\\ Home Page : Articolo : Stampa
MATTONE & COPRIFUOCO – L’IMPASSE MILANESE 17 ANNI DOPO
di lucmu (del 18/10/2010 @ 12:37:12, in Politica, linkato 5996 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul n. 182, sett. 2010, del mensile Paneacqua
 
C’era un tempo in cui Milano non era governata dalla destra, anche se i più giovani tra di noi faticano a crederci.
Infatti, il capo ciellino, Roberto Formigoni, entrò nel Pirellone, sede del governo regionale, nell’ormai lontano 1995 e da lì non si sarebbe più mosso. Stessa musica anche a Palazzo Marino, sede dell’amministrazione comunale, occupata ininterrottamente dalle destre sin dal 1993.
È passato tanto di quel tempo che i capi locali della destra usano far finta di essere appena sbarcati da Marte, quando in città esplode un problema. Eppure, comandano da un’eternità. Il leghista Salvini siede in Consiglio comunale da 17 anni, mentre l’ex-neo-post-fascista De Corato fa addirittura il Vicesindaco da 13 anni.
Una longevità e una capacità di estrarre linfa vitale persino dai problemi irrisolti, che la dice lunga sulla solidità dell’egemonia politica, sociale e culturale delle destre, oltreché sullo stato disastrato in cui versa un’opposizione, sempre oscillante tra irrilevanza e subalternità.
Una fotografia impietosa dello stato delle cose ce l’ha fornita un sondaggio pubblicato da La Repubblica il luglio scorso. Il 62,8% ritiene che negli ultimi cinque anni la qualità della vita in città sia peggiorata e soltanto il 20,5% dà un giudizio positivo sull’operato del Sindaco Moratti. Ma, e qui casca l’asino, soltanto il 9,9% valuta positivamente l’operato dell’opposizione. Ovvio, a questo punto, che un plebiscitario 87,5% invocasse un rinnovamento generale della classe dirigente politica.
Insomma, viene in mente la poltiglia di massa, evocata dal Censis, oppure l’incipit di quel corrosivo pamphlet anarchico, L’insurrection qui vient, pubblicato a Parigi nel 2007: “Da ogni punto di vista, il presente è senza via d’uscita. Virtù di non poco conto. Chi si ostina a sperare non trova alcun appiglio, mentre chi propone soluzioni si ritrova puntualmente smentito. Si dà ormai per scontato che le cose possano soltanto peggiorare”.
È l’impasse del presente in salsa meneghina.
Ma torniamo a quel tempo in cui Milano non era ancora governata dalla destra. Sono anni che non rimpiangiamo e che oggi appaiano migliori di quello che erano, soltanto in virtù del grigiore del presente.
Non c’era alcunché di “mitico” negli anni ’80. Era il tempo della Milano da bere, dei fasti e dei sindaci craxiani, del grande riflusso, dell’eroina e delle ristrutturazioni aziendali. Fu allora che iniziò il processo di smantellamento delle grandi industrie nel milanese, come la Breda, l’Innocenti e l’Alfa Romeo, e la liquidazione delle grandi aggregazioni operaie.
In fondo, era semplicemente la coda delle sconfitte dei movimenti e dei sogni del decennio precedente. Il ciclo lungo del dopoguerra si stava chiudendo. Poi arrivò il botto di Tangentopoli e fu il colpo di grazia a un sistema politico esausto e corrotto. In Italia finì il regime Dc-Psi e a Milano si chiuse l’era dei sindaci socialisti.
Le elezioni amministrative del 1993 parlarono chiaro: l’uscita dalla crisi della cosiddetta Prima Repubblica non sarebbe stata a sinistra, bensì a destra.
Fu eletto il leghista Marco Formentini. Poi scese in campo Berlusconi e i successivi sindaci sarebbero stati suoi: Gabriele Albertini (1997-2006) e Letizia Moratti, in carica dal 2006.
Mentre la destra imperava, la città subiva profonde trasformazioni. Certo, sono all’opera forze e processi che sfuggono alla dimensione locale, specie in epoca di capitalismo globalizzato, ma chi comanda per un tempo così lungo delle responsabilità precise ce le ha. Con le sue azioni e il suo discorso pubblico, imprime una direzione di marcia, asseconda alcune tendenze piuttosto che altre e, soprattutto, costruisce narrazioni e linguaggi, impone la chiave di lettura prevalente.
Tuttavia, le destre non sono mai riuscite ad indicare alcun progetto o idea di città, capace di amalgamare, includere o delineare un approdo futuro, a parte la successiva scadenza elettorale. Oggi, la proposta politica per la città si riduce di fatto al binomio mattone & coprifuoco.
In città ci sono cantieri e gru ovunque. Un affare da circa 24 miliardi di euro, tra aree dismesse, Expo e volumetrie regalate dal nuovo Pgt.
Lo sviluppo è affidato al mercato immobiliare, cioè ai pochi che lo dominano. Gli attori istituzionali si sono ritagliati il ruolo di guardiani degli interessi del gruppo di potere di riferimento. La CdO, ad esempio, che spesso fa cartello con le Cooperative, può contare non solo su Formigoni, ma anche sull’assessore comunale all’urbanistica, ciellino pure lui.
Ma a parte il mattone e quei settori dove ci sono affari propri da coltivare, come gli appalti per i servizi pubblici esternalizzati, la sanità o le scuole private, le istituzioni locali si disinteressano all’economia e al lavoro, appellandosi al principio liberista della non ingerenza.
Lo sanno bene i tanti lavoratori delle aziende in crisi, di ogni ramo e tipo, che in questo periodo hanno bussato alle porte delle istituzioni, ottenendo soltanto ammortizzatori sociali o pesci in faccia.
Il Comune di Milano aveva ignorato gli operai dell’Innse quando stavano lottando. Dopo la loro splendida vittoria, gli ha pure negato il riconoscimento. Niente Ambrogino d’Oro, perché “occupare le fabbriche è illegale”.
Se questa è la considerazione per chi era riuscito ad imporre la sua visibilità, figuriamoci gli altri. Sono tanti e tante, dipendenti delle piccole aziende e delle cooperative, precari a vario titolo, costretti al lavoro nero. Sono dispersi, atomizzati e disorganizzati, faticano a riconoscersi tra di loro. Insomma, non esprimono forza, potere e dunque sono invisibili, non esistono.
A Milano non manca il lavoro, manca il lavoro decente. Milano è diventata la capitale della precarietà. La fotografia più recente è quella fornita dalla Camera del Commercio: nel 2009 soltanto il 18,4% dei nuovi contratti di lavoro era a tempo indeterminato, il resto era precario.
Lavoratori e lavoratrici soprattutto giovani, sottopagati, senza tutele e welfare efficaci, esposti a ogni ricatto. E i primi a pagare la crisi. Si affaccia così una nuova povertà giovanile, che va ad aggiungersi a quella di molti anziani e al dramma degli over 50 (o 40) espulsi dalle aziende. Ma a Palazzo Marino pensano ad altro.
Milano è anche terra di immigrazione. Vent’anni fa i residenti stranieri si contavano in qualche decina di migliaia, oggi l’anagrafe ne registra 200mila, il 15% del totale.
E sta arrivando la seconda generazione, cioè i nuovi milanesi. In una città che invecchia, il 21% dei 193mila minori di 18 anni ha cittadinanza straniera. Una multietnicità irreversibile, insomma.
Un’opportunità o un problema? Tanti milanesi pensano che sia un problema e soprattutto lo ripete, incessantemente,  chi governa il territorio.
E così, quel problema impatta con la solitudine urbana, la precarietà diffusa, le nuove povertà, un welfare sempre più magro e impotente. E ora anche con la crisi economica ed occupazionale. Crescono paure, insofferenze e rancori. La guerra tra i poveri è sempre in agguato, mille conflittualità covano.
A questa poltiglia le destre hanno fornito una risposta. Non un sogno o una speranza, né un progetto di coesione sociale, bensì la militarizzazione dei problemi e delle coscienze. L’hanno chiamata sicurezza e porta tanti voti, anche se non risolve mai i problemi, anzi. È l’emergenza continua che si autoalimenta, che costringe ad alzare sempre di più il tiro, a spararla più grossa ancora, perché il meccanismo non si inceppi.
Il bersaglio principale è ovviamente l’immigrato e spesso si sconfina nella xenofobia e nel razzismo, quasi sempre quando si tratta di rom.
Certo, ormai queste cose accadono un po’ dappertutto in Italia, ma è stata Milano a fare da apripista. Sarkozy vi ha scandalizzati? Ebbene, allora ricordate che qui tre anni fa sdoganarono i roghi.
Ma la sicurezza è un discorso generale, non si limita a immigrati, emarginati o “diversi”. Va bene anche per i giovani, per esempio. Nel 2008, mentre qualcuno intascava allegramente mazzette per evitare i controlli alle discoteche della Milano da sniffare, fu varata l’ordinanza che vietava il consumo di lattine di birra in piazza.
L’ultima frontiera, però, dopo l’esercito in strada, è il coprifuoco. L’hanno inventato dopo i fatti di via Padova del febbraio scorso e consiste in chiusure anticipate di negozi e locali. L’hanno esteso anche ad altre due zone della città: la cosiddetta “Chinatown” e il Corvetto.
E, possiamo starne certi, il coprifuoco sarà uno dei piatti forti della campagna elettorale. Insieme al “no alle moschee” e agli sgomberi dei campi rom, ovviamente.
Due decenni di dominio delle destre hanno lasciato il segno a Milano. Ma oggi quel robusto sistema di potere appare anche stanco. Ha perso spinta e vigore, si sentono degli scricchiolii.
I litigi intestini aumentano, il bilancio dell’amministrazione Moratti è fallimentare e, soprattutto, si moltiplicano gli scandali che coinvolgono esponenti della destra cittadina e regionale, compresa l’indagine sulla ‘ndrangheta. Quella che si intravvede è una montagna di letame.
Eppure, sarebbe sciocco pensare che la destra sia al capolinea, perché se loro sono in difficoltà, allo stato lo è ancora di più l’opposizione.
Infatti, l’opposizione ha sofferto fortemente l’egemonia delle destre. Chi si è rifugiato nella replica delle vecchie formule, mentre Milano cambiava, finendo per essere magari nobile, ma politicamente irrilevante. E chi ha stretto patti con il diavolo, in nome del business, o rincorso la sicurezza della destra, finendo culturalmente subalterno e politicamente sconfitto.
La prima sfida che deve vincere l’opposizione è, dunque, quella con se stessa e con i suoi fantasmi. A Milano ci sono le resistenze, energie, idee e pratiche per cambiare, ma sono disperse e hanno bisogno di un centro di gravità.
Il punto non è quanto sia difficile mettere insieme un’alternativa, bensì che questa è necessaria ed urgente. Altrimenti, l’uscita dall’impasse la offriranno di nuovo da destra, stavolta nel segno del coprifuoco.