Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su “SinistraCritica” di maggio 2007
Quando il 12 aprile scorso iniziava a diffondersi la notizia sulla rivolta cinese in via Paolo Sarpi, in città lo stupore fu piuttosto generale. Non tanto perché era la prima volta che a Milano dei cittadini stranieri si ribellavano in maniera collettiva, ma perché a farlo era proprio una comunità, quella cinese, tradizionalmente poco incline alla protesta pubblica.
Molto si è detto e scritto sulla vicenda, ma il più delle volte delle interessate sciocchezze, a partire dalla minestra riscaldata del non vogliono integrarsi e del non vogliono rispettare le nostre regole. E allora ci pare necessario riepilogare prima di tutto gli antefatti, poiché in realtà ha poca importanza come sono andate le cose in mattinata tra la signora cinese e la pattuglia della polizia locale che hanno dato fuoco alle polveri (anche se la misteriosa sparizione delle registrazioni delle telecamere comunali dovrebbe far sorgere qualche sospetto).
Il quartiere in questione ospita un insediamento cinese risalente a un secolo fa, ma è da un decennio circa che vive una forte espansione del commercio all’ingrosso gestito da cittadini cinesi. Così, oggi, in poche vie si concentrano centinaia di esercizi, mentre la popolazione residente continua ad essere prevalentemente italiana. Trattandosi di una zona storica, va da sé che le movimentazioni delle merci avvengano sul marciapiede e al di fuori dei regolamenti comunali. Ma -e qui casca l’asino- tutto questo non ha mai rappresentato un problema, considerato che l’amministrazione cittadina, gestita da quindici anni dal centrodestra, ha sempre rilasciato le licenze e i vigili non hanno mai distribuito multe. Insomma, i commercianti cinesi hanno agito in piena legalità. Anzi, i rapporti tra gli assessori comunali e i commercianti cinesi sono stati sempre buoni e vi sono stati persino cospicui finanziamenti comunali ad un’associazione italo-cinese, l’Alkeos, strettamente legata ad alcuni settori di Alleanza nazionale.
E così arriviamo a qualche mese fa, quando all’improvviso è cambiato tutto. Ovvero, il Comune ha deciso di riscoprire antichi regolamenti comunali e di applicarli inflessibilmente mediante quotidiane e massicce multe contro i carrelli sui marciapiedi, facendo diventare illegale ciò che era perfettamente legale fino al giorno prima. Obiettivo dichiarato della guerra dei carrelli era costringere i commercianti cinesi a “delocalizzare” le loro attività.
Ovvio che nel quartiere stesse crescendo la tensione e, soprattutto, che si diffondesse la percezione di essere presi di mira in quanto cinesi. Infatti, quel 12 aprile a scendere in strada e a scontarsi con le forze dell’ordine non erano i vecchi commercianti, bensì centinaia di giovani di origine cinese, in larga parte cresciuti a Milano e con piena padronanza della lingua italiana.
La storia della rivolta di via Sarpi, come ogni storia, va raccontata tenendo conto delle sue specificità. Eppure, non può sfuggire a nessuno che a Milano stiamo assistendo ad una preoccupante moltiplicazione di momenti di conflitto tra istituzioni e settori di popolazioni immigrate. A dimostrarlo ci sono le ronde anti-rom e le campagne anti-moschee, per non parlare della razzista legge regionale contro i phone-center. Tutte storie diverse, certo, ma che nel loro insieme disegnano un unico quadro generale, fatto da istituzioni che si rapportano con i migranti unicamente attraverso gli strumenti dell’ordine pubblico e da forze di governo locale -in primis Lega e An- che della xenofobia militante fanno una bandiera.
La Lombardia e il suo capoluogo vivono oggi un paradosso esplosivo. È la regione che concentra da sola un quarto dell’immigrazione nazionale, ma anche quella che si ostina esplicitamente a non dotarsi di una politica tesa all’inclusione e alla convivenza. In questo senso, la rivolta di via Sarpi rappresenta un campanello d’allarme, che andrebbe colto anzitutto a sinistra, per non lasciare definitivamente il terreno alla demagogia xenofoba e securitaria delle destre.