Alla fine la guerra è arrivata, anche se i governi che la combattono la chiamano intervento umanitario. La risoluzione Onu dice no fly zone, ma sul terreno piovono le bombe. A capeggiare i “volenterosi” c’è Sarkozy, già compagno di merende di Ben Ali. A favore dell’intervento è anche l’Arabia Saudita, che ha appena inviato i suoi soldati e blindati nel vicino Bahrein per reprimere la locale rivolta di popolo. E poi, ovviamente, ci siamo noi, l’Italia, le nostre basi, i nostri cacciabombardieri e il nostro premier, che è passato in un baleno dal baciamano al regime change, salvo poi dichiararsi “addolorato per Gheddafi”, cioè per gli affari che la Francia sta per soffiarci e per la perdita del migliore sorvegliante di campi di concentramento per migranti e profughi che si potesse desiderare.
Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente, poiché il disorientamento spadroneggia anche dalle parti di quanti dovrebbero indicare delle strade alternative. L’ex potenza mondiale del 2003, cioè il movimento pacifista, non c’è più da anni. Nulla di strano, beninteso, perché anche i movimenti hanno bisogno di risultati, altrimenti rinsecchiscono. Ma che dire della sinistra, politica e sociale, di partito o di movimento? Prima ha faticato terribilmente a rapportarsi con quel fatto nuovo e dirompente che è la rivolta di un’intera generazione che attraversa il Maghreb e il Medio Oriente e, poi, ha tardato a metabolizzare la natura dell’intervento militare e ad articolare una reazione. E le due cose sono legate, strettamente legate.
E così, mentre i giovani tunisini ed egiziani spazzavano via Ben Ali e Mubarak, qui in troppi coltivavano la loro diffidenza e pretendevano esami del sangue. Quando poi è toccato ai giovani libici, allora c’era persino chi in Gheddafi riscopriva improbabili virtù progressiste e antimperialiste. Insomma, dove una primavera cercava di farsi largo, occhi annebbiati da presunzione europea vedevano soltanto tanti arabi che facevano tanto chiasso.
Troppo pochi scorgevano le somiglianze tra i giovani di là e di qua del Mediterraneo, i cui destini, al di là delle diversità, sono accomunati dalla globalizzazione e dalla crisi. E troppo pochi vedevano che quella generazione in rivolta aveva messo fuorigioco l’assioma fondante dello scontro di civiltà, che ammette come uniche alternative la dittatura filo-occidentale o il fondamentalismo islamista, la guerra o il terrorismo.
Le forze restauratrici sono già all’opera in tutto il mondo arabo per soffocare le insorgenze e le speranze, come ci ricordano anche le prove d’intesa tra esercito egiziano e Fratelli musulmani. Ora arriva pure l’intervento militare dell’Occidente a riossigenare quanti erano finiti in un angolo.
Oggi e qui è il tempo per mobilitarsi contro la guerra, per la fine immediata dei bombardamenti. Un no alla guerra che però necessita di un sì altrettanto netto e chiaro alla solidarietà alle insorgenze, da Bengasi al Bahrein, da Algeri a Sana’a.
Luciano Muhlbauer