Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 09/10/2014, in Pace, linkato 1313 volte)
Da quando è esploso l’allarme Isis non passa giorno che i tg, i giornali e i siti d’informazione che vanno per la maggiore non ci propongano una narrazione che suona grosso modo così: da una parte loro, i cattivi, il male, cioè lo Stato islamico (Da’esh in arabo), e dall’altra parte noi, i buoni, il bene, cioè la coalizione anti Isis che riunisce Usa, Europa, Nato e i paesi arabi “moderati”. Ebbene, sui cattivi ci siamo senz’altro (e spero vivamente che anche quelle strane fascinazioni estive che avevano colpito taluni siano definitivamente alle nostre spalle), ma è la storiella dei buoni che non sta proprio in piedi e che, anzi, in questi giorni di eroica e solitaria resistenza di Kobanê si staglia davanti a noi in tutto suo immenso squallore.
Infatti, gli spettatori dei tg nostrani si saranno chiesti più volte come possa accadere che l’armata del bene, dotata di tutta la più avanzata tecnologia militare, non sia in grado di fermare le truppe dell’Isis che assediano la città kurdo-siriana, che peraltro si trova sul confine con uno dei più armati paesi della Nato, cioè la Turchia. A qualcuno sarà venuto persino il dubbio che quelli dell’Isis siano una specie di superuomini. Un mistero, insomma.
Ma la realtà è molto più banale e non ci sono né misteri né superuomini. C’è semplicemente una città circondata da tutte le parti. Su tre lati c’è l’Isis, con migliaia di uomini e armamento pesante, sul quarto lato c’è il confine turco, presidiato e sigillato dall’esercito di quel paese, che impedisce ogni rifornimento e rinforzo agli assediati. In città ci sono alcune migliaia di kurdi e kurde dell’ YPG/YPJ, da soli, a combattere con armi leggere. Non c’è certo bisogno di scomodare il vecchio von Clausewitz per capire come va a finire se la situazione rimane immutata.
In altre parole, se Kobanê cadrà nelle mani di Da’esh, con tutto quello che comporterà in termini umani, il responsabile non si chiamerà soltanto al-Baghdadi, ma anche Erdogan. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul ruolo del governo turco, allora guardi alla brutale repressione delle proteste dei kurdi in Turchia di questi giorni: nel momento in cui scriviamo sono già oltre 20 i kurdi uccisi perché hanno protestato contro il massacro di Kobanê e la complicità del governo turco.
Dall’altra parte, Erdogan è sempre stato nemico dei kurdi e piuttosto amico dell’Isis, al quale permetteva un po’ di tutto, compreso quel confine aperto che invece è negato ai kurdi. Insomma, come nel caso di Arabia Saudita e delle altre petromonarchie del Golfo, prima che arrivasse il contrordine da Washington perché la creatura era sfuggita di mano –così come a suo tempo era successo con Bin Laden in Afghanistan- gli uomini di al-Baghdadi erano piuttosto coccolati, per usare un eufemismo.
Ma questo ormai dovrebbero averlo capito tutti, nonostante continui la narrazione dei buoni e dei cattivi. A livello politico, però, tutto va avanti come se niente fosse. Certo, ora gli aerei Usa sganciano qualche bomba nei dintorni di Kobanê, perché la situazione stava diventando imbarazzante anche per gli stomaci forti, ma poco di più. In Italia, poi, non c’è nemmeno un sottosegretario che trovi il tempo di una dichiarazione.
Già, l’Italia, casa nostra. Un paese della Nato, come la Turchia. Un paese che ora esprime Mrs Pesc, cioè il Ministro degli Esteri dell’Unione Europea. E un paese che, come tutta l’UE, ha accettato di classificare il Pkk (la forza politica più rappresentativa dei kurdi di Turchia) come “organizzazione terroristica”. È stato su questa base che soltanto un mese fa, con l’attacco a Kobanê già in corso, la Procura di Milano ha indagato per terrorismo 40 kurdi residenti in Italia soltanto per aver raccolto denaro per il Pkk.
Sin dall’inizio i kurdi e le kurde siriani, sostenuti da guerriglieri del Pkk, hanno combattuto contro l’Isis, anche quando quest’ultimo era ancora amico di Turchia e Arabia Saudita e gli Usa approvavano. Non avevano finanziatori e amici potenti, ma hanno resistito sul terreno alle bande del califfato meglio di chiunque altro. Hanno costruito nella loro terra e in mezzo alla guerra civile siriana un’esperienza di autogoverno democratico straordinaria, basata sulla Carta di Rojava, che include tutti, “arabi, curdi, assiri, armeni, ceceni, musulmani, cristiani e yazidi, secondo il principio della convivenza pacifica e della fratellanza”. Cioè, un messaggio più unico che raro in quella parte del mondo martoriata dalla guerra e dall’interventismo statunitense. E rappresenta l’esatto contrario dei principi sui cui si basa il Califfato proclamato dall’Isis.
Eppure, il governo Renzi, così loquace su tutto, non ha trovato una parola da dire alla Turchia. Non che Erdogan cambi idea perché glielo dice Renzi, figuriamoci, ma almeno l’Italia mostrerebbe un po’ di dignità (che non sarebbe male dopo l’indegna consegna di Ocalan nel 1999). E Mrs. Pesc Mogherini l’avete sentita? Tuttavia qualcosa di concreto di potrebbe fare, subito, in Italia e in Europa: togliere il Pkk dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Questo sì che darebbe fastidio a Erdogan e, soprattutto, un po’ di ossigeno ai kurdi e alle kurde.
Insomma, il governo italiano deve fare, urgentemente. E noi dobbiamo muoverci perché faccia, insieme alle comunità kurde. Non dobbiamo permettere che questa squallida ipocrisia possa andare avanti con il nostro silenzio, perché saremmo corresponsabili.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 30/07/2014, in Pace, linkato 8510 volte)
C’era una volta la solidarietà con il popolo palestinese. Nella sinistra politica, nei movimenti e tra i pacifisti era semplicemente una cosa scontata, ovvia. Anzi, in Italia sentirsi di sinistra e sentirsi solidali con i palestinesi era quasi la stessa cosa, faceva parte dell’identità. E così, ogni volta che Israele scatenava una delle sue periodiche campagne repressive o di guerra, c’è sempre stata mobilitazione e indignazione. Oggi, invece, dopo tre settimane di bombardamenti su quella prigione a cielo aperto che si chiama Gaza, con più di 1.200 morti, in grandissima parte civili, 5mila case rase a suolo e oltre 200mila sfollati, continuano a prevalere, salvo qualche eccezione, il silenzio e l’immobilismo.
Certo, i tempi sono cambiati e viviamo in un momento storico difficile. La sinistra italiana non è più quella di una volta, per usare un eufemismo, e anche i movimenti non se la passano poi tanto bene. Genova, il movimento dei movimenti, il pacifismo di massa contro la guerra all’Iraq sono cose lontane, appartengono a un’altra era. Anche in Palestina le cose sono cambiate. Una volta a casa nostra si litigava se bisognasse sostenere Al Fatah oppure un’opzione di sinistra più radicale, come il Fronte popolare. Oggi, Al Fatah è ridotta a uno scimmiottamento di uno dei tanti regimi corrotti che i popoli dell’area devono subire e l’organizzazione palestinese egemone nella resistenza all’occupazione israeliana è Hamas.
Sì, il mondo è cambiato e non ci piace. Noi arranchiamo a casa nostra e là in Palestina fatichiamo a trovare interlocutori politici con cui immaginare un percorso comune. E allora, per molti il silenzio, il guardare dall’altra parte e lo sperare che tutto finisca presto, diventa la via di fuga da un problema che non si riesce a risolvere. Altri, pochi per fortuna, si perdono (forse definitivamente) nella confusione e pensano che la presenza di fascistoidi, rossobruni, antisemiti e feccia simile nelle iniziative contro le bombe di Israele non siano un problema importante. Altri ancora, molti di più in questo caso, a volte sospinti dall’immancabile opportunismo, pensano che non ci si possa schierare contro la politica di Israele, perché Hamas non è progressista, bensì islamista, e perché spara missili su Israele, anche se difficilmente questi raggiungono un qualche obiettivo che non sia di natura propagandistica.
Ma se tante cose sono cambiate, ce n’è una che non è mai mutata, che continua imperterrita. Ed è la storia dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi, la storia di un popolo che non ha né terra, né sicurezza, né pace. È più questa storia continua, più diventa grave, irrisolvibile, definitiva. Israele non ha cominciato la guerra da quando c’è Hamas, ma l’ha sempre fatta contro le organizzazioni palestinesi, comunque si chiamassero, Olp, Fplp o Hamas, e qualunque fosse il loro orientamento di fondo, laico, di sinistra o islamista.
Israele non ha mai smesso di occupare e consumare territorio palestinese e se oggi prendete in mano una carta geografica potete vedere che i territori palestinesi sono ridotti a poca cosa, cioè a quella Striscia di Gaza di 360 km² dove si ammassano oltre 1,5 milioni di persone e a quella Cisgiordania dove le colonie israeliane sono avanzate talmente tanto da far assomigliare gli insediamenti palestinesi a dei fortini assediati. Insomma, andando avanti di questo passo, la proposta “due popoli due stati” diventerà definitivamente una chimera, semplicemente per mancanza di territorio per uno stato palestinese. O detto altrimenti, oggi il popolo palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, sta lottando per la sua sopravvivenza.
La realtà è questa e chi veramente auspica la pace e la convivenza tra i popoli deve partire da qui. Oggi parlare di pace ha senso soltanto se ci si impegna per la fine dei bombardamenti israeliani, la fine dell’assedio e dell’embargo di Gaza, lo stop all’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania, la liberazione dei prigionieri politici palestinesi, eccetera. Ma la pace non è un dono che cala dall’alto, va conquistata, perché non fa parte delle opzioni politiche del governo Netanyahu (e allo stato neanche di quelle dei regimi egiziani e sauditi; altra cosa che non cambia mai). Anzi, l’attuale guerra è stata probabilmente decisa nel momento esatto in cui una Hamas indebolita ha annunciato di essere disponibile a ricostruire un governo palestinese unico nel quadro dell’Autorità nazionale palestinese. Sarebbe stato un fatto che in sé avrebbe spinto verso negoziati di pace e Netanyahu non avrebbe potuto dire di no.
Da noi c’è troppo silenzio e non ci sono giustificazioni. Anzi, c’è un aggravante, cioè l’inqualificabile posizione del governo Renzi, che non solo non pronuncia neanche le solite frasi di circostanza, ma che sta addirittura per consegnare a Israele i primi aerei M-346 nell’ambito del programma di cooperazione militare italo-israeliano.
In questo quadro, fare gli equidistanti, parlare d’altro, non mobilitarsi a fianco dei palestinesi e contro i bombardamenti israeliani non ha alcun senso per chi si considera uomo o donna di sinistra. Anzi, se non stiamo con il popolo palestinese ci giochiamo una parte della nostra anima.
 
Luciano Muhlbauer
 
P.S. a proposito, oggi a Milano, alle ore 18.00, in piazza Duomo, angolo Piazzetta Reale, c’è un’altra mobilitazione per la Palestina, un presidio intitolato RESTIAMO UMANI STOP AI BOMBARDAMENTI SU GAZA. Evento fb: www.facebook.com/events/1543684485859833/
 
 
Non è facile fare gli auguri di buone feste di questi tempi e guardare con un minimo di serenità all’anno che verrà. Ci lasciamo alle spalle un altro anno di crisi e di folli politiche di austerità, che arricchiscono pochi e impoveriscono ulteriormente molti. E per capire quanto sia seria la situazione non è nemmeno necessario consultare le statistiche, basta guardarsi attorno tra familiari, amici e conoscenti.
Eppure, proprio in momenti come questi è fondamentale non perdere la bussola e la capacità di coltivare ogni segno di speranza e cambiamento. Ed è di vitale importanza non lasciare che ci atomizzino del tutto, che ci rinchiudano, un@ alla volta, nella prigione della solitudine. Insomma, la solidarietà non è una questione di buoni sentimenti, ma di necessità reciproca, di lungimiranza collettiva. La solidarietà è un’arma, si diceva una volta e forse dobbiamo ricominciare a dirlo.
Ecco perché vi propongo una “buona azione” per le feste, un atto di solidarietà tra chi resiste, lotta, spera, si sbatte per cambiare lo stato di cose presente. Non importa quanto o cosa potete metterci, importante è farlo.
Non è difficile, ahinoi, trovare chi necessità solidarietà. C’è chi continua a stare in strada a lottare per il lavoro (a proposito, gli operai e le operaie della Jabil di Cassina de’ Pecchi si apprestano a passare il terzo natale consecutivo al presidio, mentre a Trezzano sul Naviglio ci sono le attività della fabbrica recuperata Ri-Maflow), chi si ostina a pensare che l’informazione mainstream non sia l’unica possibile (il Manifesto, Radio Popolare e Radio Onda d’Urto sono tutti in campagna abbonamento in questi giorni) oppure c’è chi lotta sul territorio e nella scuole e per questo si trova ora inondato da procedimenti giudiziari, che hanno un loro costo anche economico (il sito MilanoInMovimento ha lanciato una campagna di sottoscrizione per le spese legali intitolata La lotta (si) paga). E poi ci sono tanti altri ancora.
Io però voglio proporvi una “buona azione” in particolare. Riguarda una terra e una causa geograficamente più lontane e di cui dalle nostre parti si parla sempre di meno: la lotta del popolo palestinese per la sua terra e per il suo futuro. La situazione è più drammatica che mai, il processo di pace è poco più di una farsa, il governo israeliano sta rilanciando proprio in questi giorni il programma di espansione delle colonie, le incursioni militari continuano incessantemente e, come se non bastasse, Gaza di recente è stata pure colpita duramente dal maltempo e da inondazioni.
La situazione più critica continua ad essere quella della striscia di Gaza, assediata da più di sei anni e trasformata in una prigione a cielo aperto, dove ormai manca tutto. Proprio lì si sviluppa il progetto “Shady” di affido a distanza, rivolto in particolare a bambini che presentano disagio psichico e difficoltà di apprendimento.
Il progetto è curato dal comitato milanese di Salaam Ragazzi dell’Olivo Onlus. Sul loro sito (www.salaam-milano.org) trovate le info e le coordinate per contattarli. È gente seria, ci si può fidare. Per quanto mi riguarda sostengo un affido a Gaza da anni e intendo rinnovarlo anche per il 2014.
 
Questo è quanto. Deciderete voi se e che cosa fare. A me non rimane che augurare a tutti e tutte buone feste e un anno nuovo migliore di quello vecchio.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 21/03/2013, in Pace, linkato 1305 volte)
Ci sono molti modi per sostenere la lotta del popolo palestinese contro l’occupazione e per il suo diritto a uno Stato, alla libertà e alla giustizia. Uno di questi è l’affido a distanza di bambini che vivono nella Gaza assediata. Ebbene, sono tempi di crisi, tutti e tutte facciamo fatica con i nostri bilanci familiari e questo purtroppo comporta che si riducano anche le disponibilità economiche per poter sostenere gli affidi a distanza. Proprio in questi giorni, infatti, il comitato milanese di Salaam Ragazzi dell’Olivo ha lanciato un grido d’allarme in questo senso, chiedendo di attivarsi per sostenere il progetto di affido a distanza. Conosco Salaam, mi fido di loro e sostengo da anni un affido a distanza. E, soprattutto, sono convinto che proprio in questi tempi ci sia un grande bisogno di non lasciare da soli i palestinesi e di sostenerli, specie i bambini di Gaza, costretti a crescere sotto assedio permanente.
Rilancio dunque l’appello di Salaam, che potete leggere qui sotto, e vi invito a prenderlo in considerazione e/o a rilanciarlo tra i vostri contatti.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Cari amici della Palestina,
vi inviamo questo appello rivolto a voi, ma anche con la richiesta di diffonderlo, al più presto!
Infatti, in questo periodo di crisi economica, abbiamo difficoltà a mantenere attivi tutti gli affidi in corso, per cui stiamo cercando nuove persone o gruppi disponibili ad impegnarsi nel progetto di affido a distanza di un bambino/a o adolescente palestinese, in modo di continuare a garantire il sostegno alle famiglie palestinesi di Gaza.
 
Saluti a tutti/e
Mariagiulia Agnoletto, presidente Salaam Ragazzi dell’Olivo - Comitato di Milano - Onlus
 
 
PROGETTO DI AFFIDO A DISTANZA DI BAMBINE/I PALESTINESI DI GAZA
“perché le bambine e i bambini palestinesi possano crescere liberi nella loro terra”
 
Salaam Ragazzi dell’Olivo-Comitato di Milano-Onlus è una associazione di volontariato, che da molti anni opera con attività e progetti in Palestina, finalizzati alla solidarietà a favore dell’infanzia e del popolo palestinese.
Ci siamo impegnati, in particolare, con il “progetto Shady di affido contestualizzato”, nel territorio del campo profughi di Jabalia e dei villaggi circostanti (nel nord della striscia di Gaza).
“Affido contestualizzato” significa inserire l’affido a distanza del singolo bambino o adolescente in un progetto che coinvolge una comunità territoriale.
Il soggetto collettivo palestinese con cui dal 2000 abbiamo scelto di attuare questo progetto è il Remedial Education Center di Jabalia (R.E.C.): un’associazione laica e democratica, che opera nella striscia di Gaza e che si occupa di rispondere ai bisogni dei bambini/e e ragazzi/e, che presentano disagio psichico e difficoltà di apprendimento a causa delle condizioni sociali, economiche e familiari in cui sono costretti a vivere e crescere sotto il controllo e l’oppressione israeliana.
Questo tipo di progetto ci permette anche di instaurare relazioni, scambi reciproci e di sostenere una struttura dell’associazionismo palestinese, che svolge un ruolo significativo all’interno della società civile locale.
Come sapete la striscia di Gaza è una grande “prigione a cielo aperto”, da dove sono bloccati i movimenti delle persone e gli scambi commerciali, dove le incursioni militari israeliane all’interno dell’area sono continue (l’ultimo gravissimo attacco “Pilastro di difesa” del novembre 2012, ha portato l’uccisione di 177 persone, tra cui 40 bambini, 1.700 feriti, case, scuole e infrastrutture distrutte), con il conseguente continuo peggioramento delle condizioni di vita quotidiana delle famiglie palestinesi.
La popolazione di Gaza necessita ancor più della nostra solidarietà umana, economica, politica e quindi, in questo momento, ci sembra ancora più importante proseguire e consolidare questo progetto.
 
Invitiamo persone singole, famiglie, associazioni, gruppi e chiunque creda in un futuro di libertà e di pace per il popolo palestinese ad impegnarsi nell’affido a distanza di un bambino/a palestinese all’interno di questo nostro progetto e a diffondere l’iniziativa.
 
 
 
Per avere maggiori informazioni su Salaam e sul nostro progetto potete vedere il sito: http://www.salaam-milano.org/
Per aderire o avere informazioni potete scriverci all’indirizzo: comitatosalaam@gmail.com
 
Salaam Ragazzi dell’Olivo - Comitato di Milano - Onlus 
 
Milano, 15 marzo 2013
 
 
di lucmu (del 15/04/2011, in Pace, linkato 1505 volte)
Immensa tristezza e tanta rabbia è quello che sento. Vittorio Arrigoni non c’è più, gli hanno rubato la vita, l’hanno ammazzato. È successo tutto così in fretta. Ieri sera le terribili immagini di Vittorio rapito, poi la corsa al computer, per cercare di smuovere le acque, dalle mail a facebook, al telefono. Giravano i primi appelli da firmare ieri sera, venivano lanciate le prime mobilitazioni, a Roma, a Milano, da altre parti. Free Vittorio Arrigoni now! Liberatelo, ridatecelo! Poi la notte e il risveglio e… Vittorio non c’era più.
Tutto così in fretta, molte cose da chiarire, certo, ma soprattutto, ora, quella grande rabbia, perché Vittorio era di quelle persone che subito sentivi tuo fratello, perché era limpido nel suo impegno. Agiva come parlava e parlava come agiva. Lui la solidarietà la praticava, dal basso, direttamente. Vittorio con il suo agire disvelava le ipocrisie dell’Occidente.
Vittorio odiava la guerra e l’ingiustizia, amava la Palestina e la sua gente. E questa sua ostinazione di restare umano anche laddove la barbarie la faceva da padrona, ha fatto sì che rimanesse spesso l’unica voce italiana a raccontare gli orrori che vivevano i palestinesi di Gaza, rinchiusi dal governo di Israele in un carcere a cielo aperto.
Attraverso il Manifesto Vittorio divenne il nostro occhio durante l’operazione “piombo fuso” e anche oggi era quello che ci raccontava la realtà di Gaza. Ricordo, un mese fa a Milano, una serata per presentare la Freedom Flotilla e c’era la telefonata di Vittorio da Gaza City. Ci ha raccontato che quel giorno c’erano in piazza tantissimi giovani che chiedevano libertà e democrazia. Giovani come quelli di Tunisi o Il Cairo. Ebbene sì, perché Vittorio non sapeva raccontare soltanto gli orrori, ma anche le speranze. Anzi, forse soprattutto quelle.
Vittorio non c’è più e c’è un unico modo perché lui possa continuare a vivere. Cioè, rafforzare il nostro impegno a fianco del popolo palestinese, per la fine dell’assedio israeliano a Gaza e per rompere l’isolamento a cui è sottoposta, per una pace con giustizia. Insomma, rifiutando le voci di ipocriti ed avvoltoi che ora si leveranno per dire che bisogna stare lontani dai palestinesi.
 
Un abbraccio ai familiari di Vittorio, agli attivisti dell’International Solidarity Movement e a tutti quelli e quelle che gli volevano bene.
 
Ciao Vittorio! Restiamo umani.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Sabato 2 aprile ci sarà una mobilitazione anche a Milano, in piazza Fontana, dalle ore 16.00 alle ore 19.00. Un presidio con parole e musica, simile nella forma a quello che si terrà in contemporanea a Roma, contro la guerra, a sostegno delle rivoluzioni democratiche e per l’accoglienza e la protezione dei profughi e dei migranti.
L’iniziativa raccoglie dunque sul territorio milanese l’appello nazionale del Coordinamento 2 aprile, già pubblicato sul blog, per dare la possibilità di manifestare anche a quanti e quante non potranno o vorranno andare a Roma. Iniziative analoghe vengono organizzate anche in altre città.
Per avere aggiornamenti sulla mobilitazione nazionale e sulle iniziative città per città, visita il blog del Coordinamento 2 Aprile: http://coordinamento2aprile.blogspot.com/
Sotto trovi riprodotto l’appello per il 2 aprile nella versione milanese, con l’appuntamento di piazza Fontana e le prime adesioni territoriali. Vi chiedo di farlo circolare a tutti i vostri contatti, informando anche tutte le realtà che non ne sono ancora a conoscenza. Per aderire: milano@arci.it
 
APPELLO COORDINAMENTO 2 APRILE
Le persone, le organizzazioni e le associazioni che in questi giorni hanno sentito la necessità, attraverso appelli, prese di posizioni e promozione di iniziative, di levare la propria voce
CONTRO LA GUERRA E LA CULTURA DELLA GUERRA
PER SOSTENERE LE RIVOLUZIONI E LE LOTTE PER LA LIBERTÀ E LA DEMOCRAZIA DEI POPOLI MEDITERRANEI E DEI PAESI ARABI
PER L'ACCOGLIENZA E LA PROTEZIONE DEI PROFUGHI E DEI MIGRANTI
CONTRO LE DITTATURE, I REGIMI, LE OCCUPAZIONI MILITARI, LE REPRESSIONI IN CORSO
PER IL DISARMO, UN'ECONOMIA ED UNA SOCIETÀ GIUSTA E SOSTENIBILE
 
CHIEDONO
 
LO STOP AI BOMBARDAMENTI E IL CESSATE IL FUOCO IN LIBIA
per fermare la guerra, la repressione ed aprire la strada a una soluzione politica coerentemente democratica.
 
IL 2 APRILE 2011 SARÀ UNA GRANDE GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE E PARTECIPAZIONE ATTIVA A ROMA e IN TANTE PIAZZE D'ITALIA.
A MILANO ci troviamo in Piazza Fontana, dalle 16.00 alle 19.00, con parole e musica ed interventi contro la guerra
 
A partire da quella data ci impegniamo a dar vita ad un percorso diffuso sul territorio di mobilitazioni, iniziative, informazione, assemblee, incontri e solidarietà con i movimenti dei paesi arabi.
 
per adesioni: milano@arci.it
 
Prime adesioni:
 
Associazioni: Arci Milano, AteneinRivolta Milano, Camera del lavoro Milano, Donne in nero Milano, Emergency Milano, Fiom Milano, Legambiente Milano, Leoncavallo-Spazio Pubblico Autogestito,Libera Milano, Mondo Senza Guerre Milano,Punto Rosso, Amigs Sem Terra, Attac Milano, Cisda, Milano città aperta, Memoria storica-Giovanni Pesce, Iomondo-Onlus, Uisp Milano
 
Partiti: Rifondazione Comunista, Sinistra Critica, Sinistra ecologia e libertà, Pdci, Partito Comunista dei Lavoratori, Federazione della Sinistra, Lista Civica Un'Altra Provincia
 
(aggiornate al 30.03.2011)
 
 
Questo blog sostiene la giornata nazionale di mobilitazione lanciata da persone, associazioni ed organizzazioni per sabato 2 aprile. Di seguito il testo dell’appello del Coordinamento 2 aprile, con le prime adesioni.
 
APPELLO COORDINAMENTO 2 APRILE
 
Le persone, le organizzazioni e le associazioni che in questi giorni hanno sentito la necessità, attraverso appelli, prese di posizioni e promozione di iniziative, di levare la propria voce
 
  • CONTRO LA GUERRA E LA CULTURA DELLA GUERRA
  • PER SOSTENERE LE RIVOLUZIONI E LE LOTTE PER LA LIBERTÀ E LA DEMOCRAZIA DEI POPOLI MEDITERRANEI E DEI PAESI ARABI
  • PER L'ACCOGLIENZA E LA PROTEZIONE DEI PROFUGHI E DEI MIGRANTI
  • CONTRO LE DITTATURE, I REGIMI, LE OCCUPAZIONI MILITARI, LE REPRESSIONI IN CORSO
  • PER IL DISARMO, UN'ECONOMIA ED UNA SOCIETÀ GIUSTA E SOSTENIBILE
 
CHIEDONO
 
LO STOP AI BOMBARDAMENTI E IL CESSATE IL FUOCO IN LIBIA
per fermare la guerra, la repressione
ed aprire la strada a una soluzione politica coerentemente democratica.
 
IL 2 APRILE 2011 SARÀ UNA GRANDE GIORNATA DI MOBILITAZIONE E PARTECIPAZIONE ATTIVA A ROMA E IN TANTE PIAZZE D'ITALIA.
 
A partire da quella data ci impegniamo a dar vita ad un percorso diffuso sul territorio di mobilitazioni, iniziative, informazione, assemblee, incontri e solidarietà con i movimenti dei paesi arabi.
 
 
Prime adesioni:
Arci, Action, Associazione Ya Basta Italia, Associazione Mediterranea, Associazione per il rinnovamento della sinistra, Associazione per la pace, Associazione Senzaconfine, A Sud, Attac Italia, AteneinRivolta, Comitato Fiorentino Fermiamo la guerra, Cobas, Democrazia Chilometro Zero, Donne in nero, Emergency, ESC, FIOM–CGIL, Gruppo Abele, Horus Project, Lega diritti dei Popoli, Legambiente, Libera, Lunaria, Rete@Sinistra, Rete della Conoscenza, Rete Romana Solidarietà al Popolo Palestinese, Rete Studenti Medi, Sinistra Euromediterranea, Stryke-Yomigro, UDU, Un ponte per, Forum Ambientalista, Altraagricoltura, IPRI, ASCIA, Comunità Somala Lazio, Amig@s Sem Terra, Associazione Obiettori Nonviolenti, Punto Rosso, Senzaconfine, Rete Antirazzista Firenze, Gruppo Sconfinate, Terre del Fuoco, Iniziativa Femminista Europea
FedS, FGCI, GC, PCL, PdCI, Prc, Sinistra Critica, SeL
 
Altre adesioni:
Rete Nazionale Radiè Resh, Associazione Donne Brasiliane in Italia,
Associazione Sopra i ponti Bologna, WILPF, associazione Ecoinformazioni, perUnaltracittà-Firenze, Centro ligure di documentazione per la pace, Rete controg8 per la globalizzazione dei diritti, comitato intercomunale per la Pace nel Magentino, Movimento Nuovi Profili, Collettivo Byzantium Onlus, associazione Spirit Romanesc, Coordinamento Donne contro il razzismo - Casa Internazionale delle Donne di Roma, Rete Internazionale delle Donne per la Pace, Associazione Casa Rossa – Spoleto, Convergenza delle Culture – Milano, Rete delle donne Anti Violenza onlus – Perugia, Comitato Piazza Carlo Giuliani Onlus, Comitato Internazionale di Educazione per la Pace – Ciep, Servizio Civile Internazionale, Consorzio Città dell'Altraeconomia, Reorient Onlus, Associazione Trama di terre – Imola, Centro di Solidarietà Internazionalista Alta Maremma, Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, Associazione "Periferie al Centro" - Fuori Binario, Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, Associazione Convergenze, Il Cavatappi - Rivista Online, Comunità in Resistenza – Empoli, comitato "Lo sbarco della nave dei diritti di Genova", Freedom Flotilla Italia, Rete Nazionale Radié Resh, Chiama l’Africa, Presidio No Dal Molin –Vicenza, CISDA - Coordinamento italiano sostegno donne afghane, Associazione Dimensioni Diverse Onlus, Osservatorio Europa, Collettivo studentesco universitario Napoli, Centro Francescano di Ascolto – Rovigo, Comitato per la Pace “Rachel Corrie” – Genova, il Popolo Viola – Genova, Unione Inquilini, Associazione Campania Europa Mediterraneo, Assemblea studenti del corso di laurea in scienze per la pace – Università di Pisa, Genova laica, Fabbrica di Nichi – Genova, a-sinistra.blogspot.com, U.S. Citizens for Peace & Justice – Rome, Casa per la Pace Milano, Laboratorio politico Alternativa, Dna Altomilanese, Altragricoltura, Cgil Genova, Cipax, Associazione Ayusya, Associazione Usciamo dal Silenzio – Genova, Rete Antirazzista Catanese, Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella, Blocchi Precari Metropolitani, Associazione Amici di padre Roberto Maestrelli, Tavolo della Cooperazione Internazionale –Empoli, ACS Associazione di Cooperazione e Solidarietà, Tavolo Interventi Civili di Pace, USB – Unione Sindacale di Base, Anpi provinciale Roma e Lazio, Fundacion Gentes de Yilania, Mondo Senza Guerre e Senza Violenza – Firenze, Rete Antirazzista IV Municipio Roma, Centro di accoglienza "E. Balducci" - Zugliano Udine, Csp-Csu (Comitato in difesa della Scuola Pubblica - Coordinamento Studentesco Universitario)
Partito Umanista Internazionale, Comunisti Sinistra Popolare – Venezia, Comunisti Sinistra Popolare - Treviso
 
Adesioni individuali:
Silvana Amati, Enrico Gasbarra, Giuseppe Giulietti, Paolo Nerozzi, Sabina Rossa, Vincenzo Vita, Grazia Scuccimarra, Luciano Muhlbauer, Lido Giampaoli, Barbara Ferrazzo, Tiberio Tanzini, Gian Carlo Bandinelli, Renata Lovati, Simone Lepore, Franco Russo, Agostino Giordano, Francesca Fabbri, Loris Viari, Francesco Cassotti, Paolo Limonta, Mimmo Pantaleo, Maria Silvia Parolin, Franco Origoni, Anna Steiner, Paola Manduca, Moreno Biagioni, Bruno Roveda, Giorgio Nebbia, Angelo Giampietri, Angela Mary Pazzi, Giovanni Capuzzi, Barbara Accetta, Mario Cocco, Maria Carolina Oro
 
(aggiornato al 30.03.2011)
 
Per aggiornamenti sulle adesioni e per conoscere tutte le mobilitazioni città per città, visita il blog del Coordinamento 2 Aprile:
 
 
di lucmu (del 22/03/2011, in Pace, linkato 1188 volte)
Alla fine la guerra è arrivata, anche se i governi che la combattono la chiamano intervento umanitario. La risoluzione Onu dice no fly zone, ma sul terreno piovono le bombe. A capeggiare i “volenterosi” c’è Sarkozy, già compagno di merende di Ben Ali. A favore dell’intervento è anche l’Arabia Saudita, che ha appena inviato i suoi soldati e blindati nel vicino Bahrein per reprimere la locale rivolta di popolo. E poi, ovviamente, ci siamo noi, l’Italia, le nostre basi, i nostri cacciabombardieri e il nostro premier, che è passato in un baleno dal baciamano al regime change, salvo poi dichiararsi “addolorato per Gheddafi”, cioè per gli affari che la Francia sta per soffiarci e per la perdita del migliore sorvegliante di campi di concentramento per migranti e profughi che si potesse desiderare.
Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente, poiché il disorientamento spadroneggia anche dalle parti di quanti dovrebbero indicare delle strade alternative. L’ex potenza mondiale del 2003, cioè il movimento pacifista, non c’è più da anni. Nulla di strano, beninteso, perché anche i movimenti hanno bisogno di risultati, altrimenti rinsecchiscono. Ma che dire della sinistra, politica e sociale, di partito o di movimento? Prima ha faticato terribilmente a rapportarsi con quel fatto nuovo e dirompente che è la rivolta di un’intera generazione che attraversa il Maghreb e il Medio Oriente e, poi, ha tardato a metabolizzare la natura dell’intervento militare e ad articolare una reazione. E le due cose sono legate, strettamente legate.
E così, mentre i giovani tunisini ed egiziani spazzavano via Ben Ali e Mubarak, qui in troppi coltivavano la loro diffidenza e pretendevano esami del sangue. Quando poi è toccato ai giovani libici, allora c’era persino chi in Gheddafi riscopriva improbabili virtù progressiste e antimperialiste. Insomma, dove una primavera cercava di farsi largo, occhi annebbiati da presunzione europea vedevano soltanto tanti arabi che facevano tanto chiasso.
Troppo pochi scorgevano le somiglianze tra i giovani di là e di qua del Mediterraneo, i cui destini, al di là delle diversità, sono accomunati dalla globalizzazione e dalla crisi. E troppo pochi vedevano che quella generazione in rivolta aveva messo fuorigioco l’assioma fondante dello scontro di civiltà, che ammette come uniche alternative la dittatura filo-occidentale o il fondamentalismo islamista, la guerra o il terrorismo.
Le forze restauratrici sono già all’opera in tutto il mondo arabo per soffocare le insorgenze e le speranze, come ci ricordano anche le prove d’intesa tra esercito egiziano e Fratelli musulmani. Ora arriva pure l’intervento militare dell’Occidente a riossigenare quanti erano finiti in un angolo.
Oggi e qui è il tempo per mobilitarsi contro la guerra, per la fine immediata dei bombardamenti. Un no alla guerra che però necessita di un sì altrettanto netto e chiaro alla solidarietà alle insorgenze, da Bengasi al Bahrein, da Algeri a Sana’a.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Samuel Ruiz Garcia, vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, è morto lunedì scorso, il 24 gennaio 2011, all’età di 86 anni. Sotto la sua guida la diocesi di San Cristobal si era schierata a fianco delle popolazioni indigene del Chiapas (Messico), sfruttate, discriminate e sottoposte alle violenze dei latifondisti e dello Stato. Non le avrebbe mai abbandonate, neanche quando scelsero la via della ribellione e dell’insurrezione con l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln).
È stato sempre dalla parte della giustizia e della liberazione e mai da quella del potere e della sopraffazione, così come fece prima di lui Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador, assassinato nel 1980 dagli squadroni della morte.
Mi pare giusto e necessario rendergli omaggio.
 
Luciano Muhlbauer
 
Qui sotto trovate riprodotto, in lingua castigliana, un breve profilo di Samuel Ruiz, scritto dal giornalista messicano Carlos Fazio e pubblicato sul quotidiano messicano La Jornada.
 
 
Don Samuel, El Caminante
 
di Carlos Fazio
 
Al despuntar 1994, con la novedad de la insurgencia campesino-indígena zapatista, un hombre de la Iglesia católica comenzó a acaparar los noticieros y las primeras planas de la prensa mundial: monseñor Samuel Ruiz García, obispo de San Cristóbal de las Casas, Chiapas, en el sureste mexicano.
Pero, ¿quién era Samuel Ruiz, esa figura signo de contradicciones, venerada casi como un dios por los indígenas de Chiapas y odiada al extremo por los poderosos de su diócesis? No era un desconocido. En las zonas indígenas del continente americano, desde Alaska a la Patagonia, pero también en Asia y África así como en los ambientes ecuménicos de Europa, El Tatic Samuel había cobrado fama de profeta desde el inmediato posconcilio, cuando comenzó a aplicar los acuerdos del Vaticano II.
Luego, con Medellín (1968) y el despertar de una nueva conciencia episcopal latinoamericana, en contraste con una institución cupular, vertical, predominantemente conservadora y legitimadora del poder y de la ideología dominante, como la que existe en México y en otras latitudes, don Samuel impulsaría un modelo de Iglesia más participativa, más autóctona. En su diócesis de San Cristóbal fue el constructor de una Iglesia con rostro indígena.
Hijo de espaldas mojadas, fue ordenado sacerdote en Roma, en 1949. Diez años después, Juan XXIII lo nombró obispo de San Cristóbal. Tenía apenas 35 años. Había sido formado para ser un obispo tradicional, de poder. Pero a poco de empezar a recorrer la diócesis, aquella realidad de miserias y carencias le golpeó. Se practicaba entonces un indigenismo paternalista en el cual el indio era objeto de la acción pastoral. De la mano del Concilio Vaticano II comenzó a intuir que por allí no era su camino de pastor. Pero fue su transitar por los senderos reales y de herradura de la selva Lacandona, lo que lo encaminó a su propia conversión. No pudo ser indiferente ante tanta opresión, miseria, hambre, discriminación y muerte.
En el último tercio del siglo XX, Chiapas era baluarte de terratenientes, madereros y cafetaleros, en una realidad de peones acasillados como en la Colonia. Durante un tiempo don Samuel fue un obispo pescado: pasó con los ojos abiertos en medio de la opresión, sin verla. Hasta que descubrió al indio marginado. Eso ocurrió cuando dejó de ver sólo iglesias llenas y tomó conciencia de la explotación del indígena y del funcionamiento de las estructuras sociales de dominación clasista.
Supo entonces que el camino nuevo era riesgoso y conflictivo, porque vendrían acusaciones y le endosarían etiquetas de “marxista” y de una “politización indebida”. Pero eran los peligros que debía afrontar.
En realidad, como dijo él muchas veces, quienes lo convirtieron fueron los indios. La clave, pues, está en que se convirtió al pobre, a las raíces, a la cultura, al pueblo. Y eso comenzó a mover dentro de sí el espíritu hacia la liberación, la justicia y la paz. Vivió entonces la conversión como un continuum; siempre convirtiéndose durante 40 años.
No fue un camino fácil. Tuvo que dejar atrás inercias, boato, comodidades. Nadie opta por los indígenas sin convertirse a los indígenas, esos “Cristos maltratados” al decir de fray Bartolomé de Las Casas. Fue, Samuel, un obispo de puertas abiertas. Pero nunca un obispo sentado. Al contrario, fue y seguirá siendo para quienes le conocieron un pastor itinerante, peregrino. Le decían El Caminante. Por eso los indios de Chiapas lo vieron llegar, incansable, montado en su caballo el Siete Leguas, a lomo de burro, en Jeep o simplemente a pie.
Profeta seductor, supo ser un teólogo que cambió los libros por la historia –la historia real, concreta– y puso los pies sobre la tierra. Hombre de frontera y acompañamientos, se convirtió en líder sin proponérselo, con una cauda de autoridad moral enorme, porque siempre estuvo en la frontera de la vida y la muerte. Además, el hecho de haberse esforzado por comprender las lenguas tzeltal, tzotzil y un poco de chol y tojolabal –las cuatro lenguas indígenas predominantes en su diócesis–, muestra cuál fue su actitud pastoral: no fue desde arriba y afuera, sino desde adentro y a la par.
El mejor testimonio de ello lo dio el pueblo pobre de Chiapas el 10 de febrero de 2000. Ese día bajaron de las montañas y entraron en caravana a San Cristóbal de las Casas, por los cuatro puntos cardinales, más de 15 mil indígenas. Habían llegado a la ciudad mestiza para despedir al obispo local, El Tatic Samuel, quien el 25 de enero anterior había cumplido 40 años de servicio episcopal. Llegaron a expresarle su fervor y su cariño. La ausencia del nuncio Mullor y la mayoría de los obispos mexicanos no menguó el brillo y calor de los festejos. La multitud ni siquiera se enteró de las ausencias de los dignatarios católicos, acostumbrados como están al abandono de los poderosos.
Al alba de aquél día, el padre Clodomiro Siller abrió el libro Tonal pohuali y consultó el calendario maya, para saber los signos del día –su tiempo y su espacio– que le tocaban esa jornada al festejado. La fecha era 12 flor. Tres veces cuatro. Cuatro es la totalidad cósmica. Tres, la mediación, el viento entre el cielo y la tierra. El signo que se debe vestir en un día como ese es el quetzal, la hermosa ave de plumas verdes que jamás puede estar en cautiverio. El ave de la libertad. Su lectura fue clara: Samuel, el mediador, el indomable.
No daba todavía el mediodía, cuando la figura de El Tatic apareció por la puerta de catedral portando su bandera verde de Jcanan Lum (protector y guía del pueblo), que le habían entregado los indígenas en Amatenango. Le acompañaban los 13 ancianos principales, como denominan a los sabios de las etnias. Habían llegado de las siete regiones pastorales de la diócesis. Detrás iban diez obispos –monseñor Raúl Vera entre ellos– y un grupo de indígenas que enarbolaban las 52 banderas que simbolizan el siglo maya.
Después vino la oración y la liturgia en tzotzil, ch’ol, tzeltal, tojolabal, inglés y español. Pidieron por El Tatic Samuel y el tatic Vera; por los catequistas de la diócesis, perseguidos, encarcelados y asesinados. Otro ruego que se oyó (cuyo eco llega hasta el presente en este México militarizado, paramilitarizado y mercenarizado), fue por “los militares y policías que tienen que cumplir órdenes”, para que “no se extralimiten en contra de sus hermanos”, quizá inspirado en la última homilía del arzobispo de San Salvador, Óscar Arnulfo Romero, quien clamó: “En nombre de Dios, cese la represión”, y fue ejecutado por un grupo clandestino del ejército salvadoreño.
En aquellos días, hace 11 años, más de 60 mil soldados, apoyados por aviones y tanquetas vigilaban día y noche a la población maya, que ha protagonizado varias rebeliones a lo largo de su historia. Hoy el número de soldados es menor, pero aumentó el poder de fuego del Ejército con sus tropas de desplazamiento rápido. El pueblo pobre y el fusil de los poderosos enfrentados en esas inmen- sidades chiapanecas, en una guerra silenciosa que lleva más de cinco siglos.
Habían pasado casi cuatro horas, cuando los 13 ancianos en el templete, junto a don Samuel y don Raúl comenzaron a repartir el fuego nuevo, que marca el fin de un ciclo y el comienzo de otro. El ciclo que terminaba eran los 40 años de Samuel Ruiz al frente de la diócesis. El ciclo por venir despertaba entonces dudas y temores. La sombra de un “desmonte” de signo conservador planeaba sobre San Cristóbal, igual que había ocurrido antes en Cuernavaca, la de don Sergio Méndez Arceo. Fueron las comunidades indígenas, el pueblo pobre, digno y combativo de Chiapas, el que ese día, como muchas veces antes, identificó y honró a don Samuel, de manera sencilla, como un padre de proyección mexicana, latinoamericana y mundial, y rindió un caluroso homenaje a su pensamiento y práctica liberadora. Pensamiento, acción y acompañamiento, que en el caso de El Tatic han venido nutriendo a un par de generaciones socio-eclesiales del continente y que por ello, sin duda, forma ya parte de la nueva patrística latinoamericana.
Don Samuel siguió teniendo la espalda ancha y hasta el final supo asumir los momentos de tensión, ¡que no fueron pocos!, con ecuanimidad y hasta con ribetes de humor. “Será su forma de ser o porque es un veterano apaleado. La experiencia enseña a relativizar”, afirmó alguna vez Pedro Casaldáliga. En lo personal, sin compartir su fe, don Samuel nos enseñó el camino de acompañamiento de los indígenas chiapanecos y el pueblo pobre de México.
 
México, 25 de enero de 2011
 
 
Il fiume Indo nasce nel Tibet, poi attraversa le bellissime terre del Ladakh e del Kashmir indiani e, infine, si getta in mare dopo aver attraversato le provincie pakistane del Punjab e del Sind. Ha dato il nome a tutto il subcontinente indiano e, come tutti i grandi corsi d’acqua, fu culla di civiltà ed è fonte di vita nelle terre che bagna. Ma in queste settimane, grazie anche al trattamento che noi umani riserviamo all’ambiente, l’Indo si è trasformato in strumento di morte e distruzione.
In questo momento, in Pakistan, una porzione di terra equivalente all’Italia continentale è sommersa dall’acqua, quasi duemila persone risultano morte e 20 milioni sono sfollate, di cui almeno due milioni non hanno più una casa.
Un disastro immane, in una terra da sempre martoriata. Un paese nato dalla spartizione violenta dell’India, la Partition con i suoi massacri tra indù e musulmani, ostaggio sin dalla sua formazione della debolezza delle istituzioni civili e dello strapotere delle forze armate, peraltro coccolate sul piano internazionale dagli Usa, e oggi flagellato dalla guerra tra esercito e quei gruppi armati del jihadismo che proprio la dittatura militare e i consiglieri a stelle e strisce avevano allevato e coltivato. E come se non bastasse, negli ultimi anni il Pakistan è stato colpito da diversi terremoti, di cui quello più rovinoso, del 2005, aveva provocato oltre 70mila morti.
Insomma, ce ne sarebbero di ragioni, umanitarie o politiche o quello che volete, per mobilitare solidarietà e fondi verso gli uomini e le donne del Pakistan, anche per evitare che il disastro presente prepari altri disastri futuri. Invece niente, o quasi. Non ci sono nemmeno ancora i soldi necessari per far fronte alla prima emergenza, come ha denunciato in questi giorni il segretario generale dell’Onu. Figuriamoci quelli che serviranno per la ricostruzione!
È proprio come scrive Marina Forti su il Manifesto di oggi: “la catastrofe che si è abbattuta sul Pakistan non commuove nessuno”. Peraltro, e a riprova della pochezza della classe dirigente pakistana (e dei suoi sponsor internazionali), non si era commosso più di tanto nemmeno il Presidente del Pakistan, Zardari, che continuava tranquillamente il suo giro in Europa, mentre il suo paese stava annegando (a questo proposito, se sai l’inglese, ti segnaliamo le sintetiche considerazioni di Tariq Ali del 10 agosto scorso: At the Manor of the White Queen).
Per quanto ci riguarda, pensiamo sia sbagliato, misero e colpevole fare finta di niente, come hanno già iniziato a fare i grandi media mainstream, o sostenere, anche con il nostro silenzio, la stomachevole ipocrisia dei nostri governi, prontissimi alle guerre al terrore in terre lontane, ma assenti e menefreghisti di fronte all’odierno dramma.
Ci uniamo quindi, con la nostra piccola voce, a quanti e quante chiedono di non lasciare da soli gli uomini e le donne del Pakistan.
E ti segnaliamo anche la possibilità di contribuire con un gesto di solidarietà diretta. Ovviamente, dal momento che non ci piacciono né i militari, né gli integralisti che predicano con la spada, ti consigliamo il conto aperto dalla Federazione dei Sindacati Uniti del Pakistan, suggerito dall’Usb (Unione Sindacale di Base), l’unico sindacato italiano che allo stato si è mosso sull’argomento. Oppure, se vuoi fare riferimento a qualche organizzazione non governativa presente in loco, come Medici senza Frontiere, ti invitiamo soltanto a valutare la serietà e l’indipendenza dell’Ong. Anzi, se hai suggerimenti a questo proposito, ti siamo grati se li lasci qui sul blog.
 
 
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