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MAGHREB / MEDIO ORIENTE: CON LE RIVOLTE, CONTRO L’INTERVENTO MILITARE
di lucmu (del 04/03/2011 @ 00:01:00, in Politica, linkato 956 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 3 marzo 2011
 
Torna lo spettro dell’intervento umanitario con l’elmetto. Lo evocano quelle potenze occidentali che fino a ieri hanno sostenuto, protetto e coccolato i dittatori e i monarchi assoluti nel Maghreb e nel Medio Oriente. E laddove ciò è ancora possibile, si continua a farlo.
Un sostegno motivato dal business, dalla politica di contrasto dei flussi migratori e dalla lotta al terrorismo di matrice islamica. Del primo si parla relativamente poco, ma in cambio pesa parecchio. Nel nome degli altri due si giustifica un po’ di tutto, anche l’ingiustificabile e l’infame.
Affari a parte, la tesi di fondo suona più o meno così: per poter difendere la nostra democrazia, la nostra libertà e i nostri diritti umani bisogna sostenere regimi che negano la democrazia, la libertà e i diritti umani, poiché gli arabi e gli islamici sono geneticamente incapaci di comprendere questi concetti.
È la solita vecchia storia, si dirà. Certo che è così, ma c’è di più questa volta, perché il colonialismo e l’imperialismo storici avevano pur sempre una visione, mentre l’Occidente di oggi, in particolare l’Europa, sembra non vedere più oltre il proprio naso.
Com’è possibile che a Washington e nelle capitali europee nessun governo abbia previsto o annusato quanto stava per avvenire? Che persino, a rivolta già iniziata, il Ministro degli esteri di un’importante ex potenza coloniale del Nord Africa, cioè la Francia, abbia prima trascorso le sue vacanze in Tunisia, ospite degli uomini di Ben Ali, e poi addirittura offerto la cooperazione della Francia per reprimere le manifestazioni di piazza?
Insomma, le classi dirigenti degli Usa e dell’Europa sono stati colti di sorpresa. E quello che è peggio, anche chi dovrebbe e vorrebbe incarnare delle alternative, cioè la sinistra, è stato colto di sorpresa.
Da tutto questo deriva un giudizio impietoso sull’Europa e le molte tesi sul declino del vecchio continente ne escono senz’altro rafforzate. Ma non è di questo che vogliamo parlare in questa sede. Qui ci interessa ragionare su di noi, sulla sinistra politica e sui movimenti, su quello che oggi dovremmo fare di fronte agli avvenimenti.
Anzitutto, c’è una cosa che non dovremmo fare, cioè aggrapparci alle voglie interventiste di Usa e Nato per nobilitare l’ignobile, per riesumare la stantia e deleteria tesi del nemico del mio nemico è mio amico. Ghedaffi non è un campione dell’antimperialismo e dell’autodeterminazione dei popoli. Chissà, forse un tempo lontano ci assomigliava, ma oggi non è che un tiranno, abbagliato dal suo potere e dalle sue ricchezze e persino disponibile a fare da aguzzino di migranti e profughi per conto di Berlusconi e della Lega.
No, non si può essere ambigui, tra Ghedaffi e chi si ribella al suo regime bisogna stare con i secondi. A Tripoli e a Bengasi, esattamente come a Tunisi, il Cairo, Algeri, Sanaa o Teheran, noi stiamo con chi insorge.
I potenti del mondo non solo non hanno previsto la rivolta, ma nemmeno i suoi contorni e i suoi protagonisti. Certo, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: la Libia non è la Tunisia o l’Egitto, l’Algeria è cosa diversa dallo Yemen, per non parlare dei paesi del Golfo o dell’Iran, che è un discorso a parte. Tuttavia, bisogna mettersi le fette di salame sugli occhi per non vedere che c’è qualcosa che accomuna i rivoltosi al di là dei confini e delle specificità. I protagonisti sono soprattutto giovani e scolarizzati, usano internet, ma non trovano un posto nel presente e non vedono un futuro. Sono schiacciati dagli effetti della crisi globale e da regimi corrotti e sclerotizzati. Non sono fondamentalisti religiosi, non chiedono la sharia, bensì democrazia e  libertà di parola, lavoro e un futuro.
Quei giovani, in fondo, assomigliano molto di più ai loro coetanei europei che nell’autunno scorso inondarono le strade di Roma e Londra, che non ai miliziani della jihad, che i propagandisti nostrani dello scontro di civiltà vorrebbero vendere come l’unica espressione politica di cui sono capaci le società a prevalenza islamica.
Beninteso, non sappiamo se quelle rivolte si tramuteranno in rivoluzioni compiute, in un “1848 arabo”, come sostiene Tariq Ali. Né sappiamo se sia giustificato l’ottimismo sfrenato di Hardt e Negri, che intravedono per il mondo arabo un ruolo da laboratorio politico paragonabile a quello svolto dall’America Latina nel decennio scorso. E non dobbiamo nemmeno sottovalutare la potenza delle forze normalizzatrici, peraltro già all’opera, come gli eserciti, le strutture politiche e sociali conservatrici e le stesse ingerenze occidentali.
Eppure, saremmo dei folli a non capire che nulla sarà più come prima e che si sta affacciando una nuova generazione non riducibile alla falsa alternativa tra dittatura filo-occidentale ed islamismo militante. D’altronde, andrebbe sempre ricordato che tra le prime vittime del predominio di queste false alternative, di questa vera e proprio tenaglia troviamo anche le aspirazioni e i diritti del popolo palestinese.
La rivolta dei giovani maghrebini e arabi è una boccata d’ossigeno e una possibilità. E quando si presenta una possibilità del genere, quando in campo ci sono dei movimenti reali, allora non bisogna ritirarsi nelle sale riunioni a disquisire su quanto sono potenti i nemici e su quanto sono fragili, disorganizzate e incerte quelle insorgenze, ma occorre uscire di casa ed agire.
Anzitutto, schierandosi senza esitazione con le rivolte, con i ragazzi e le ragazze che si battono per il loro futuro. In secondo luogo, costruendo dialogo, solidarietà e cooperazione tra la sinistra e i movimenti nostri e quelli maghrebini e arabi. In terzo luogo, opponendosi a tutti i tentativi di normalizzare, ingabbiare e invertire i processi in atto, a partire da ogni ipotesi di intervento militare Usa o Nato. Infine, promuovendo l’accoglienza dei profughi e contrastando la criminalizzazione berlusconiano-leghista dei migranti maghrebini.
L’esito del nostro schieramento è garantito? No, tutt’altro. Ma è l’unica cosa giusta da fare per una sinistra che vuole guardare al futuro e, così facendo, magari ci ricordiamo anche come si fa a cambiare le cose a casa nostra.