana. Un anniversario importante per Milano e tutto il paese, che meriterebbe attenzione, riflessione e iniziativa o, perlomeno, un po’ di autentico rispetto. Invece se ne parla poco, troppo poco, come se fossimo di fronte a un dettaglio irrilevante del nostro passato e non alla prima strage di quella strategia della tensione che insanguinò il nostro paese con l’avallo del potere costituito e con l’unico fine di spezzare la mobilitazione di lavoratori e studenti e di impedire ogni cambiamento. O come se l’impunità per questa strage -e per altre- non fosse un’infamia insopportabile.
Non se ne parla e non è colpa dello sciopero generale del 12 dicembre e nemmeno dello scorrere del tempo, ma piuttosto siamo di fronte al risultato di anni di strisciante revisionismo, di vacui discorsi sulla “pacificazione” e di banalizzazioni, di cui la fiction della Rai, Gli anni spezzati, mandata in onda il gennaio scorso, rappresenta forse l’esempio più lampante e desolante. Oggi la memoria collettiva è confusa e si fa persino confusione tra vittime e carnefici.
Non c’è nulla di innocente in tutto questo, anzi, poiché proprio oggi ci sarebbe un enorme bisogno di ricordare, non per gusto della storia, ma per affrontare e decifrare il presente e il futuro. La liberazione dal nazifascismo, di cui tra pochi mesi si celebrerà il 70° anniversario, le grandi lotte operaie e studentesche e le stragi messe in atto dai fascisti e coperte dai poteri dello Stato sono tutti fatti costituenti della nostra identità. Oggi si vuole riscrivere il passato per cambiare questa identità, per eliminare gli anticorpi e per legittimare nuovamente tesi, politiche e pratiche che sembravano espulsi dall’orizzonte del possibile e dell’accettabile. Infatti, se tutto è uguale a tutto, vittime e carnefici, innocenti e colpevoli, allora perché sorprendersi se razzisti e nazifascisti si ripresentano sulla piazza come se fosse la cosa più normale del mondo.
Guardiamoci attorno, anche soltanto a quello che è successo a Milano in questi ultimi mesi. Dall’ennesimo concerto nazi tenutosi tranquillamente a Milano poche settimane fa alle calate di Forza Nuova nei quartieri popolari di questi giorni, passando ovviamente da quel 18 ottobre, quando la Lega di Salvini si era presa piazza Duomo a braccetto con i neofascisti di Casa Pound.
A destra si sta sdoganando alla grande e in molti, Salvini in primis, vedono aprirsi nuovi spazi disegnati dalla crisi sociale e dal vuoto lasciato dalla sinistra. Per fermare questa deriva non basta certo fare qualche manifestazione antifascista o coltivare la memoria storica. Ci vorrà ben altro, come penso tutti sappiamo molto bene, ma senza memoria e senza antifascismo non ci potrà mai essere un progetto e una pratica alternativi alla destra, perché sarebbe un po’ come vendere l’anima al diavolo.
Ma arriviamo alle iniziative in occasione del 45°anniversario della strage di piazza Fontana:
Sabato 13 dicembre ci sarà una manifestazione cittadina. Appuntamento alle h. 15.00 in piazza XXIV Maggio. Il corteo terminerà in piazza Fontana ed è promossa dal cartello Milano Antifascista, Antirazzista e Meticcia, che comprende diverse forze, da Memoria Antifascista ai centri sociali, dall’Unione degli Studenti al Collettivo Bicocca, da alcuni circoli Anpi a Partigiani in Ogni Quartiere. Comunque, per saperne di più e avere le info aggiornate, andate sulla pagina fb Piazza Fontana 2014.
Infine, lunedì 15 dicembre ci saranno le iniziative in ricordo di Giuseppe Pinelli, che comprende anche un’assemblea pubblica alle h. 21 presso il Cs Leoncavallo.
Insomma, se pensate che la memoria sia una cosa importante e che alle destre fasciste e razziste non vada lasciata via libera, allora partecipate e fate partecipare.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 04/12/2014, in Lavoro, linkato 1727 volte)
Il Jobs Act è legge dello Stato e così nel paese soffocato dalla disoccupazione di massa d'ora in poi non ci saranno più ostacoli legali alla libertà di licenziare. Il Senato ha approvato la legge in maniera definitiva ieri sera, nella versione uscita dalla Camera il 25 novembre scorso e con l’ennesimo voto di fiducia. Tutto come previsto, nessuna sorpresa, nessun sussulto di dignità in casa Pd, a parte un unico voto contrario e due assenti.
Ma cosa cambierà esattamente con questo benedetto Jobs Act, che secondo Renzi risolleverà l’economia nazionale, produrrà nuova occupazione e aiuterà i precari? Ebbene, non si sa ancora con precisione, poiché non si tratta di un testo legge già pronto per l’uso, bensì di una legge delega, cioè di una delega al governo il quale scriverà poi in autonomia la legge vera e propria. E considerato che il diavolo si nasconde nei dettagli, specie quando parliamo di norme e leggi, dove una virgola o una parola possono cambiare tutto, questo non è certamente un fatto trascurabile.
Non a caso, in molti avevano sollevato dubbi di costituzionalità rispetto alla scelta di (auto)sottrarre al Parlamento la podestà legislativa in materie così delicate e rilevanti come il lavoro e i diritti e le libertà dei lavoratori e delle lavoratrici. Comunque sia, i dubbi non avevano i numeri per imporsi e quindi ha prevalso anche nel metodo la strada già intrapresa a suo tempo da Berlusconi. Ebbene sì, perché vi ricordate la cosiddetta legge Biagi di riforma del mercato del lavoro del 2003? Anche allora si procedette con una legge delega (legge 30/2003) e poi il governo scrisse la legge vera e propria con il d.lgs. 276/2003.
Sottolineo il fatto della delega per due motivi. Primo, perché in troppi ora ci diranno che la questione è chiusa e che quindi possiamo anche stare a casa invece che scendere in piazza. Secondo, perché i decreti legislativi che il governo adotterà in base alla legge delega potranno peggiorare ulteriormente il quadro.
Per capire quanto il discorso sia delicato basta considerare l’ampiezza della deleghe, le materie interessate e i “principi e criteri direttivi”. Il governo potrà infatti adottare decreti legislativi finalizzati al “riordino della normativa” in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e di politiche attive, a definire “disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti” in materia di “costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro” e, ovviamente, a scrivere un “testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, alla quale poi si aggiungeranno gli interventi normativi in tema di “maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Insomma, il governo potrà intervenire a tutto campo e con ampi margini di discrezionalità. Peraltro, i principi e criteri direttivi indicano assai chiaramente la direzione di marcia degli interventi.
In primo piano, ci sono ovviamente gli interventi di riscrittura dello Statuto dei lavoratori (legge 300/70), che andranno in direzione di un forte restringimento dei diritti e delle libertà del lavoratore o della lavoratrice e dell’allargamento dei poteri e delle discrezionalità del padronato. Anzitutto, l’articolo 18, già manomesso dalla Riforma Fornero (allora non contrastata dal sindacato confederale, ad esclusione della Fiom), viene definitivamente fatto a pezzi, poiché il reintegro nel posto di lavoro viene abolito completamente in caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, mentre rimarrà solo nel caso di “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare ingiustificato e, ovviamente (perché qui c’è una questione di costituzionalità), nel caso di licenziamento discriminatorio. In poche parole, il reintegro ci sarà soltanto per quei casi che nella realtà sono quelli più difficili da dimostrare da parte della vittiman in sede giudiziaria.
Gli interventi sull’art. 18 sono legati all’introduzione “per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Cosa sarà esattamente questo contratto (durata, modulazione delle “tutele crescenti” ecc.) non è scritto nel Jobs Act e sarà definito dai decreti attuativi. Comunque, la nuova disciplina sui licenziamenti varrà sicuramente per i “nuovi assunti” (che è un concetto slegato dall’età anagrafica e comprende anche quanti vengono ri-assunti nello stesso posto di lavoro), mentre non è chiaro cosa succederà per gli altri lavoratori.
Poi ci saranno anche altri interventi sullo Statuto dei lavoratori, come quello che introdurrà la possibilità di demansionamento del lavoratore entro determinati limiti (comunque derogabili dalla semplice contrattazione aziendale) e quello che prevede la “revisione della disciplina dei controlli a distanza” sull’attività lavorativa, attualmente disciplinati in maniera restrittiva a tutela del lavoratore.
Ci saranno poi gli interventi che riguardano gli ammortizzatori sociali, dove si rilancia quanto già previsto dalla Riforma Fornero, cioè l’introduzione dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) come erogatore universale di indennità di disoccupazione. Si tratta di uno strumento che ha suscitato molte aspettative, specie tra i precari e tra quanti oggi sono privi di accesso agli ammortizzatori, ma i punti ancora oscuri sono davvero troppi, a partire dall’ammontare delle indennità, della durata dell’erogazione e dei requisiti d’accesso. Inoltre, cosa più che allarmante, l’Aspi si dovrà fare sostanzialmente a costo zero e quindi tendenzialmente sparirà la cassa in deroga e quelle ordinaria e straordinaria saranno probabilmente rimodulate. Insomma, si rischia che il tutto finisca con il togliere a chi oggi percepisce forme di cassa integrazione per dare qualcosina a una parte di quanti oggi non hanno niente, riducendo però complessivamente il livello delle tutele e delle prestazioni del sistema.
Persino nelle parti del Jobs Act che suonano positivamente, ci sono troppe cose non chiare oppure degli elementi di forte preoccupazione. Faccio soltanto due esempi.
Primo, si prevede di analizzare tutte le forme contrattuali esistenti e di realizzare dunque degli interventi di “semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”. Tutto bello, suona bene, ma a parte questa affermazione un po’ troppo generica, usato però nei comunicati stampa governativi per promettere la riduzione del numero dei contratti precari, non c’è assolutamente nulla di concreto.
Secondo, anche nel caso delle cure parentali, della maternità e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che giustamente vengono considerate delle cose molto importanti, siamo ad affermazioni piuttosto generiche. Ma poi c’è all’improvviso un dettaglio che suscita qualche preoccupazione: nel caso di “lavoratore genitore con figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute”, si prevede la possibilità che un altro lavoratore dell’azienda ceda “tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi” al suo collega in difficoltà. La solidarietà tra lavoratori è sacra, beninteso, ma qui c’è il legittimo sospetto che il governo voglia fare il furbo e scaricare il peso di un welfare sempre più magro sulle spalle dei lavoratori.
In conclusione, se ce l’avete fatta ad arrivare fino a qui, vi consiglio di leggere il testo della legge delega approvato. Guardatevi questa versione, perché così vedete anche le parti modificate dalla Camera settimana scorsa. È utile, perché così si capisce anche che il famoso maxiemendamento, spacciato come “miglioramento” e grande conquista da una parte della “sinistra del Pd”, rappresenta in realtà il nulla.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 28/11/2014, in Casa, linkato 1598 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer pubblicato su il Manifesto del 28 novembre 2014
A Milano è esplosa la questione abitativa o, meglio, la questione case popolari. Doveva succedere prima o poi, perché in tempi di crisi sociale il prolungato e colpevole abbandono a sé stessa dell’edilizia popolare non poteva che tradursi in deflagrazione. Eppure, oggi in troppi fingono sorpresa e gridano all’untore, cioè all’”occupante abusivo”, a partire da quanti portano la responsabilità politica e istituzionale dell’attuale stato di cose.
Ma diamo un po’ di numeri, perché a volte sono più illuminanti di mille discorsi. A Milano ci sono circa 68mila abitazioni popolari, di cui 29mila sono del Comune e il resto dell’Aler, l’azienda di Regione Lombardia. Di queste quasi 4.000 risultano occupate e 9.700 sfitte, a volte da anni. Il tasso di morosità tra gli inquilini regolari è del 30% e in lista d’attesa sono in quasi 25mila. E poi ci sono le manutenzioni mai fatte, gli sprechi ingiustificabili eccetera.
Insomma, è la fotografia di un fallimento e fallita è praticamente anche l’Aler di Milano: il buco di bilancio ammonta a 345 milioni, secondo la due diligence di un anno fa. Un deficit stratosferico, provocato dalla mala gestione del centrodestra regionale, dagli insensati aumenti d’affitto alle rovinose avventure immobiliari in Libia, passando per l’arresto dell’allora assessore alla casa della Giunta Formigoni-Lega, perché accusato di intrallazzare con la ‘ndrangheta.
La situazione è questa e così succede che in mezzo agli ormai quotidiani sgomberi e allarmismi mediatici il Presidente dell’Aler Milano, l’ex Prefetto Lombardi, uomo di fiducia di Roberto Maroni, dichiari candidamente che non ci sono soldi e che “non possiamo fare nulla, né ristrutturare né fare manutenzione”. Ergo, le case sfitte rimarranno sfitte e quelle sgomberate rimarranno vuote.
Molto più facile allora buttarla in caciara, invocare l’esercito e agitare i manganelli. È un gioco squallido che allontana ogni soluzione reale, ma che è tremendamente comodo e magari paga pure. Lo giocano un po’ tutti, da Salvini al governo Renzi, che con il Ministro Lupi si era infatti inventato il famigerato articolo 5 del piano casa in funzione “antiabusivi”. Appunto, tutta colpa dell’occupante e chi se ne frega degli appartamenti sfitti e dell’emergenza abitativa. D’altronde, è da quando nel lontano 1995 la Consulta dichiarò incostituzionali i fondi Gescal che nessun governo affronta seriamente il problema del finanziamento dell’edilizia popolare.
È dunque comprensibile che il Comune di Milano abbia deciso di separare le “sue” case popolari dall’Aler, che le ha in gestione sin dal 2009, e di affidarle a partire dal 1° dicembre a una società controllata, la Metropolitana Milanese S.p.A. Ma il problema inizia esattamente qui, perché non è semplicemente questione di efficiente amministrazione, bensì di fondi, strategie e priorità. Anche perché la caciara continuerà e la Regione, che in materia detiene la podestà legislativa, ha annunciato per settimana prossima nuove e più restrittive regole per le assegnazioni, come l’introduzione del requisito dei 10 anni di residenza.
Settimana prossima sarà dunque importante e quindi anche chi finora ha taciuto o ha detto le cose a metà è chiamato a prendere parola. Già, perché a questo punto le strade sono soltanto due, cioè proseguire come in questi giorni, continuando a seminare incendi nelle periferie, oppure fare l’unica cosa sensata che c’è da fare: fermare gli sgomberi, assegnare le case sfitte, avviare finalmente la regolarizzazione di chi è in stato di necessità e coinvolgere i sindacati inquilini e i comitati per l’abitare.
“Vivos se los llevaron y vivos los queremos” (vivi li hanno presi, vivi li rivogliamo) si grida oggi in Messico nelle crescenti proteste per i 43 studenti della Escuela normal rural di Ayotzinapa, sequestrati il 26 settembre scorso dalla polizia di Iguala, stato del Guerrero, mentre si recavano a una manifestazione. Da allora di loro non si sa più nulla, sono desaparecidos, “scomparsi”.
“Vivos se los llevaron y vivos los queremos” era riecheggiato innumerevoli volte nelle piazze dell’America Latina, ovunque ci fossero dei desaparecidos, cioè degli oppositori politici e attivisti sociali fatti “scomparire”, per poi finire quasi sempre torturarti e ammazzati. Dalle nostre parti però, quando sentiamo la parola desaparecido, difficilmente pensiamo al Messico di oggi, ma piuttosto ci immaginiamo gli anni 70-80 e paesi come il Cile e l’Argentina, El Salvador e il Guatemala.
Eppure, anche in Messico, sebbene questo paese non abbia vissuto la tragedia della dittatura militare, i desaparecidos e le esecuzioni extragiudiziarie ci sono sempre stati, per lo più nelle zone rurali. In tempi recenti, poi, si è aggiunto anche il crescente potere delle organizzazioni dei narcotrafficanti, i cui gruppi paramilitari agiscono protetti spesso dai legami con settori della polizia e con il corrotto potere politico. Non è un caso, infatti, che nel caso della “scomparsa” dei 43 studenti l’ipotesi più accreditata sostenga che la polizia abbia consegnato i sequestrati a una banda di narcos (per una cronaca dei fatti vedi l’articolo su liberainformazione).
Il caso dei 43 studenti, per infame e enorme che sia, non può dunque essere definito un inedito. Ma è stato il caso che ha generato una reazione in tutto il Messico. Da due mesi c’è una crescente mobilitazione popolare che chiede verità e giustizia, che dice basta e che mette sul banco degli accusati l’insieme del sistema di potere che domina in Messico.
La mobilitazione ha anche oltrepassato i confini del Messico: il 20 novembre scorso c’è stata una prima Giornata globale di azione, con mobilitazioni in diversi paesi. Per ora l’Italia non ha brillato per partecipazione e il 20 ci sono state soltanto piccole iniziative, costruite grazie al prezioso impegno di alcuni realtà più sensibili, come nel caso del presidio a Milano.
Ma importante è non fermarsi e così, il 26 novembre, a due mesi esatti dal sequestro e alla “scomparsa” dei 43 , è prevista una nuova mobilitazione, che stavolta qui da noi vede anche l’impegno di Libera e della Rete della Conoscenza. L’appuntamento milanese è mercoledì 26 novembre, dalle ore 16.00 al Consolato del Messico, in C.so Giacomo Matteotti 1 (MM San Babila).
E se potete, partecipate!
Luciano Muhlbauer
A Milano tira brutta aria, volano le manganellate. Anzi, stando ai titoli di stampa e tv sembra quasi di trovarsi guerra. È un crescendo mediatico impressionante, che non si ferma neanche di fronte all’ennesima alluvione, fatto di notizie di scontri e violenze, di dichiarazioni allarmistiche e di preoccupati editoriali, come quello del Corriere di sabato scorso che ha ammonito “niente tuffi nel passato”, buttando nel calderone un po’ di tutto: gli scioperi, la Fiom, gli studenti, i No Tav, le occupazioni e l’assalto a un circolo Pd.
Il manganello non produce soltanto teste rotte, ma anche senso, narrazione. Nel nostro caso una narrazione che fa sparire i problemi, il confronto, la politica e le persone, tenendo in piedi soltanto due protagonisti, le forze dell’ordine e le forze del caos. Insomma, un modo efficace e collaudato per non dover parlare di quello che succede, delle responsabilità e delle possibili alternative e soluzioni.
Guardiamo a quello che è avvenuto il 14 novembre. C’è stato lo sciopero sociale e quello della Fiom. È stata una riuscitissima giornata di mobilitazione popolare contro le politiche del governo Renzi, con i 60mila lavoratori al corteo della Fiom e gli oltre 5mila studenti a quello della sciopero sociale. Cortei diversi, ma che hanno dialogato, anche con un intervento dal palco dei metalmeccanici. Tanta gente, tanta rabbia e determinazione, ma nessun problema, almeno finché non è arrivata la sconcertante e improvvisa decisione della Questura di Milano di impedire con la forza al corteo studentesco di proseguire sul percorso autorizzato. Le conseguenti manganellate avrebbero poi scritto la storia mediatica della giornata, ridotta a scontri, “antagonisti infiltrati” e agenti feriti.
Ben più pesante è però la martellante campagna che accompagna l’annuncio prefettizio di procedere a 200 sgomberi di appartamenti occupati nelle case popolari. Tutto quello che non va nelle case popolari milanesi è stato condensato in un'unica e indistinta figura di nemico: l’occupante abusivo. Non si distingue più, tutto uguale, dall’occupante che paga una “indennità di occupazione” al delinquente di turno, dalle famiglie in stato di necessità ai furbetti, dai movimenti per la casa al racket.
Se le cose stanno così, ovviamente non rimane che il manganello. Lunedì è toccato al quartiere Giambellino, martedì al Corvetto e avanti così. E ogni sgombero è un nuovo allarme mediatico. Un gioco pericoloso che non risolverà nemmeno mezzo problema, ma che in cambio consentirà ai responsabili della situazione di assolversi e fare facile campagna elettorale (Salvini e Lupi docet).
Già, in questo clima emergenziale chi parlerà ancora dell’enorme buco di bilancio dell’Aler Milano provocato dalla cattiva gestione del centrodestra regionale, di cui l’arresto per concorso esterno in associazione mafiosa dell’allora assessore alla casa della giunta Formigoni-Lega è rimasto triste simbolo? E quanti si ricordano dei tanti appartamenti tenuti sfitti per lunghi anni, delle manutenzioni mai fatte o dell’abbandono di interi quartieri popolari? E, ovviamente, nessuno si ricorderà dei molti accordi presi con i sindacati inquilini e mai rispettati.
Oggi si agita il manganello non per schiacciare un’opposizione forte, che non c’è, ma per impedire che un’opposizione sociale possa diventare forte, allargarsi e organizzarsi. O semplicemente perché non si noti troppo il vuoto della politica che c’è. Comunque sia, sarebbe il caso che si levassero finalmente delle voci per fermare i manganelli. Libera l’ha già fatto e non si capisce proprio perché altri non lo facciano.
Luciano Muhlbauer
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