Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 28 ottobre 2006
Il tema immigrazione, si sa, in politica è argomento ostico, specie dalle parti del centrosinistra. Infatti, terreno di incursione politica e culturale delle destre e inquinato dalla peggior demagogia, difficilmente gratifica sul piano del consenso elettorale quanti parlano di diritti.
Proprio per questo il programma dell’Unione aveva suscitato qualche aspettativa. Certo, si trattava di un compromesso, ma in fondo non era poca cosa che si parlasse di abrogazione della Bossi-Fini, di superamento dei Cpt, di riconoscimento del permesso di soggiorno al lavoratore irregolare che denunciasse la sua condizione o di meccanismi permanenti di regolarizzazione per i sans-papiers. In altre parole, sembrava possibile mettere in discussione quel caposaldo delle politiche migratorie degli ultimi dieci anni che considera il migrante esclusivamente come un problema di ordine pubblico e come manodopera a basso costo e senza diritti.
Tuttavia, e anche questo si sa, un conto è scrivere le cose sul programma elettorale, ben altro è poi attuarle. Così, passati sei mesi dalle elezioni, quella parte di programma, alla pari di altre a dire il vero, sembra già in fase di riscrittura moderata e si riaffaccia prepotentemente il continuismo. Basti ricordare che la bozza Amato si pone in linea di continuità non soltanto con la Turco-Napolitano, ma altresì con parte della Bossi-Fini, oppure che gli interventi contro lo sfruttamento del lavoro irregolare sono stati posticipati e che il Ministro Ferrero è rimasto da solo a sostenere quanto scritto nel programma.
Ma l’esempio forse più limpido è la sostituzione, da parte del Ministro, della parola d’ordine del “superamento” dei Cpt con quella della loro “necessità”. Infatti, i Centri di permanenza temporanea sono simbolo e paradigma dell’approccio securitario e del doppio binario giuridico che ne consegue. E quindi, chi se ne frega se le carceri amministrative sono anticostituzionali e se in fondo non servono a nulla, salvo a fare da costoso alibi per una politica repressiva che fabbrica clandestinità e ghettizzazione.
Succede tutto questo, eppure da parte dei movimenti e delle associazioni c’è troppo silenzio. Beninteso, delle iniziative ci sono state, ma deboli e frastagliate. E segnate quasi sempre da divisioni e polemiche politiche, in una replica in peggio di quanto sta accadendo tra le forze pacifiste e quanto rischiava di accadere in vista della manifestazione del 4 novembre.
È risaputo che le piazze non si riempiono con un mero atto di volontà, ma ritirarsi ognuno nei propri spazi di identità politica e abbandonare il terreno della ricerca di iniziative convergenti a chi e a che cosa serve? Davvero l’unica domanda che importa è “stai con il governo o contro il governo?” come se fossimo semplici spettatori? Di questo passo si rischia la marginalità, mentre mai come oggi c’è un terribile bisogno di rompere il silenzio e di rimettere in moto la mobilitazione sociale e politica. Forse, molto più semplicemente, ci vuole uno scatto di sano e radicale realismo, che metta in secondo piano non certo le differenze, ma quelle dispute che frenano la presa di iniziativa.
Oggi a Milano, capoluogo della regione in cui si concentra un quarto dell’immigrazione nazionale, un arco plurale di forze manifesterà davanti al Cpt di via Corelli, dove 112 migranti sono segregati dietro alti muri di cementi e sorvegliati da 130 agenti di polizia. L’iniziativa ne chiede la chiusura. Che possa essere di buon auspicio e un viatico per la riuscita del 4 novembre, cioè per rompere finalmente il silenzio.