Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 25 gennaio 2011 con il titolo “L’Ilo smentisce Marchionne e Sacconi”.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha pubblicato in questi giorni il suo rapporto annuale sulle tendenze globali dell’occupazione. Si tratta ovviamente di un’analisi dei grandi numeri e degli andamenti di fondo, ma ciononostante ci pare legittimo e utile confrontare alcune sue conclusioni con il discorso ed i postulati del modello Marchionne. In fondo, anche quest’ultimo pretende di essere generale e globale.
Ci riferiamo in modo particolare alla promessa, ben presente nella discussione attorno al referendum sull’accordo di Mirafiori, di miglioramenti salariali per gli operai. Infatti, anche i più decisi fautori del “sì” si rendevano conto che in ultima analisi non era sufficiente, soprattutto nel dibattito pubblico fuori dalla fabbrica, il ricorso al ricatto del mangiare la minestra o saltare la finestra, ma che occorreva anche offrire, o perlomeno evocare, qualche contropartita. E così, a Mirafiori e dappertutto, si cominciava a raccontare che la strada indicata da Marchionne non solo avrebbe garantito l’occupazione, ma altresì aumenti salariali.
I più spregiudicati sono stati, per ovvi motivi, i capi di Cisl e Uil, che hanno sostenuto addirittura che l’accordo separato di Mirafiori, firmato il 23 dicembre scorso, avrebbe garantito già di per sé un miglioramento salariale. Una balla bella e buona, che sta in piedi soltanto ricorrendo a qualche disinvolta acrobazia matematica. Infatti, basta far finta che la contrattazione aziendale di secondo livello e le relative voci salariali integrative, tipo i premi risultato, non siano mai esistiti ed aggiungere al conto invece la monetizzazione dei 10 minuti di pausa cancellati e l’aumento degli straordinari obbligatori e, guarda un po’, il gioco è fatto.
Non a caso, il Ministro Sacconi e lo stesso Marchionne sono più cauti sul punto, collocando i promessi aumenti salariali (o “partecipazioni agli utili”) nel futuro, quando gli impianti saranno pienamente sfruttati, la produttività sarà al massimo e, ovviamente, le automobili prodotte verranno vendute sul mercato.
Ancora più cauti sono taluni economisti non proprio maldisposti nei confronti delle tesi di Marchionne, come il prof. Paolo Manasse, che nel suo intervento su Lavoce.info sostiene che il piano Fiat porterà nel breve periodo ad una riduzione del salario reale (“dovuta al peggioramento della posizione contrattuale dei lavoratori”), ma poi nel medio periodo, in virtù dell’accresciuta produttività del lavoro, ci potrà essere un aumento del salario reale.
Insomma, tralasciando qui Bonanni, che ricorda piuttosto il famoso venditore di automobili usate dei telefilm americani, tutti stanno riesumando la promessa che fu del principale antenato dell’attuale crisi, cioè del neoliberismo rampante degli ’80: accettate i sacrifici oggi e domani sarete ricompensati. Sappiamo tutti com’è andata a finire.
O, per dirla in termini più scientifici, fate aumentare all’azienda la produttività del lavoro, mediante l’allungamento dell’orario di lavoro (il taglio delle pause, aumento delle ore straordinarie obbligatorie ecc.) e ritmi più intensi (la nuova metrica del lavoro Ergo-Uas), e domani guadagnerete come tedeschi.
Ma quanto è credibile questa promessa? A nostro modo di vedere, molto poco. E non lo diciamo in virtù dei precedenti poco edificanti in tema di promesse, ma guardando ad alcuni dati empirici e facendo un ragionamento.
I dati empirici ce li fornisce proprio il rapporto 2011 dell’Ilo, che disegna un quadro tutt’altro che rassicurante, poiché conferma che i segni di ripresa che alcuni indicatori macroeconomici, come il Pil, hanno mostrato su scala globale nel 2010, non si sono affatto tradotti in una ripresa analoga dell’occupazione, così come il ritorno della produttività del lavoro a valori positivi non si è tradotto in aumenti salariali. E questo vale soprattutto per le economie più sviluppate, come quelle europee.
Per dirla con le parole del rapporto Ilo: “il ritardo della ripresa del mercato del lavoro è dimostrata non soltanto dallo scarto fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione, ma anche dalla mancata corrispondenza, in numerosi paesi, fra gli aumenti di produttività e la crescita dei salari reali. Ciò può influire negativamente sulle future prospettive di ripresa a causa dei forti legami esistenti fra la crescita dei salari reali, i consumi e gli investimenti”.
Appunto. E c’è poco di cui meravigliarsi, aggiungiamo noi, poiché è assolutamente illusorio pensare che l’aumento della produttività del lavoro si traduca automaticamente, di per sé, in un vantaggio per il lavoratore, in termini salariali o di riduzione del tempo di lavoro. Perché questo accada, sul piano locale o globale, c’è infatti bisogno che i lavoratori possano organizzarsi, negoziare collettivamente e dunque contendere la destinazione del vantaggio.
In presenza di una polverizzazione estrema dei lavoratori in tante individualità solitarie, da un punto di vista negoziale, prevarrà ancora una volta e, anzi, in maniera più brutale rispetto al periodo pre-crisi la logica del livellamento al ribasso, tipica dell’era della globalizzazione.
Ed eccoci al punto vero, che i Sacconi e i Marchionne hanno sempre tenuto ben presente, anzi in primo piano. Per questo a Pomigliano e Mirafiori non si trattava di negoziare i ritmi, gli orari e la metrica, ma di eliminare il negoziato stesso. Per questo al Governo non interessa favorire una mediazione, ma piuttosto sconfiggere le organizzazioni sindacali indipendenti e tutte le leggi che in qualche modo tutelano il lavoratore, a partire dallo Statuto dei Lavoratori.
Ed ecco perché la resistenza della Fiom e dei sindacati di base non è un capriccio, né “estremismo conservatore”, bensì un punto di partenza necessario per poter guardare al futuro.