Il seguente documento è stato scritto come contributo al dibattito in vista delle prossime elezioni regionali, che si terranno a fine marzo 2010, perché ogni ragionamento sulle proposte per il futuro deve partire necessariamente dallo stato delle cose presente, per non essere astratto o politicista o peggio ancora. Non è un testo che ha la pretesa di essere onnicomprensivo, ma soltanto quello di offrire una lettura e di suscitare confronto. Concretamente è stato scritto per il dibattito del Prc lombardo, in corso in questo giorni, ma credo posso interessare tutti e tutte coloro che pensano che dobbiamo porci il problema di come liberarci dal blocco Formigoni-Lega che soffoca e questa regione.
Buona lettura.
L’esaurimento della spinta propulsiva del modello Formigoni e l’urgenza di un’alternativa
(elementi per un bilancio della VIII Legislatura in Regione Lombardia)
di Luciano Muhlbauer (Consigliere Regionale della Lombardia, Prc)
1. Lombardia, culla dell’egemonia delle Destre
In Regione Lombardia sta volgendo al termine la VIII Legislatura. Era iniziata nel 2005 e le elezioni sono fissate per il 28 marzo 2010. È stato il secondo quinquennio di alleanza Formigoni-Lega e il terzo mandato presidenziale consecutivo di Roberto Formigoni. E ora rischiamo davvero che si compia il ventennio formigoniano, poiché il Presidente uscente sarà di nuovo il candidato del centrodestra.
Questo prolungato periodo di governo è espressione di quella forte e consolidata egemonia politica e culturale, che rappresenta una delle chiavi dell’affermazione del centrodestra a livello nazionale. In Lombardia sono nati il Berlusconi politico, il suo partito-azienda e la Lega Nord. E oggi a Roma siede il Governo più lombardo di tutta la storia repubblicana: non solo la Presidenza del Consiglio, ma tutti i Ministeri chiave sono in mano a uomini del centrodestra lombardo.
Si conferma così quella verità per troppo tempo tragicamente sottovalutata a sinistra, cioè che quel che accade in Lombardia non riguarda soltanto la Lombardia. Qui sono stati anticipati processi sociali, politici e culturali ed è qui che si trova uno dei punti decisivi per la ricostruzione di un insediamento e di un’alternativa.
2. La crisi e l’esaurimento della spinta propulsiva del modello Formigoni
Il terzo quinquennio formigoniano è stato senz’altro di consolidamento del modello Formigoni, ormai chiamato modello Lombardia, ma contestualmente ha evidenziato anche rilevanti segni di stanchezza e di instabilità, che indicano l’esaurimento della sua spinta propulsiva.
In questo senso, particolarmente significativa è l’afonia del governo regionale di fronte alla crisi e al suo impatto sulle attività produttive e l’occupazione, mascherata soltanto dalla straordinaria capacità di condizionamento del sistema informativo da parte del Presidente.
Le misure anticrisi adottate dal governo regionale, infatti, consistono essenzialmente nell’erogazione di ammortizzatori sociali “in deroga”, con l’aggiunta di corsi di formazione e di qualche sussidio ad hoc, qui e là, ai lavoratori vittime della crisi. Il bilancio delle iniziative di contrasto delle crisi aziendali, invece, è un autentico disastro. Non c’è stata nemmeno una crisi aziendale – e sono tante - che abbia ad oggi trovato non diciamo una soluzione, ma una prospettiva di soluzione grazie all’intervento della Regione. Anzi, l’unico caso di soluzione positiva, l’Innse, si è dato nonostante e malgrado la Regione.
Altrettanto inesistente è la politica anticiclica, intesa come un insieme di misure tese a favorire il rilancio economico ed occupazionale nel medio-lungo termine. Da questo punto di vista, la Regione ha scelto fondamentalmente di non scegliere e di limitarsi dunque a operazioni di carattere quantitativo, intensificando un po’ i finanziamenti a pioggia alle imprese oppure spacciando delle mere deregolamentazioni, come il “piano casa”, come provvedimenti anticiclici.
Insomma, il governo regionale ispira i suoi provvedimenti alla speranza che la tempesta passi in fretta e che poi tutto torni come prima, limitandosi pertanto a distribuire un po’ di ammortizzatori e sussidi, che peraltro garantiscono un sostegno al reddito povero e insufficiente, non per tutti e solo nel breve periodo. In altre parole, di fronte a una crisi tanto profonda, dove nulla tornerà come prima e tanto meno spontaneamente, il governo regionale è sostanzialmente e pericolosamente immobile.
3. La prospettiva di un nuovo patto Formigoni-Lega
L’esaurimento della spinta propulsiva del modello Formigoni non significa però affatto che è vicina la sua fine. Infatti, non soltanto veniamo da una legislatura di forte consolidamento istituzionale del modello politico e sociale del centrodestra lombardo, con annesse distorsioni democratiche, ma vi è altresì una terribile debolezza e irresolutezza dell’opposizione, che offre alla Lega l’opportunità di giocarsi fino in fondo il suo ruolo di “partito di lotta e di governo”, cioè di tentare di capitalizzare da destra la situazione. Una prospettiva per nulla tranquillizzante, che vedrebbe una campagna elettorale giocata tutta dentro il perimetro del centrodestra e, soprattutto, che porterebbe all’esito di un nuovo patto di potere tra Formigoni e Lega, il quale non modificherebbe nulla sul piano delle politiche sociali ed economiche, ma aggiungerebbe semplicemente una dose più consistente di demagogia, xenofobia e imbarbarimento.
Vediamo dunque da più vicino, sebbene in maniera sintetica, lo stato delle cose in Regione.
4. Il Presidente Principe
Il processo di accentramento di potere nella figura del Presidente è senz’altro la cifra del modello Lombardia sul piano istituzionale. E così, in Lombardia anche il grido di guerra “federalismo!” si traduce nei fatti in una sorta di neo-centralismo regionale, che chiede più poteri e soldi allo Stato e contemporaneamente erode le competenze delle autonomie locali.
Non tutto è responsabilità politica del solo Formigoni, ovviamente, visto che il modello presidenzialista introdotto in Italia con l’elezione diretta del Presidente della Regione è piuttosto sui generis. Cioè, quando in Italia diciamo “presidenzialismo” non stiamo affatto parlando della stessa cosa che c’è in Francia, negli Usa oppure in Brasile, dove a un Presidente molto potente corrispondono comunque dei contrappesi istituzionali. In altre parole, anche la forma di governo presidenzialista si basa sulla separazione dei poteri e dunque sull’equilibrio dei poteri.
Da noi, invece, Montesquieu sembra un emerito sconosciuto e all’introduzione dell’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni non è seguito alcun ragionamento di sistema, creando così un crescente squilibrio. Infatti, i Consigli regionali –le assemblee legislative- hanno subito una continua erosione di poteri e funzioni, a tutto vantaggio dell’esecutivo, cioè del Presidente.
Insomma, nelle Regioni succede la medesima cosa che vediamo all’opera a livello nazionale, dove il rafforzamento dell’esecutivo –del Premier- non avviene nel quadro di un nuovo bilanciamento dei poteri, bensì sottraendo ruolo, competenze e credibilità agli altri poteri dello Stato (Parlamento e Magistratura).
Questa dinamica è tanto più forte, quanto più lunga è la permanenza al potere dello stesso Presidente. Non a caso, infatti, il primo dei principi di ogni sistema presidenziale è il limite dei due mandati. In Lombardia, invece, Formigoni non solo ha già fatto tre mandati consecutivi, ma ora si candida tranquillamente per il quarto, senza che la cosa susciti nemmeno un po’ scandalo.
Beninteso, anche in Italia e in Lombardia c’è scritto che non si possono fare più di due mandati, ma poi basta rifare la legge –in questo caso lo Statuto- e il contatore viene azzerato. E così, ai sensi del nuovo Statuto “d’Autonomia”, approvato senza il nostro voto favorevole il 14 maggio 2008, Formigoni non è al terzo, bensì al primo mandato…
5. L’occupazione della cosa pubblica da parte di Comunione e Liberazione
Un’occupazione prolungata del potere nel quadro di un presidenzialismo squilibrato e senza contrappesi produce facilmente una confusione di ruoli e una sovrapposizione tra parte politica e cosa pubblica, cioè tra interessi particolari e interesse generale. In altre parole, una distorsione del funzionamento democratico.
Infatti, uno dei segni distintivi del terzo mandato presidenziale di Formigoni è stato il rafforzamento della dinamica di occupazione del potere. Dopo tanti anni è ormai difficile, anzi quasi impossibile, trovare tra gli alti dirigenti dell’Amministrazione regionale persone che siano indipendenti dagli interessi politici ed economici di Formigoni e del suo movimento politico. E la stessa cosa vale per il sistema regionale, cioè l’insieme degli enti e delle aziende che in qualche modo dipendono dalla Regione (Asl, Aziende Ospedaliere, Fondazioni varie, Aler, Ferrovie Nord Milano S.p.A., Finlombarda S.p.A., Infrastrutture lombarde S.p.A., Arifil, Arpa ecc. ecc.), dove una quota fissa e prevalente delle nomine è assegnata a esponenti di Comunione e Liberazione (Cl).
A tutto questo si aggiunga che la stessa corrente politica, attraverso il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere (CdO), assorbe ormai in maniera fisiologica una parte consistente dei numerosi finanziamenti regionali. Esempio eclatante di questo privilegio strutturale è senz’altro il caso della costruzione ex novo di un polo scolastico privato a Crema, su iniziativa della Fondazione Charis, di area Cl. Ebbene, nel 2008 il governo regionale decise, seguendo un iter super-veloce, di cofinanziare il progetto con 4,5 milioni di euro, stornando questi soldi dai fondi per l’edilizia scolastica. Cioè, sottraendo questo denaro, mediante il meccanismo della “programmazione negoziata” (leggi: trattativa diretta), ai progetti di messa in sicurezza delle scuole pubbliche.
Insomma, oggi il profondo intreccio tra l’amministrazione pubblica e l’universo politico-affaristico di riferimento del Presidente ha messo seriamente in discussione l’indipendenza e la trasparenza dell’amministrazione regionale. Una distorsione del quadro democratico che solleva anche una questione morale, poiché di fatto i lombardi pagano oggi una sorta di tassa non dichiarata a Cl-CdO.
6. La privatizzazione assistita delle funzioni pubbliche
La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 introdusse tra le altre cose il principio di sussidiarietà (art. 118) e Formigoni lo trasformò subito in uno dei capisaldi ideologici del suo modello; ovviamente, adeguandolo alle sue esigenze.
Infatti, la sussidiarietà “verticale”, che stabilisce il passaggio di competenze dalla Regione ai Comuni, è rimasta sostanzialmente lettera morta. Anzi, succede l’esatto contrario. La sussidiarietà “orizzontale”, invece, concetto di per sé ambiguo, è diventata la suprema giustificazione della progressiva privatizzazione delle funzioni pubbliche, le quali però non vengono semplicemente delegate al mercato, bensì a un sistema misto, dove pubblico e privato sono equiparati e ambedue finanziati con denaro pubblico. In altre parole, il privato non cammina sulle sue gambe, ma, nella misura in cui dispone dell’accredito regionale, gode di regolare e sicura retribuzione pubblica.
Il modello di riferimento, nonché la prima esperienza concreta, è ovviamente la riforma della sanità e dei servizi socio-sanitari lombardi, ma nella VIII Legislatura si sono aggiunti anche il mercato del lavoro, cioè la “rete degli operatori accreditati” pubblici e privati per i servizi al lavoro (l.r. n. 22/2006), e il “sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia” (l.r. n. 19/2007), con la quale la Regione ha lanciato un attacco bello e buono alla scuola pubblica, andando ben oltre le sue competenze e prefigurando uno scenario analogo a quello evocato ora in Parlamento dal ddl Aprea.
In tutti questi casi il principio fondante è sempre il medesimo: il pubblico non gestisce più direttamente i servizi in via esclusiva, ma apre il mercato dell’erogazione dei servizi ai privati. Questi ultimi devono soltanto accreditarsi presso la Regione e poi possono accedere al finanziamento regionale alla pari delle strutture pubbliche. Insomma, rischio di impresa ridotto al lumicino e affare garantito.
7. Lo smantellamento dell’edilizia sociale
La medesima logica di rinuncia al ruolo pubblico viene applicata anche a un settore socialmente molto sensibile, cioè quello dell’Edilizia residenziale pubblica (Erp), costituito in Lombardia da 170mila unità abitative, tra Aler e Comuni.
I provvedimenti in materia della VIII legislatura rappresentano nel loro insieme una sorta di politica del carciofo, tesa alla progressiva fuoriuscita dall’Erp. Qui basti ricordarne due: il Prerp (Programma regionale di edilizia residenziale pubblica) 2007-2009 e la legge regionale n. 27/2007. Il primo tagliò brutalmente gli investimenti per la costruzione e manutenzione di case popolari -oltre 500 milioni di euro in meno rispetto al triennio precedente (praticamente la medesima cifra stanziata qualche settimana più tardi per la costruzione della nuova sede della Regione!)- e il secondo impose un aumento generalizzato dei canoni d’affitto nelle case popolari e diede il via libera alla vendita del 20% del patrimonio abitativo.
Certo, la normativa Erp è un terreno molto complicato e, tranne gli addetti ai lavori, pochi ci capiscono qualcosa. Ma non occorre certo essere degli esperti per capire che il consistente taglio degli investimenti e la contestuale vendita di un quinto del patrimonio portano al risultato di ridurre fortemente l’offerta, già oggi insufficiente, di alloggi sociali.
E siccome questa verità è palese, ecco che arrivano le nuove soluzioni: mix sociale e housing sociale. La prima offre il discorso politico-culturale, sostenendo che per evitare la formazione di ghetti occorre mettere insieme nello stesso stabile persone e famiglie appartenenti a fasce di reddito diversi, e la seconda fornisce la soluzione pratica, cioè una collaborazione tra pubblico e privato per la costruzione di alloggi. Il pubblico ci mette agevolazioni e/o terreni e in cambio il privato si impegna a metterci anche qualche alloggio sociale, oltre quelli a canone convenzionato o moderato.
Ovviamente, per far rientrare tutto questo nel quadro normativo, occorreva una “evoluzione” del concetto di Erp. Non tanto tempo fa questo era sostanzialmente un sinonimo di edilizia sovvenzionata a canone sociale (cioè “casa popolare”), mentre oggi comprende un po’ di tutto (sociale, moderato, convenzionato), basta che il canone sia inferiore anche di un solo euro al prezzo di mercato.
Non c’è alcun dubbio che nelle aree metropolitane lombarde serva aumentare l’offerta di alloggi per quei redditi che sono troppo alti per accedere alla casa popolare, ma troppo bassi per trovare una risposta sul mercato e se l’housing sociale fosse semplicemente aggiuntivo all’edilizia sociale non ci sarebbe alcun problema, anzi. Ma il problema è che nei fatti è sostitutivo e questo equivale ad abbandonare al loro destino i ceti meno abbienti, proprio nel momento in cui la crisi sta producendo i suoi effetti sociali più devastanti.
8. Sussidi invece di servizi: buoni, voucher e doti
La privatizzazione assistita delle funzioni pubbliche va di pari passo con lo spostamento del baricentro dal finanziamento dell’offerta di servizi a quello della domanda di servizi. Cioè, la Regione tende sempre di più ad erogare, sotto forma di “buoni” e “voucher”, dei sussidi che vanno direttamente ai singoli cittadini o alle famiglie, producendo così anche un utile –per chi governa- effetto clientelare.
Così, ad esempio, i drastici tagli alla politica per la casa in occasione del Prerp 2007-2009 (vedi sopra) avevano riguardato esclusivamente il finanziamento dell’offerta, cioè gli investimenti per la manutenzione e per la costruzione di case popolari, mentre quello della domanda, cioè il Fondo sostegno affitti, non era stato nemmeno sfiorato.
Questo sistema non è ancora generalizzato, ovviamente, ma la VIII Legislatura ha prodotto sicuramente dei passi significativi in direzione della sua affermazione. Il segno più evidente è forse l’introduzione del termine “dote”, di per sé politicamente e culturalmente devastante, che ormai fa da titolo generale all’insieme di buoni e voucher erogati per la formazione, l’istruzione, il lavoro e la piccola impresa.
Ci sono poi anche i casi particolari e qui ne segnaliamo uno, perché rappresenta un autentico scandalo, che noi denunciamo da anni. Ci riferiamo al finanziamento della scuola privata mediante il cosiddetto “buono scuola”, ora ridenominato “dote per la libertà di scelta”.
In questo caso la forma del “buono” è anzitutto una furbata, poiché la Costituzione vieta il finanziamento diretto delle scuole private. Comunque sia, il “buono scuola” rappresenta la principale voce del bilancio regionale in materia di diritto allo studio (oltre 45 milioni di euro annui) ed è destinato in via esclusiva a quel 9% di studenti lombardi che frequentano la scuola privata. Cioè, ormai il 70% degli studenti delle private lombarde sono destinatari di un sussidio regionale. E come se non bastasse, i criteri per accedere a quel buono sono molto particolari e “flessibili”, visto che non occorre nemmeno esibire l’Isee. E così, puoi anche avere una casa di proprietà nelle vie più care di Milano oppure dichiarare al fisco un reddito da 200mila euro, ma il sussidio regionale te lo danno lo stesso.
9. Quando il governo del territorio lo fanno i palazzinari
L’idea di fondo che il pubblico (Stato, Regione, EE.LL.) non debba interferire troppo con il mercato, salvo nel caso in cui occorre privilegiare qualche interesse amico, si ripercuote anche sul piano delle politiche di governo del territorio.
Sul piano generale e normativo questo ha significato il passaggio dal concetto della pianificazione a quello della negoziazione. Cioè, dall’idea che l’istituzione pubblica debba pianificare l’uso del territorio –il quanto, il cosa e il come- si passa a quella della negoziazione sul territorio tra enti locali e interessi immobiliari. Questo passaggio, avvenuto un po’ dappertutto in Italia, era stato codificato in Lombardia con la legge regionale n. 12/2005, approvata alla fine della legislatura precedente e modificata continuamente in quella attuale, al ritmo di una modifica ogni 4-5 mesi. E questo non soltanto perché la legge 12 era stata approvata, per motivi elettorali, troppo in fretta e dunque con troppi problemi irrisolti, ma anche perché quella legge era diventata nel frattempo una sorta di legge omnibus, utile per sistemare vari affari particolari, compresi quelli che l’urbanistica non c’entrano un fico secco.
Ma non c’è soltanto la logica di fondo della legge 12 a segnare l’urbanistica realmente esistente in Lombardia. No, perché oltre alla legge sul governo del territorio ci sono anche e soprattutto le numerose deroghe ed eccezioni a quella stessa legge. Tanto per citarne soltanto l’ultima in ordine di tempo, ricordiamo il cosiddetto “piano casa”, approvato in Consiglio il 14 luglio scorso, che di fatto altro non è che una maxi-deroga alla norme urbanistiche, che va persino oltre all’accordo Governo-Regioni.
Insomma, per dirla con poche parole, il governo reale del territorio non lo fanno le istituzioni, ma gli interessi forti nel campo immobiliare. Cioè, i cittadini che abitano e lavorano i territori dispongono ormai di pochissimi mezzi per potersi far valere in ambito istituzionale e per poter partecipare alle decisioni che li riguardano.
E tutto questo, sia detto per inciso, è la medesima logica che presiede anche tutta la vicenda Expo.
10. Miliardi per le grandi opere autostradali e briciole per il trasporto pubblico locale
Il tema della mobilità è strettamente intrecciato con quello delle infrastrutture e dell’ambiente. E da questo punto di vista la situazione è ben nota: la pianura lombarda è uno dei territori più inquinati del pianeta, due terzi degli spostamenti quotidiani dei cittadini lombardi avvengono in automobile privata e il sistema del trasporto pubblico locale su ferro (Trenitalia e Le Nord) non è soltanto strutturalmente insufficiente, ma non riesce a garantire nemmeno un servizio decente.
Eppure, gli investimenti pubblici e privati più significativi, fatti o previsti, sono indirizzati in maniera assolutamente prevalente verso le grandi opere autostradali (Pedemontana, BreBeMI, Tem) e altre strade a scorrimento veloce, mentre per quanto riguarda le ferrovie gli investimenti sono pochissimi –ad esclusione dell’Alta velocità, ovviamente- e, soprattutto, manca del tutto ogni strategia tesa a modificare il modello di mobilità esistente.
L’unica grande opera di cui la Lombardia avrebbe bisogno è un piano straordinario di investimenti per l’ammodernamento e il rafforzamento strutturale del trasporto pubblico locale, ma purtroppo di questo non si vede nemmeno l’ombra e difficilmente l’annunciata costituzione di una nuova società che unificherà Trenitalia e Le Nord, sotto controllo regionale, cambierà questo stato di cose.
Il centrodestra regionale ha sempre rifiutato la definizione di un piano dei trasporti, cioè di una strategia nel medio-lungo periodo, come da noi proposto da anni. Anzi, non sembra coltivare alcun interesse per un’azione che tenda a modificare il modello di mobilità realmente esistente, ma preferisce adagiarsi sull’esistente.
Un rifiuto che ha segnato in Lombardia anche la politica sul trasporto aereo, dove l’assenza di una programmazione ha comportato la crescita selvaggia dell’infrastruttura aeroportuale (Malpensa, Linate, Orio, Montichiari), che ha mostrato tutta la sua irresponsabilità e miopia quando è esplosa la vicenda Malpensa.
11. Il contributo della Lega: subalternità agli interessi forti e razzismo istituzionale
Alla Lega piace accreditarsi come forza che difende gli interessi popolari e, guardando i risultati elettorali, le riesce anche abbastanza bene. Ma partendo dalla realtà della politica regionale, dalle cose fatte o non fatte, emerge un quadro ben diverso, che ci parla di una completa subalternità a Formigoni e al suo sistema di potere, compensata poi mediaticamente dal risalto dato alle iniziative di carattere xenofobe e demagogiche.
Non c’è forse esempio più limpido della defenestrazione nel 2007 dell’Assessore alla Sanità, Cè, per capire il reale rapporto tra Formigoni e la Lega, quando di mezzo ci sono il potere e i soldi. Dopo le elezioni regionali del 2005, la Lega era infatti riuscita ad ottenere uno degli assessorati più pesanti, quello alla Sanità, e per occuparlo aveva richiamato da Roma un suo esponente di punta, l’allora capogruppo della Lega alla Camera dei Deputati, Alessandro Cè. Quest’ultimo, appena insediato, aprì lo scontro con un altro assessore, Giancarlo Abelli. La ragione? Semplice, Cè contestò lo strapotere di Cl nella Sanità e Abelli era il signore delle nomine per conto di Formigoni. Ne scaturì uno conflitto istituzionale che paralizzò per mesi la terza Giunta Formigoni appena nata, con tanto di paginone de La Padania che denunciava gli affari di Cl nella Sanità. Poi intervennero Berlusconi e Bossi e alla fine tutto si calmò. Cioè, la Lega smise di protestare e Cl fece le sue nomine.
Ma Alessandro Cè evidentemente aveva preso troppo sul serio la cosa e all’inizio del 2007 riaprì lo scontro, dichiarandosi contrario al progetto di Formigoni di aprire ai privati la gestione del 118. Risultato: in un batter d’occhio Cè fu cacciato dalla Giunta regionale e poi pure espulso dalla Lega. Al suo posto, giusto per salvare la faccia, fu nominato un uomo di paglia, cioè il medico di Bossi, Luciano Bresciani, mentre Cè, da allora, siede solitario tra i ranghi dell’opposizione. Chapeau di fronte alla coerenza di Cè, ma la morale della storia è un’altra.
Il caso Cè è sicuramente quello più eclatante, ma certamente non l’unico. Basti soltanto ricordare la politica urbanistica, visto che l’Assessorato al Territorio è occupato dal capodelegazione della Lega in Giunta regionale, Boni. Ebbene, i peggiori provvedimenti cementificatori, sponsorizzati dal partito dei palazzinari, non sono stati mai contrastati seriamente e, anzi, sono stati sempre sottoscritti e difesi dall’assessore della Lega: dagli emendamenti ad hoc in favore all’affare immobiliare di Paolo Berlusconi a Monza (2006-2007) alla versione peggiorativa del “piano casa” del luglio scorso, passando per la norma “ammazzaparchi” del 2008 (poi ritirata di fronte alla crescente protesta).
Oppure, potremmo ricordare il voto della Lega a fianco del Pdl alla fine del 2008, che affossò il nostro ordine del giorno, sostenuto da tutta l’opposizione, che chiese semplicemente che venisse ristabilita la parità di trattamento tra gli studenti delle scuole private e di quelle pubbliche in materia di sussidi.
Per quanto riguarda il lavoro, infine, francamente non ci risulta alcuna differenziazione rispetto alla posizione di Formigoni e del Pdl. Anzi, la discussione e il voto sul nostro progetto di legge contro lo sfruttamento del lavoro nero, firmato peraltro da tutta l’opposizione, è insabbiato in Commissione Lavoro da due anni. E il presidente di quella commissione è della Lega.
Ma la musica leghista cambia decisamente quando si parla di immigrazione o rom oppure di moschee. Allora tutto è diverso e la comprensione e la tolleranza di cui possono godere palazzinari e affaristi svanisce e si torna al più puro del celodurismo. La conseguenza è stata una serie di norme discriminatorie e xenofobe, che a volte hanno creato danno soltanto a livello culturale, altre volte invece hanno concretamente rovinato l’esistenza a centinaia di persone e famiglie. Ne citiamo soltanto alcune, giusto per non dimenticare:
- Moschee. Uno dei bersagli preferiti dalla Lega. Il gioco è conosciuto: prima si fa la campagna contro la moschea abusiva, ma poi si dice “no” all’apertura di una moschea regolare. La l.r. n. 12/2005, quella sul governo del territorio, è stata utilizzata più volta a questo fine. Ci limitiamo a un esempio, che ci spiega fino a che punto si possa arrivare nell’abuso istituzionale. Nel 2006, su proposta della Lega, venne introdotto un nuovo comma nella legge urbanistica. Cioè, laddove la legge affermava che in caso di mutamento di destinazione d’uso di un immobile che non comportasse opere edilizie non c’era bisogno di chiedere il “permesso di costruire” (ovvio!), si aggiunse un’eccezione: nel caso che il mutamento sia finalizzato alla creazione di luogo di culto, anche in assenza di opere edilizie, bisognava invece chiedere il “permesso di costruire”.
- Rom. Esiste una legge regionale, la n. 77 del 1989, che prevede interventi a favore dell’integrazione delle popolazioni rom e risorse regionali da destinare ai Comuni a tal fine. Di fatto la legge è inapplicata, visto il boicottaggio esplicito della maggioranza di centrodestra, rivendicato in maniera particolare dalla Lega, che impedisce da lunghi anni il rifinanziamento della legge e dunque la disponibilità di fondi per gli enti locali. Ma non contenta, la Lega ha chiesto e ottenuto anche una modifica di quella legge, abrogando esattamente l’articolo che prevedeva l’obbligo per gli enti locali di lavorare per “evitare qualsiasi forma di emarginazione urbanistica e da facilitare l’accesso ai servizi e la partecipazione dei nomadi alla vita sociale”. Insomma, tanto peggio, tanto meglio.
- Immigrazione. Qui gli obiettivi sono fondamentalmente i luoghi e le attività gestiti e/o frequentati soprattutto da cittadini immigrati, mediante l’introduzione di norme speciali e discriminatorie. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello della norma contro le kebaberie, che peraltro colpisce come effetto collaterale anche gelaterie e rosticcerie. Ma quello più disgustoso è quello dei phone center. La legge regionale n. 6 del 2006, a suo tempo approvato con il voto favorevole anche dell’Ulivo, è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale il 24 ottobre 2008, ma nel periodo della sua vigenza ha ottenuto l’effetto auspicato (dalla Lega e da De Corato): centinaia di legittime attività commerciali sono state chiuse e i relativi gestori economicamente rovinati. E nessuno risarcirà quelle persone.
12. L’opposizione: tra subalternità e divisioni
L’odierno “sconfittismo” dilagante, per cui si dà per scontato che le elezioni regionali le vincono le Destre e quindi si preferisce parlare delle Comunali del 2011, è figlio legittimo di questi anni, segnati, da parte dell’Ulivo-Pd, più dal dialogo che dall’opposizione e, da parte delle sinistre, dalle troppe divisioni.
In Regione Lombardia nel 2006 si verificò un paradosso di cui pochi si accorsero. Mentre a Roma era appena nato il Governo dell’Unione, in Lombardia l’’esperienza dell’Unione fu dichiarata morta e defunta dall’allora Ulivo. Iniziò così l’era del dialogo con Formigoni, dei voti di astensione (o addirittura favorevoli) sulle proposte della Giunta regionale e dell’interruzione di ogni consultazione regolare con le sinistre.
Fu l’anticipo nordista della futura autosufficienza veltroniana, ma anche un’illusione tutta lombarda. Cioè, la convinzione che un rapporto privilegiato con Formigoni potesse far esplodere le contraddizioni con la Lega e così far saltare la coalizione di centrodestra. E a questo obiettivo fu sacrificata anche buona parte della critica contro il “modello Lombardia”, assunto come comune quadro di discussione.
È stata un’illusione tragica e fallimentare e oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Le sinistre, da parte loro, hanno fatto certamente opposizione, spesso anche alla scellerata politica del Pd. Ma di fronte allo scenario complicato in Regione e al disastro lasciato dall’esperienza del Governo Prodi non sono riuscite a produrre un salto di qualità. Non che fosse semplice, ma lo spettacolo delle divisioni e dei cambiamenti di nome e/o collocazione è stato davvero poco edificante e sicuramente del tutto incomprensibile per l’elettorato.
Nel 2005 c’erano tre gruppi consiliari della sinistra: Prc (3 consiglieri), Verdi (2 cons.) e PdCI (1 cons.). Oggi, anche in seguito alla scissione che ha subito il nostro gruppo, il panorama è il seguente: Prc (1 cons.), “Verdi e Democratici” (2 cons., mantengono gruppo autonomo, ma sono già confluiti nel Pd), Sinistra UnAltraLombardia (2 cons., di area Sinistra e Libertà), Sd (2 cons., di cui uno in fase di rientro nel Pd) e Comunisti Italiani-M.A.I. (1 cons., ma ha cambiato nome al gruppo e si è autonomizzato dal PdCI).
13. L’urgenza di un’alternativa al blocco Formigoni-Lega
L’esaurimento della spinta propulsiva del modello Formigoni e i segnali di instabilità del suo governo, di cui sono segni tangibili i ripetuti e falliti tentativi di Formigoni di uscire dalla gabbia dorata del Pirellone e di assumere un ruolo politico ed istituzionale nazionale, non devono farci cadere nell’illusione che la fine dell’era del governo regionale di centrodestra sia di per sé vicina.
Non è così, perché la forza sociale, politica e culturale del blocco di potere formigoniano è intatta e l’opposizione è debole e senza progetto alternativo credibile, mentre la Lega, in ascesa elettorale, è in condizione di capitalizzare parte delle difficoltà di Formigoni.
Rischiamo così di marciare verso un ventennio formigoniano, prospettiva di per sé da combattere, caratterizzato da uno spostamento a destra del baricentro politico e da un mix pericoloso, composto dai tratti degenerativi della prolungata occupazione del potere, da uno stanco e nefasto continuismo sul piano sociale ed economico e da un’iniezione più forte di demagogia xenofoba e securitaria di stampo leghista.
Uno prospettiva insostenibile non semplicemente per noi, sinistra politica, ma anche per quella larga parte di lombardi e lombarde che vivono del proprio lavoro e che già oggi pagano il prezzo della crisi e dell’immobilismo delle istituzioni.
Ecco perché vi è l’urgente necessità, pena la nostra inutilità, di farci carico di una proposta politica alternativa, di una exit strategy dal regime Formigoni-Lega, rivolta a tutta la sinistra e tutta l’opposizione e soprattutto ai lavoratori e ai soggetti sociali.
Milano, 25 ottobre 2009
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