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A VOLTE NOI DISPERIAMO
di lucmu (del 29/10/2007 @ 14:05:16, in Politica, linkato 1146 volte)
Il seguente testo rappresenta un contributo alla discussione, nata con l’assemblea autoconvocata da diversi compagni e compagne di Rifondazione di Milano, ed è stato scritto per il blog www.fareasinistra.it.
 
A volte noi disperiamo. Ed essi confidano nella nostra disperazione
(Heriberto Montano)
 
Care compagne, cari compagni,
non avevo sottoscritto il documento “La sinistra che verrà vogliamo farla insieme”, perché non condividevo alcuni passaggi, ma ho partecipato all’assemblea del 15 ottobre all’Arci Corvetto, perché di luoghi e momenti di confronto libero c’è un terribile e urgente bisogno. In questo senso, quella sera una dose di ragione ce l’avevano coloro i quali dicevano che importante non era tanto quello che c’era scritto nel documento, quanto che fossimo lì a parlarci.
E il fatto che la partecipazione era numericamente significativa e che l’età media dei presenti era decisamente inferiore a quella che di solito riscontriamo nelle riunioni di partito, ha senz’altro confermato che lo spirito del documento e della (auto)convocazione raccoglieva un’esigenza e un sentire diffusi.
Ma il difficile viene ora, poiché quella assemblea ha evidenziato con forza che non c’è soltanto bisogno di parlarsi e di confrontarsi senza vincoli e veli, ma soprattutto di fare, di agire. In altre parole, si tratta di assumere la serata del 15 non come una felice parentesi, bensì come un punto di partenza, che possa innescare processi e partecipazione, senza che le parole e le pratiche corrano su binari separati.
Ebbene, se sono rose fioriranno, come si usa dire, ma questo dipende, in ultima analisi, da noi stessi. Quindi, come sollecitato, cerco di dare il mio piccolo contributo alla riflessione.
Penso sia consapevolezza diffusa e condivisa che viviamo un momento storico in cui è posta la questione dell’esistenza e del futuro della sinistra, cioè di una soggettività e di un progetto politici in grado di farsi interpreti e organizzatori degli interessi delle classi subalterne nella prospettiva di un’alternativa di società. Una questione non nuova, a dire la verità. Rifondazione Comunista stessa era nata proprio in questa prospettiva e, in fondo, anche la stagione dei movimenti, da Seattle e Genova in poi, poneva il problema della ricostruzione di un orizzonte politico e sociale sottratto alla miseria del pensiero unico e del governo dell’esistente. Questo e non altro rappresentava, infatti, l’esclamazione collettiva “un altro mondo è possibile”.
Una questione non nuova, appunto, che affonda le sue radici negli avvenimenti epocali della fine del secolo scorso, nelle sconfitte politiche del movimento operaio, nel crollo inglorioso dell’obbrobrio del socialismo reale e nelle modifiche intervenute nella composizione dei soggetti sociali di riferimento delle sinistre. Ma oggi quella questione si staglia in tutta la sua drammaticità di fronte a noi, in Italia e in Europa. Come sempre accade nella storia, il cambio nei rapporti di forza sociali necessità di tempo prima di produrre tutti i suoi effetti sul piano delle coscienze e della cultura. Ma oggi ci siamo, i nodi sono venuti al pettine, l’egemonia culturale appartiene ormai alle destre e ai soggetti sociali che esse rappresentano e assistiamo a uno spostamento del baricentro dell’intero quadro politico e culturale a destra.
Se non teniamo conto di questo quadro generale è difficile, anzi impossibile, leggere la situazione politica contingente. Appare, infatti, evidente che l’esperienza del governo dell’Unione ha natura transitoria. L’alleanza era nata essenzialmente per mandare a casa Berlusconi  e, una volta raggiunto l’obiettivo, i diversi progetti politici che vi convivono hanno ripreso la loro autonomia. O meglio, soprattutto il progetto del Partito Democratico lo ha fatto, cestinando in un batter d’occhio gli accordi programmatici e imponendo la sua regia e le sue scelte all’azione di governo. Il PD guarda al dopo, sta preparando il dopo, e in questo senso il logoramento sistematico delle sinistre è funzionale alla prospettiva di un nuovo sistema politico basato sulla competizione, all’americana, tra due grandi aggregazioni politiche, molto simili tra di loro e ambedue concordi sulle grandi scelte di fondo, che si scontrano per il governo dell’esistente. Un siffatto progetto non può tollerare una sinistra forte e una prospettiva di alternativa viva, né sul piano politico, né su quello sociale. Ecco perché vi è una forte analogia tra quello che avviene sul piano politico e su quello sindacale, dove ogni tendenza sindacale non compatibile con l’idea neocorporativa e subalterna (sindacalismo di base, Fiom, sinistre interne varie) deve essere schiacciata con ogni mezzo.
Ma tutto questo era in qualche modo prevedibile, poiché gli anni di protagonismo dei movimenti non hanno modificato le posizioni prevalenti nei Ds. Colpisce dunque l’impreparazione e l’improvvisazione con le quali il nostro partito ha affrontato la fase del governo Prodi, affidandosi di fatto alla navigazione a vista e finendo con l’appiattirsi sulla dimensione istituzionale, vista anche la scelta di collocare quasi l’intero gruppo dirigente nelle istituzioni. E il prezzo maggiore del continuismo del governo lo stiamo pagando proprio noi, perché gran parte del peso delle speranze e delle aspettative di cambiamento gravano sulle nostre spalle. E quando vieni percepito, soprattutto dalla tua gente, come simile o uguale agli altri, che promettono tante cose e poi fanno il contrario, allora perdi credibilità. Ne sono dimostrazione i risultati elettorali delle ultime amministrative, con un forte astensionismo nel nostro elettorato, e la vera e propria crisi di rapporto con le situazioni di movimento (da Vicenza alla Val di Susa).
Tutto questo per dire che il problema primario che oggi abbiamo di fronte non è tanto quello di capire se è meglio mantenere Rifondazione o costituire, nelle forme possibili, un nuovo soggetto della sinistra. Ambedue le ipotesi, infatti, per non diventare rispettivamente un ripiegamento identitario o un’acrobazia politicista, devono fare i conti con la natura della crisi delle sinistre e con l’attuale perdita di credibilità e di radicamento sociale.
Per dirla in altre parole, è sufficiente calare il ragionamento generale nella realtà che viviamo tutti giorni, cioè quella milanese e lombarda. Anzi, proprio qui si riescono a cogliere meglio i processi e i pericoli, perché il nostro territorio ha anticipato e anticipa quanto avviene sul piano nazionale. Qui sono nate le nuove destre che hanno dilagato, da Berlusconi alla Lega. Qui si leggevano sin dall’inizio e con maggior chiarezza le dinamiche del centrosinistra, con un PD che corre velocemente a destra, convergendo sul “modello Formigoni” e cavalcando il securitarismo, e con una sinistra incapace di uscire dalla logica della resistenza, cioè dalla difesa degli spazi fisici e politici esistenti. Insomma, il PD risponde alla crisi della sinistra, fuoriuscendo dalla sinistra, mentre noi ci chiudiamo nei fortini assediati, che diventano sempre di meno. Ed è sempre dalle nostre parti dove i soggetti sociali sono cambiati prima e più a fondo, dov’è saltato con più forza il tessuto di relazioni sociali e la precarietà si è impadronita ampiamente del lavoro e delle esistenze.
Oggi le destre riescono a comunicare con i ceti popolari, sono presenti nei quartieri. Rispondono al disagio e alle insicurezze di lavoratori, pensionati e giovani, parlando alla pancia e fornendo nemici facili e abbordabili: il rom, l’immigrato, il diverso eccetera. È razzismo e securitarismo, ma soprattutto è guerra tra i poveri.
Ma mentre tutto questo accade, noi siamo sempre meno presenti sul territorio e nei quartieri popolari. Non parliamo più alla nostra gente, perché di nostra gente si tratta, non di ricchi e borghesi. E non risolviamo il problema andando nei quartieri a dire “non prendertelo con l’immigrato, devi essere più solidale”. No, non funziona, perché la persona a cui parli vive un disagio reale, fa fatica ad arrivare alla fine del mese, non guarda al futuro con serenità e sente la politica e le istituzioni lontane dalla sua quotidianità. Ma noi, di Rifondazione e della sinistra in generale, compresa quella “antagonista”, siamo sempre meno presenti, sempre meno capaci di interloquire con il disagio, di abbozzare risposte, di organizzare vertenze e lotte. Un esempio tra i tanti? A Milano la questione casa è di primaria importanza per i ceti popolari, di ogni fascia d’età. Ma, a parte singoli compagni, il partito è completamente assente dalla questione, sia in termini di presenza organizzata, che di iniziativa e proposta politica. Anzi, la federazione milanese non dispone nemmeno di un dirigente responsabile della questione.
Oggi la priorità delle priorità è quella di ricominciare dal basso, ma per davvero, non semplicemente scrivendolo su qualche manifesto o documento. Non ci sarà né Rifondazione, né sinistra di alternativa, né sinistra plurale, né niente se non si comincerà dalla ricostruzione di una nostra internità ai nostri referenti sociali e ai loro problemi, stando nei luoghi di lavoro e sui territori. Vanno riconquistate le nostre casematte, che stanno nella società e non nei palazzi.
Ahinoi, la federazione milanese, nonostante le felici intuizioni della conferenza d’organizzazione, continua come prima e lo stesso processo di confronto con le altre forze della sinistra risente di un certo verticismo e politicismo; ovvero, non riesce a uscire dagli ambiti propri del “ceto” politico e istituzionale. Certo, non è facile fare altrimenti, ma bisogna pure iniziare da qualche parte e sperimentare pratiche, e soprattutto occorre collocarci dal punto di vista dei soggetti sociali e meno da quello delle mediazioni istituzionali e degli equilibrismi politici. E bisogna farlo subito, perché il tempo è implacabile.
In questo senso, anche i comitati che contestano l’uso e l’abuso del territorio urbano a fini speculativi, il centro sociale che ricostruisce il murale cancellato, dei lavoratori che scioperano o qualsiasi altro segno tangibile di conflittualità e vertenzialità, persino a prescindere da ogni eventuale giudizio politico di merito, non sono mai un problema, ma sempre una preziosa occasione di confronto e relazione.
Forse il compito di un ambito informale e aperto di confronto come quello nato il 15 ottobre può servire a questo, a dare un contributo in quella direzione. Ma occorre fare in fretta, anche per evitare che altri compagni e compagne si facciano vincere dalla rassegnazione.
Ovviamente, nessuno è ingenuo e tutti e tutte sappiamo che Milano non è un isola, né lo è la federazione milanese. Per forza di cose bisogna fare i conti con quanto accade nella discussione e nella pratica del partito a livello nazionale, ma noi siamo qui ed è qui dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. E così facendo, misurandoci con il fare e rompendo la logica degli schieramenti interni precostituiti e fossilizzati, forse riusciamo a dare un contributo anche più ampio.
 
di Luciano Muhlbauer