Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente di ottobre 2006
Il 19 luglio scorso si è concluso il processo di primo grado contro i 29 ragazzi e ragazze imputati per i fatti milanesi dell’11 marzo. 25 di loro attendevano la sentenza rinchiusi da oltre quattro mesi nelle carceri di San Vittore e Bollate. Per quasi tutti l’ipotesi di reato era pesantissima: devastazione e saccheggio, per la quale l’articolo 419 del codice penale, risalente al periodo fascista, prevede una pena detentiva tra 8 e 15 anni. Alla fine, a parte i due imputati minori, che hanno patteggiato, nove sono stati assolti e altri 18 condannati a quattro anni e messi agli arresti domiciliari.
In altre parole, una sentenza di compromesso, tutta politica, tra i principi dello stato di diritto e il sommario teorema accusatorio del Pm che ha permesso di porre fine all’incredibile e prolungata carcerazione preventiva, ma che stabilisce un pericoloso precedente. Ebbene sì, perché i ragazzi e le ragazze erano accusati non tanto di fatti specifici, bensì di “concorso morale” in devastazione e saccheggio. Cioè, erano presenti quel giorno alla manifestazione di Porta Venezia e pertanto considerati tout court colpevoli di tutto ciò che vi era accaduto. E se nove di loro sono stati assolti, ciò era dovuto al fatto che l’accusa non riusciva nemmeno a dimostrare la loro partecipazione alla manifestazione. Eppure, anche la maggior parte degli assolti aveva passato lunghi mesi in carcere, unicamente sulla base di accuse sommarie e della campagna d’odio scatenata dal centrodestra milanese.
Insomma, cerchiamo di capirci. Per il solo fatto di essere stato presente in un determinato luogo e in un determinato momento, a prescindere da quello che hai effettivamente fatto, puoi essere sbattuto in galera per quattro mesi senza processo –anche se non hai precedenti penali- e rischiare condanne a lunghi anni di pena. Se dovessimo accettare l’ingresso nella prassi investigativa e giudiziaria del nostro paese di tale uso estensivo e discrezionale della nozione di concorso, allora metteremmo a serio rischio non soltanto le fondamenta del nostro ordinamento giuridico, di cui fa parte il principio che afferma che la responsabilità penale è personale, ma la stessa libertà di manifestare.
Il precedente è tanto più pericoloso, quanto più si è diffuso ultimamente l’uso dell’accusa di concorso in diversi procedimenti contro manifestanti. Basti qui ricordare che in alcuni processi per i fatti di Genova 2001 si teorizza una inaudita “compartecipazione psichica” in devastazione e saccheggio oppure che il “concorso” ha fatto la sua comparsa persino nell’inchiesta sulla nota vicenda del treno di manifestanti anti-Tav, dove si era accomodato incredibilmente anche l’estremista di destra Borghezio. E così due esponenti di un centro sociale milanese, che non avevano nemmeno messo piede sulla carrozza dove erano avvenuti i fatti, si trovano ora indagati per “concorso”.
Ci sono dunque molti validi motivi per non considerare chiusa la vicenda, ai quali ne va aggiunto un altro, cioè che 18 ragazzi e ragazze si trovano tuttora agli arresti domiciliari, in regime di massima restrizione e dunque impossibilitati a riprendere la loro vita, i loro studi e il loro lavoro.
La sinistra milanese ci aveva messo parecchio, troppo, a denunciare l’enormità e la gravità dell’anomalia che si stava consumando. E sarebbe ora un errore ancora più grande far tornare il silenzio. L’uso discrezionale del “concorso” e il ricorso ad accuse palesemente improprie e sproporzionate colpisce fino ad oggi in maniera mirata e limitata alcune aree politiche antagoniste. Una circostanza già abbastanza grave in sé, ma nulla impedisce che in un futuro più o meno vicino possano essere estesi a qualsiasi espressione del conflitto sociale, dal corteo allo sciopero, dalle occupazioni ai blocchi stradali. E allora, forse è giunto il momento di prendere l’iniziativa anche a livello istituzionale e di invitare tutte le forze politiche ad assumersi la responsabilità di porre un freno alla deriva.