Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 14 luglio 2011
Tutti uniti, tutti responsabili, tutti coesi in nome della nazione strapazzata e delle richieste dei mercati. E così, la mega manovra da oltre 70 miliardi di euro sarà approvata in un lampo, senza inutili discussioni e sterili proteste. Le banche centrali e i commissari europei applaudono, le agenzie di rating annuiscono e gli speculatori, per ora, tornano ad occuparsi dei Pigs (Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna).
Insomma, a sentire la vulgata massmediatica del momento, l’abbiamo scampata bella. Siamo stati bravi. Persino il governo, ormai in avanzato stato di putrefazione politica, ha dato prova di apparente serietà e l’opposizione ha finalmente dimostrato di essere fit to govern, come direbbero gli anglosassoni. Anzi, si ricomincia pure a parlare di governi tecnici, di transizione, di unità nazionale e chi più ne ha più ne metta, tanto la questione è non andare al voto subito e condividere a 360 gradi la responsabilità dei sacrifici.
Già, perché ci sono i sacrifici e quelli toccano ai soliti noti. E questa volta sono proprio una bella botta, che colpisce un tessuto sociale ed economico già indebolito da anni di crisi e misure anticrisi. Evitiamo qui di fare l’elenco dettagliato dei tagli e dei balzelli, perché basta ricordare i titoli per capire chi pagherà il conto.
Tra interventi sulle pensioni, ticket sanitari, tagli alle agevolazioni fiscali e blocchi sempre più lunghi degli stipendi nella pubblica amministrazione, ai quali vanno aggiunti i micidiali effetti differiti dei tagli alle Regioni e agli enti locali, è evidente che la manovra massacra il reddito e le condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro, fisso o precario che sia, e di chi il lavoro neanche ce l’ha.
“Ci dispiace, ma non possiamo farci niente, ce lo chiedono i mercati”, è il refrain che ricorda tanto il TINA (There is no alternative) di thatcheriana memoria, ma stranamente tutti si dimenticano poi di spiegare chi sono questi benedetti “mercati”. Infatti, lungi dall’essere posti anonimi dove agiscono mani invisibili, i mercati sono luoghi dominati da concretissimi interessi e poteri, con tanto di nome e cognome. Ne volete uno, tanto per rompere l’omertà? Eccovelo: Raymond Dalio, reddito annuo di 2,5 miliardi di dollari (secondo Fortune), fondatore di “Bridgewater Associates”, il più grande hedge fund al mondo, il quale dispone di una massa attiva di 92 miliardi di dollari.
Sono uomini come Dalio che decidono cosa succede nelle borse, chi vive e chi muore. E con loro ci sono anche quegli archetipi del conflitto di interessi che si chiamano agenzie di rating. Basta un cenno di “Moody’s”, di “Fitch” o di “Standard & Poor’s” e interi Stati sovrani rischiano la rovina. E il punto non è sapere se abbiano sempre ragione o torto nei loro giudizi, bensì che dispongano di quel pazzesco potere che gli permette di autoavverare le loro profezie, a prescindere dal fatto che abbiano ragione o torto.
In altre parole, in quei mercati non risiedono le soluzioni, bensì parte significativa dei problemi. Anzi, proprio la follia e l’insostenibilità di un siffatto governo dell’economia mondiale è la prova dell’urgenza di un radicale cambiamento. Beninteso, non siamo degli ingenui e sappiamo bene che non basta affermare queste cose perché la realtà cambi e che, invece, occorrerà una lotta titanica e una cooperazione sul piano europeo ed internazionale. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare. O no?
E insistiamo con questo quesito, perché tutto questo unanimismo nasconde troppe cose non dette. Anzitutto, perché a nessuno sfugge che l’insieme delle misure anticrisi, identiche in tutta Europa, tendono a ridisegnare complessivamente il modello sociale del dopoguerra, in senso classista, liberista ed escludente. E con esso, ovviamente, anche il modello politico, che assume tratti sempre più autoritari nel rapporto tra governo e popolo, sebbene in un quadro formalmente democratico. Se volessimo trovare un paradigma ispirato all’attualità, allora potremmo trovarlo in Val di Susa.
E non è affatto un caso che il vento del cambiamento che abbiamo respirato in primavera, con le elezioni amministrative ed i referendum, fosse caratterizzato da una massiccia domanda di democrazia e partecipazione e da una volontà manifesta di riappropriazione della sfera pubblica e, in ultima analisi, del proprio futuro. E non è nemmeno un caso che quella caratteristica la troviamo anche nei movimenti in giro per l’Europa, da Atene a Madrid, o per il Maghreb e il Medio Oriente.
Insomma, oggi e qui la questione è cosa vogliamo fare di fronte alla crisi economica e politica, in che direzione vogliamo lavorare. Per semplificare all’estremo, di direzioni di marcia possibili ce ne sono due. Una è quella indicata dai movimenti e sommovimenti che fanno concretamente quel famoso vento che è cambiato, che mettono in discussione le politiche economiche depressive e che esprimono una straordinaria potenzialità democratica, sia in termini di salvaguardia di beni comuni e diritti, che di partecipazione attiva. La seconda, invece, è quella indicata dalla politica dell’union sacrée attorno al governo dell’esistente e al patto con i poteri economici e finanziari dominanti.
Ed è bene essere consapevoli che le due strade non sono compatibili e tendono a confliggere, come stanno dimostrando proprio gli avvenimenti di questi giorni. In primo luogo, è stata proprio la logica dell’unità e coesione nazionale a fare da levatrice all’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di due settimane fa, il cui obiettivo è palesemente la normalizzazione della Fiom e il restringimento della democrazia sui luoghi di lavoro.
In secondo luogo, la pesante stretta nella manovra economica sugli enti locali, compresa la norma che inserisce nel patto di stabilità interno il criterio delle “dismissioni di partecipazioni societarie” (leggi: privatizzazioni), inciderà in maniera significativa sulle esperienze di governo locale nate in primavera. Un esempio ante litteram di che cosa questo significhi l’abbiamo avuto proprio ieri a Milano, quando il Sindaco Pisapia ha confermato l’accordo sulle aree per l’Expo, così com’era stato elaborato dalla Moratti e da Formigoni, cioè consentendo la valorizzazione delle aree con la loro trasformazione da agricole in edificabili.
Beninteso, questo esito era nell’aria da settimane, perché dopo i tre anni spesi dalla destra unicamente per farsi la guerra sulla gestione dell’affare immobiliare dietro l’Expo, si era ormai giunti al dunque e l’unica alternativa possibile (a parte un’improbabile decisione di non fare più l’Expo) era trovare in extremis le non poche risorse finanziarie aggiuntive che permettessero di realizzare il progetto dell’orto globale, come chiesto dall’assessore Boeri. Considerato che difficilmente Governo e Regione avrebbero messo mano al portafoglio, avrebbe dovuto pensarci il Comune di Milano, che però deve già fare fronte agli enormi buchi di bilancio lasciati dall’amministrazione precedente, nonché ai tagli dei fondi in arrivo da Roma.
Insomma, con la leva dei soldi e delle compatibilità finanziarie imposte dal centro, che sarebbe poi l’esatto contrario del tanto reclamizzato federalismo, si riesce a mettere la camicia di forza agli enti locali, espropriando i cittadini-elettori della loro sovranità. Ma ricatto o no, chi a primavera ha votato per il cambiamento, ora si aspetta dei fatti in coerenza con il suo voto e non si accontenta della spiegazione razionale delle difficoltà del momento. Un bel problema in prospettiva, con questa manovra, perché se uccidi la speranza non rimane che la smobilitazione oppure il rifugio in forme di contestazione difficilmente riconducibili a un progetto capace di esprimere un’alternativa al potere esistente.
Insomma, tra le vittime programmate di questo tutti uniti sulla manovra non troviamo solo le condizioni di vita delle fasce sociali che vivono del proprio lavoro, ma anche la stessa speranza di cambiamento, che a quanto pare suscita preoccupazione non soltanto a destra. E quindi vi è una ragione in più per non farsi incantare dall’union sacrée.