Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di maggio 2007
Il programma elettorale dell’Unione ci aveva consegnato un linguaggio ambiguo rispetto a molte questioni politiche decisive. E così, il terrificante termine “superamento” ha fatto il suo ingresso nell’arena politica. Il fatto che in materia di immigrazione si parlasse invece esplicitamente di “abrogazione” della Bossi-Fini aveva suscitato non poche aspettative nel mondo dell’associazionismo migrante e antirazzista. Eppure, ad un anno di distanza dalle elezioni politiche, l’impianto normativo definito dal governo Berlusconi, compresa la scandalosa e truffaldina convenzione con le poste, è sostanzialmente immutato e dunque tuttora vigente.
Anzi, la dilatazione dei tempi sembra essere diventato uno dei leitmotiv. La nuova legge sulla cittadinanza è impantanata nelle aule parlamentari, della legge organica sul diritto d’asilo –di cui l’Italia è semplicemente sprovvista- non si vede traccia e il provvedimento principe, cioè quello che dovrebbe porre fine alla razzista Bossi-Fini e che è conosciuto sotto il nome ddl Amato-Ferrero, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri soltanto il 24 aprile scorso, dopo numerosi rinvii e aggiustamenti.
Tuttavia, la legge non cambierà nell’immediato. Infatti, stiamo parlando di un disegno di legge delega, che dopo il varo in CdM dovrà essere approvato dal Parlamento e, successivamente, il Governo avrà dodici mesi di tempo per adottare “un decreto legislativo per la modifica del testo unico …, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni”.
In altre parole, il ddl Amato-Ferrero fissa i “principi e criteri direttivi” a cui dovrà ispirarsi il futuro decreto legislativo. Cioè, il percorso sarà prevedibilmente accidentato, i tempi non saranno brevissimi e il risultato finale, cioè l’articolato, è ancora da scrivere. Ma vediamo da vicino il merito del disegno di legge delega.
Anzitutto, ci pare necessario chiarire meglio l’oggetto del provvedimento di modifica. La cosiddetta legge Bossi-Fini non aveva, infatti, abolito la disciplina preesistente, cioè il d.lgs n. 286 del 1998, noto come Turco-Napolitano, ma si presentava sul piano formale come una sua modifica. Una modifica massiccia e di sostanza, che aveva esasperato ed estremizzato il carattere repressivo e proibizionista delle politiche migratorie, ma che non rappresentava un capovolgimento netto. Infatti, la prevalenza dell’approccio repressivo e la considerazione del migrante prima di tutto come forza lavoro a buon mercato erano anche i principi ispiratori della Turco-Napolitano, nonché delle odierne e sempre più integrate politiche europee in materia.
La conseguenza più vistosa di questo orientamento sta anzitutto nell’allocazione insensata delle risorse pubbliche, come dimostrarono i dati pubblicati dalla Corte dei Conti nel 2005. Infatti, il 72,5% delle risorse complessive spese per le politiche migratorie sono destinate a misure repressive, comprese le spese per i Cpt, mentre soltanto il restante quarto va a favore di politiche di accoglienza. Un approccio che tende dunque a spostare tutta la tematica dell’immigrazione sul terreno dell’ordine pubblico.
Inoltre, l’irrazionalità dell’allocazione delle risorse fa il paio con quella della normativa sugli ingressi, tesa più a soddisfare la necessità di un certo discorso politico, che non a “governare” il fenomeno migratorio, con la conseguenza dell’istituzionalizzazione di fatto di una significativa area di clandestinità.
Tuttavia, a guardare bene, nell’irrazionalità vi è una ratio. Il migrante indicato come problema di ordine pubblico, sempre sull’orlo della clandestinità e portatore di un pacchetto di diritti differenziato, cioè inferiore a quello del cittadino italiano o comunitario, è infatti lo stesso che va a ingrossare le fila dei lavoratori malpagati o sfruttati in nero. Così, il corpus legislativo speciale per gli stranieri non comunitari –con tanti saluti al principio la legge è uguale per tutti- vige non soltanto sul piano dei diritti civili, ma anche su quello dei diritti sociali. Il “capolavoro” della Bossi-Fini, cioè il ricatto del contratto di soggiorno, sta lì a dimostrarlo.
E allora, la domanda che dobbiamo porci è se la proposta Amato-Ferrero modifica tale approccio e in che misura.
La prima -e più dettagliata- parte del ddl è dedicata alla questione degli ingressi. Viene previsto un meccanismo di programmazione su base triennale, da integrare con una procedura di adeguamento annuale delle quote stabilite. Inoltre, alcune categorie di lavoratori potranno essere autorizzate all’ingresso al di fuori delle quote, in particolare il “lavoro domestico e di assistenza alla persona”.
Per quanto riguarda le modalità di ingresso si prevedono anzitutto delle “liste organizzate in base alle singole nazionalità” a cui uno straniero che intenda lavorare in Italia può iscriversi. Responsabili della gestione delle liste sono una pluralità di soggetti, come gli enti e gli organismi nazionali e internazionali con sedi nei paesi d’origine e convenzionate allo scopo, nonché le autorità dei paesi d’origine. Tali liste verranno istituite “prioritariamente” in Stati che abbiano dimostrato un “atteggiamento collaborativo” in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina. Fino all’istituzione di tali liste, verrà attivata una Banca dati interministeriale.
A tali liste potranno poi attingere, con chiamata nominativa o numerica, le regioni, gli enti locali e le associazioni imprenditoriali, professionali e sindacali, nonché istituti di patronato, con la costituzione di “forme di garanzia patrimoniale a carico dell’ente o associazione richiedente”. Viene altresì prevista una forma di ingresso per ricerca lavoro, a condizione che il cittadino straniero sia iscritto nelle liste e che possa fornire le sufficienti garanzie patrimoniali –proprie o di altri- per il suo sostentamento. Più in generale, si prevede una semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti.
Per quanto riguarda gli ingressi, possiamo dunque affermare che rimane ferma la logica dei flussi, rendendola tuttavia molto più flessibile, e che la selezione continua ad essere determinata dalle necessità dell’economia italiana, salvo la possibilità –condizionata- della ricerca lavoro.
Per quanto riguarda i permessi di soggiorno, va prima di tutto sottolineato che non si esplicita un passaggio netto delle procedure per il rinnovo agli enti locali, come chiesto da tempo dall’associazionismo, ma si parla di più generiche “forme di collaborazione”. In secondo luogo, in relazione alla tipologia e alla durata dei permessi, vanno evidenziati i seguenti punti: eliminazione del “contratto di soggiorno”; allungamento dei termini di validità iniziale e raddoppio della durata in sede di rinnovo; permesso di un anno per rapporti di lavoro a tempo determinato inferiori a sei mesi, di due anni in caso di rapporti di durata superiore a sei mesi e di tre anni in caso di rapporti a tempo indeterminato o di lavoro autonomo; misure tese alla continuità della condizione di regolarità nelle more del rinnovo; estensione dei termini di validità a un anno per attesa occupazione, in caso di perdita del lavoro; possibilità del permesso per motivi umanitari anche a favore dello straniero che “dimostri spirito di appartenenza alla comunità civile”.
Insomma, non siamo certo di fronte al tanto invocato –da parte dei movimenti- sganciamento del permesso di soggiorno dal rapporto di lavoro, ma piuttosto ad una sua maggiore autonomizzazione. In caso di applicazione effettiva di tali misure, è prevedibile una riduzione della precarietà del migrante e del fenomeno della clandestinità di ritorno.
Prima di arrivare alla questione delle espulsioni, occorre però segnalare alcuni altri punti. Anzitutto, il fatto che viene esplicitamente previsto il diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative per gli stranieri “titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. In secondo luogo, una serie di misure a tutela degli stranieri minori, tra cui la previsione di meccanismi volti a garantire un permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, seppure non in maniera generalizzata. In terzo luogo, l’equiparazione degli stranieri soggiornanti regolarmente da almeno due anni ai cittadini italiani in relazione all’accesso all’assistenza sociale. In quarto luogo, l’agevolazione e maggior regolamentazione dell’invio delle rimesse. Infine, il “potenziamento”, anche mediante la definizione della figura del mediatore culturale, della misure dirette all’inclusione. Va inoltre segnalato, negativamente, che il CdM ha eliminato in extremis la possibilità di accesso al pubblico impiego per cittadini non comunitari.
Ma eccoci al punto che ha sempre costituito una sorta di cartina di tornasole delle politiche migratorie, cioè la disciplina delle espulsioni e la questione dei Centri di Permanenza Temporanea (Cpt). Va anzitutto ricordato che il carattere securitario e ideologico della legislazione vigente comporta inevitabilmente la presenza di un’ampia e fisiologica area di clandestinità. E nonostante la mobilitazione di ingenti risorse pubbliche per le misure repressive –a dimostrazione della natura strumentale e demagogica del discorso securitario-, il sistema delle espulsioni mostra un efficacia assai ridotta. Nel 2005, soltanto il 45% dei 120mila destinatari di provvedimenti di espulsione sono stati effettivamente rimpatriati e di questi soltanto una minoranza è transitata attraverso i Cpt. Va inoltre segnalato che i Cpt italiani hanno trattenuto, sempre nel 2005, 16.163 persone, di cui due terzi sono stati effettivamente espulsi.
Il ddl Amato-Ferrero prevede una serie di modifiche: il rimpatrio volontario dell’espulso, incentivato da appositi mezzi finanziari e con la riduzione dei tempi di divieto di reingresso; la “graduazione” delle sanzioni penali e la “riconduzione” delle stesse ai principi generali della giustizia penale; la revisione delle “modalità” di allontanamento (per esempio, la sospensione dell’esecuzione per “gravi motivi”); una serie di garanzie per lo straniero vittima di violenza e grave sfruttamento; l’attribuzione delle competenze alla magistratura ordinaria.
Per quanto riguarda i Cpt, non si prevede la loro chiusura, ma di “superare l’attuale sistema”. Cioè, il potenziamento delle funzioni “di accoglienza e soccorso”, la revisione dei criteri strutturali e gestionali, la riduzione dei tempi di trattenimento, la possibilità di uscire dalla struttura in alcuni orari, la maggior collaborazione nei Cpt con associazioni, l’individuazione di procedure di identificazione durante la permanenza in carcere (molti trattenuti nei Cpt provengono infatti dagli istituti di pena), la previsione di specifiche “strutture per le espulsioni” e, infine, una maggior accessibilità dei Cpt da parte di soggetti istituzionali, di rappresentanti di alcune associazioni e della stampa. Nulla si dice, invece, della politica di delocalizzazione dei Cpt in Africa, perseguita dall’insieme dell’UE.
Contestualmente al varo del ddl, sono stati poi emananti due direttive: la prima di chiusura dei Cpt di Brindisi, Crotone e Ragusa e, la seconda, di invito ai Prefetti di definire nuovi criteri per l’accesso e la trasparenza dei Cpt.
Insomma, le modalità di rimpatrio diventerebbero un po’ più flessibili e garantiste, si introduce il “rimpatrio volontario”, si toglie finalmente la materia ai giudici di pace e si afferma la volontà di attenuare il carattere speciale del sistema sanzionatorio per i migranti. In relazione ai Cpt va registrato che le misure indicate sembrano collocarsi al di sotto di quanto raccomandato dalla Commissione ministeriale De Mistura, la quale, seppure evitando come la peste la parola “chiusura”, aveva tuttavia suggerito una strategia di “graduale svuotamento”.
Per concludere, possiamo affermare, anzitutto, che gli indirizzi contenuti nel ddl Amato-Ferrero non equivalgono all’abrogazione secca della Bossi-Fini, bensì a una sua modifica in direzione di una maggior flessibilizzazione e razionalizzazione della normativa, nonché di un’attenuazione del carattere discriminatorio della legislazione in materia. In secondo luogo, va ricordato che il ddl non è una proposta di legge, ma un insieme di principi e criteri direttivi.
Siamo quindi di fronte ad una proposta che non rappresenta il capovolgimento richiesto dai movimenti, ma che indubbiamente migliorerebbe le condizioni di vita dei migranti presenti nel nostro paese. Tuttavia, sarebbe un grande errore limitarsi a queste constatazioni, poiché la partita è appena cominciata.
Il ddl che abbiamo sommariamente esaminato rappresenta il risultato di una negoziazione, avvenuta nel vuoto di movimenti, tra le posizioni della cosiddetta sinistra radicale e quelle dei soci fondatori del partito democratico. E non occorre certo essere dei geni per capire che lo scontro frontale che aprirà il centrodestra tenderà a spingere i termini del compromesso a destra, visti anche i tanti balbettii e subalternità delle forze dell’Ulivo.
Il clima che si respira in queste settimane a Milano, con le ronde anti-rom, le campagne contro le moschee, l’applicazione della razzista legge regionale contro i phone center e i proclami anticinesi, dovrebbe far riflettere. Il discorso pubblico sull’immigrazione è inquinato e egemonizzato dalle destre e risulta evidente che se dal basso e da sinistra non si riuscirà ad avviare l’iniziativa sociale e politica, l’esito della battaglia sarà scontato. Ecco perché non basta essere severi nei giudizi, ma occorre buttarsi nella mischia e ricostruire il terreno del conflitto.