Oggi sono nove anni esatti dal giorno in cui un proiettile esploso dalle forze dell’ordine rubò la vita a Carlo Giuliani.
Il luogo era Genova, piazza Alimonda per la precisione, e il contesto le manifestazioni contro il G8 del 2001.
Il 20 luglio era il giorno in cui la sospensione dello stato diritto e la feroce repressione del dissenso, preparata da tempo dal Governo e dai vertici delle forze dell’ordine, prese corpo, si fece materia, si trasformò in violenza e sangue.
Quella mattina a Genova scesi in piazza con animo inquieto, perché sapevamo del clima che si stava costruendo nelle caserme e nelle questure e perché le settimane precedenti erano state segnate da un crescendo di provocazioni e minacce.
Avevamo persino chiesto, in occasione dell’incontro tenutosi alla fine di giugno a Roma, presso la Farnesina, tra la delegazione del Genoa Social Forum (Gsf) e quella del Governo, che le forze dell’ordine in servizio di piazza durante il G8 fossero disarmate. Infatti, c’era stato il precedente delle contestazioni di Goteborg, dove la polizia della civile Svezia sparò sui manifestanti.
E mi ricordo, come se fosse ieri, le parole pronunciate da Gianni De Gennaro, allora Capo della Polizia, che con un sorriso tra il rassicurante e il beffardo ci ripose che non ce n’era bisogno, perché “finché ci sono io, mai e poi mai la polizia italiana userà le armi da fuoco in una manifestazione”.
Ovviamente, non ci eravamo fidati delle sue parole, ma dall’altra parte la manifestazione del 19 luglio, dedicata alla solidarietà con i migranti, era andata bene. C’era tanta gente e nessun intervento repressivo o incidente. E anche le manifestazioni del 20 luglio, con le sue “piazze tematiche” e il suo assedio della zona rossa, in fondo erano state autorizzate dalla Questura. Ebbene sì, perché bisogna sempre ricordarlo, tutte quelle iniziative erano state comunicate con largo anticipo alla Questura di Genova e quest’ultima non aveva preso alcun provvedimento ostativo!
Ma, appunto, quel 20 luglio tutto cambiò.
Io stavo con il mio sindacato, il SinCobas e la Confederazione Cobas, impegnati allora in un complesso –e poi infruttuoso- tentativo di unificazione, e con la rete Network per i diritti globali, che comprendeva anche il grosso dei centri sociali, esclusi i Disobbedienti.
Insomma, per farla breve, la nostra “piazza tematica”, cioè il nostro punto di assedio alla zona rossa, era in piazza Paolo da Novi. Ma non saremmo mai riusciti a fare quello che era in programma.
Era mattina, stavo raggiungendo il punto di concentramento, ma la piazza di fatto era già occupata da un nutrito gruppo di black block e accerchiata da ingenti forze di polizia e carabinieri.
Quello che successe dopo aveva dell’allucinante. I black erano lì da tempo e in santa pace avevano preparato le loro molotov, nel disinteresse totale delle forze dell’ordine, ma non appena i manifestanti del Network presenti in piazza raggiunsero un certo numero, iniziò l’aggressione da parte di polizia e carabinieri in assetto antisommossa.
Non c’era nulla da fare, non potevamo aspettare il grosso dei manifestanti, eravamo praticamente chiusi in piazza e così improvvisammo un corteo per uscire e allontanarci in direzione mare.
Ce la facemmo, dopo qualche ora, grazie a un minimo di organizzazione e l’esperienza di alcuni. Eravamo fuori, salvi, senza troppe teste spaccate.
Ma la mattina era soltanto l’inizio, purtroppo. Si erano poi messi a manganellare persino gli iper-pacifici presidi di Attac e dei lillipuziani. Infine, il pomeriggio, arrivò il corteo dei Disobbedienti. Carlo si trovava lì.
Quel corteo fu attaccato dalle forze dell’ordine sul percorso autorizzato, in via Tolemaide, e fu aggredito con violenza estrema. Tra i tanti punti di scontro c’era anche piazza Alimonda. Lì, uno sparo proveniente da un mezzo dei carabinieri, un Defender, ammazzò Carlo Giuliani.
In quel momento, io mi trovavo in zona piazzale Kennedy, insieme a moltissima gente, proveniente da diverse piazze tematiche della giornata. C’era agitazione, disorientamento, rabbia. E poi arrivarono le prime notizie, cioè che la polizia avrebbe ucciso un manifestante, anzi forse addirittura due o tre.
Alla fine si capì che era uno e che si chiamava Carlo.
Ma potevano essere di più, va detto, per non dimenticarlo, perché in quel giorno in diversi luoghi di Genova le forze dell’ordine usarono le armi da fuoco.
Un ragazzo ucciso! Non volevamo crederci e la rabbia montava. Molti lì in piazza, dove mi trovavo io, volevano partire per un corteo spontaneo, altri gridavano, altri ancora avevano paura o semplicemente non sapevano che fare. Allora improvvisammo un’assemblea, per tenere ferma la gente, per parlare, per cercare di gestire la situazione. Quel giorno feci diverse assemblee in diversi luoghi.
Si discusse anche del corteo del giorno dopo, del 21 luglio, se confermarlo o se rinunciare. In realtà, pochissimi nel Gsf dicevano di non farlo. E anche dalle città giungeva notizia che la gente voleva partire lo stesso per Genova, anzi forse più di prima. L’indignazione era più forte della paura.
Mi ricordo di Tom Benetollo, il compianto Presidente dell’Arci. Alcuni, di quelli che erano impegnati a “prendere le distanze” dai manifestanti di Genova, invece che dalla violenza repressiva, pensavano che egli avrebbe ritirato la sua organizzazione dalla manifestazione del 21, rompendo così l’unità del Gsf. Ma si sbagliarono di grosso, perché Tom fece il contrario. Nel suo caso, infatti, all’indignazione per la repressione e l’omicidio di Carlo si aggiunse anche la statura politica e morale, nonché la capacità di leggere la gravità dell’accaduto.
Quello che successe poi il 21 luglio lo sanno tutti e tutte. Un enorme corteo aggredito con violenza e disperso a suon di botte e sangue. Poi le torture di Bolzaneto e la sera l’infame massacro della Diaz.
In questi ultimi mesi alcune verità hanno trovato la via per emergere anche nelle aule dei tribunali: Bolzaneto, Diaz, il ruolo di altri dirigenti della Polizia di Stato, compreso De Gennaro. Ma tutti sono ancora al loro posto, anzi, nel frattempo erano stati pure promossi. Nemmeno una sospensione temporanea, in nome della decenza. No, niente, nulla, nada.
La loro impunità e il castello di complicità, persino bipartisan, che protegge la cricca di Genova è la miglior prova che la sospensione dello stato di diritto praticato nelle giornate del 20 e del 21 luglio 2001 non fosse un incidente di percorso, ma una decisione assunta ai massimi livelli dello Stato.
E poi, ci sono delle verità che non hanno nemmeno visto l’ombra di un tribunale. Fatti e dolori ai quali in nove anni non è stato concesso nemmeno la dignità di poter vedere un processo regolare. No, niente processo per l’omicidio di Carlo Giuliani.
Oggi, non c’è nemmeno certezza su chi abbia premuto il grilletto su quel Difender. Il carabiniere di leva Mario Placanica è colui che di solito viene indicato come il responsabile, ma in realtà non c’è la certezza e ci sono dei dubbi.
Lo Stato ha assassinato Carlo e non c’è nemmeno un processo.
Carlo è troppo ingombrante, perché riassume l’essenza di quello che accadde in quei giorni a Genova: la voglia di vita e di futuro di decine di migliaia di ragazzi e ragazze e la violenza senza freni di uno Stato schierato a difendere con ogni mezzo gli interessi e i privilegi di pochi.
Oggi pomeriggio sarò in piazza Alimonda, come tutti gli anni. Dall’altra parte, non saprei in che altro luogo stare il 20 luglio, non dopo il 2001. Ci sarò con la memoria di quei giorni, che mi hanno segnato più di quanto solitamente ammetto, e soprattutto con la convinzione che il rispetto della memoria è imprescindibile per poter sognare il futuro.