Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 19 giugno 2010 e sui giornali online MilanoX e Paneacqua (ex Aprileonline)
Ma che cavolo ha l’articolo 41 della Costituzione che non va? Insomma, è rimasto lì per 60 anni, non lo toccavano nemmeno ai tempi di Scelba, quando la polizia sparava sugli operai in sciopero, e ora, all’improvviso, è diventato un insopportabile ostacolo alla libertà d’impresa, un freno alla libera concorrenza e un rimasuglio di quel socialismo reale che in Italia non c’è mai stato (a differenza di Scelba, delle stragi di Stato e del regime democristiano, beninteso).
L’articolo 41 va riscritto. L’hanno detto Berlusconi e Tremonti e l’ha confermato un “tecnico” d’eccellenza, come il presidente dell’antitrust. I capi di Confindustria, da papà e mamma fino ai figli, si sono messi a sbraitare come ossessi: ci vuole la “deforestazione normativa”.
E allora, siccome la memoria potrebbe anche ingannarmi, sono andato a rileggermi l’articolo dello scandalo. Chissà, magari mi era sfuggito qualcosa in tutti questi anni.
Inizio a leggere. Il primo capoverso recita così: “L'iniziativa economica privata è libera.” Non mi pare roba da Carlo Marx, anzi, potrebbe averlo scritto Adam Smith in persona.
Passo quindi al secondo capoverso: “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.” E questo mi pare persino ovvio. Mica può essere considerato lecito ridurre un cittadino in schiavitù o mutilarlo pur di ricavarne un guadagno. Insomma, ci vuole pure un confine tra l’imprenditoria e il crimine organizzato.
E poi, a pensarci bene, cose del genere si sentono dire e ridire anche da banchieri, imprenditori e manager, almeno nei convegni e nei seminari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, o Corporate Social Responsibility, se preferite.
Mi leggo allora il terzo e ultimo capoverso: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Nulla di strano neanche qui, mi pare. In fondo dice soltanto che le cose affermate al punto secondo non sono semplici auspici, bensì prescrizioni obbligatorie da tradurre in pratica con apposite leggi. Certo, questo rappresenta sicuramente una differenza con la storia della responsabilità sociale dell’impresa, che è un atto soggettivo e volontario, ma dall’altra parte è anche vero che lo stato di diritto è cosa diversa da un convegno di Bill Gates.
A questo punto, però, continuo a non capire dove stanno tutti questi impedimenti alla libertà d’impresa che frenano la ripresa economica. E così, per cercare di capire meglio, mi armo delle sagge parole del mio prof di Istituzioni di Diritto Pubblico di tanti anni fa -“quando c’è contrasto tra realtà materiale e realtà normativa, allora la prima tende a prevalere sulla seconda”- e volgo lo sguardo verso Sud, a Pomigliano d’Arco per la precisione.
Lì c’è uno stabilimento Fiat, ex-Alfa, con oltre 5.000 dipendenti, ai quali andrebbero aggiunti quelli generati dall’indotto. A dire la verità, in quella fabbrica c’è stato ultimamente un tasso di assenteismo un po’ altino, visto che i lavoratori hanno passato più tempo in cassa integrazione che al lavoro.
Comunque sia, gli operai di Pomigliano sono fortunati, perché la Fiat gli offre l’opportunità di non fare la fine dei loro colleghi siciliani dello stabilimento di Termini Imerese, destinato alla chiusura per fine 2011. No, per loro c’è sul tavolo l’offerta di 700 milioni di euro di investimenti e la produzione della nuova Panda a partire dal 2012.
Come si fa a non esultare, a non ringraziare la Fiat per la sua generosità? Invece di spostare anche la produzione della nuova Panda all’estero, dove ormai viene prodotta la grande maggioranza delle automobili Fiat, alla faccia del tanto decantato Made in Italy e, soprattutto, del mare di miliardi girati dalle tasche del contribuente italiano a quelle della multinazionale, il signor Marchionne ha deciso di fare un patriottico sacrificio.
Tuttavia, c’è una condizione. I sacrifici devono farli anche gli operai. Insomma, c’è la crisi e la competizione internazionale e quindi bisogna rinunciare a qualche piccolo privilegio italiano, per avvicinarsi maggiormente alle situazioni di avanguardia in termini di condizioni di lavoro, tipo la Polonia. Quindi, riduzione delle pause da 40 a 30 minuti giornalieri, aumento degli straordinari comandati da 40 a 120 ore a testa per anno, da fare anche durante la pausa mensa – peraltro spostata a fine turno-, deroga all’obbligo di riposo di almeno 11 ore tra un turno e l’altro, possibilità per l’azienda di non pagare la malattia al singolo lavoratore se l’assenteismo medio in fabbrica supera una certa soglia eccetera eccetera.
Ovviamente, questo accordo deve essere roba seria e, quindi, entrerà a far parte del contratto di lavoro individuale di ogni lavoratore. In altre parole, se a un operaio dovesse saltare in mente di partecipare a uno sciopero degli straordinari, per esempio, questo rappresenterebbe una violazione del contratto di lavoro, punibile con le sanzioni disciplinari, fino al licenziamento.
Gli estremisti-ideologici-irresponsabili-conservatori della Fiom hanno presentato delle proposte alternative, in grado di garantire l’obiettivo produttivo della Fiat di 280mila vetture all’anno, ma senza violare le regole del contratto nazionale, le leggi e il diritto di sciopero, peraltro costituzionalmente tutelato e pertanto indisponibile.
Ma Marchionne ha detto niet e ha ribadito: mangiare la minestra o saltare la finestra, accettare il diktat o finire disoccupati, portare la Polonia a Pomigliano oppure portare il lavoro in Polonia.
I sindacalisti responsabili di Fim, Uilm e Fismic hanno responsabilmente detto di sì, ma questo a Marchionne non basta. Ci vuole anche il plauso degli operai e quindi va fatto il referendum, cioè quella cosa che venne negata ai lavoratori ai tempi del contratto separato dei metalmeccanici. Comunque, la Fiat ci tiene alla democrazia e quindi i suoi rappresentanti hanno già iniziato a contattare i singoli dipendenti, per informarsi se hanno intenzione di andare democraticamente al voto, per esprimere liberamente il loro sì alla generosità della Fiat.
Insomma, Marchionne non chiede un accordo sindacale che garantisca gli obiettivi produttivi, ma chiede molto di più. Chiede agli operai di nobilitare un volgare ricatto, di chinare la testa, di arrendersi. Non lo fa per cattiveria o ottusità, beninteso, perché Marchionne non è né un pazzo, né un estremista, ma lo fa perché la vicenda di Pomigliano è una vicenda che va oltre Pomigliano.
Dall’altra parte, che la produzione della Panda venga avviata effettivamente nel 2012 e nella dimensione annunciata è ancora tutto da vedere. A differenza degli impegni chiesti ai lavoratori, infatti, quelli assunti dalla Fiat sono corredati da diversi se e ma.
No, il punto è un altro. Pomigliano deve fare scuola, deve sfondare gli argini. Dopo Pomigliano arriveranno gli altri stabilimenti Fiat e non Fiat. E deroga dopo deroga toccherà all’istituto del contratto nazionale e alla legislazione, Statuto dei Lavoratori compreso.
Vi ricordate della Thatcher e della sua guerra contro i minatori? Ebbene, è la stessa cosa. Non si aggredisce più l’anello debole della catena, ma si tenta lo sfondamento centrale. Insomma, si cerca di spezzare le reni ai metalmeccanici e alle loro organizzazioni ancora indipendenti, per avere campo libero dappertutto.
Si combatte a Pomigliano, ma la posta in gioca è nazionale e generale. Ecco perché in partita entra anche l’articolo 41 della Costituzione. Non perché impedisca la semplificazione burocratica o la velocizzazione delle pratiche per aprire una nuova impresa –ma quando mai!-, ma perché è necessario riscrivere il codice genetico della nazione, stabilendo anche simbolicamente che la libertà d’impresa, cioè la libertà dell’imprenditore, è un valore assoluto, mentre la libertà del lavoratore e della lavoratrice è soltanto una sua variabile dipendente.
E, last but not least, ecco perché oggi è giusto e necessario stare apertamente dalla parte di quelli come la Fiom. Perché i silenzi, le ambiguità e i balbettii equivalgono alla complicità.