In genere, in casi come questi, è sempre preferibile darsi un po’ di tempo e far sedimentare le impressioni e le emozioni, prima di abbandonarsi alla pretesa di formulare valutazioni e letture. Ma non sempre ciò è possibile e sicuramente non è possibile all’indomani della mobilitazione del 15 ottobre, poiché noi non siamo né sociologi, né filosofi, bensì attivisti e protagonisti.
E poi, come hanno dimostrato già le prime ore, forte è la tentazione di affidarsi a qualche luogo comune o a qualche schema un po’ troppo schematico per spiegarsi quello che è successo ieri nelle strade di Roma, rischiando così di prendere lucciole per lanterne.
Quindi, con la consapevolezza dei limiti di tutte le parole pronunciate a caldo, ecco alcune valutazioni, che auspichiamo possano essere un contributo al dibattito del e nel movimento. Ebbene sì, del e nel movimento, perché il problema è tutto nostro.
1. Anzitutto, va evidenziato e sottolineato un dato di cui praticamente non si parla più, ma che sarebbe idiota e autolesionista ignorare da parte nostra, soprattutto perché era un dato non scontato alla vigilia: cioè, la grande è straordinaria partecipazione alla manifestazione.
Ieri a Roma non era nemmeno necessario evocare il consueto balletto dei numeri, perché bastava il colpo d’occhio o la telefonata con l’amico che pensavi fosse dietro di te, invece era ancora imbottigliato davanti alla stazione Termini, per capire che il corteo era più che riuscito, che non c’erano soltanto i militanti delle reti più o meno organizzate, ma che c’era anche quell’eccedenza che, in ultima analisi, fa i movimenti.
Talmente grande era la partecipazione che buona parte del corteo non si è nemmeno accorto di quello stava avvenendo in testa. Quando in San Giovanni erano già in corso gli scontri, la coda iniziava ad imboccare via Cavour.
2. In secondo luogo, la tesi del parallelo con quanto accaduto a Genova dieci anni fa, con i black bloc di allora, le infiltrazioni di polizia eccetera, non ci convince per nulla. Beninteso, siamo persuasi anche noi che ci sarà stato qualche fascio che si è mescolato a qualche scontro e che le forze dell’ordine più che ostacolare abbiano agevolato alcune dinamiche, dalla condizione di via Cavour, dove il giorno prima non erano stati messi nemmeno i consueti divieti di sosta (…), fino ai criminali caroselli di blindati che spazzavano una piazza San Giovanni piena di gente. Ma crediamo, semplicemente, che evocare complotti e infiltrazioni non spieghi affatto la giornata di ieri e, soprattutto, che serva più che altro per autoconsolarci, tranquillizzarci e non affrontare di petto i problemi, i nostri problemi.
Sono passati dieci da Genova e molte cose sono cambiate. Quello che con linguaggio datato si chiama “black bloc” e che altri chiamano “i neri” o “gli agitati” non sono dei marziani o degli agenti infiltrati di qualche servizio segreto, ma un’area politica anarchica che esiste in Europa e in Italia. Non sono apolitici, ma hanno una visione politica, che assomiglia molto al “no future” di altri momenti della nostra storia recente.
E attenzione a non banalizzare! Il loro discorso può calzare a pennello con la condizione sociale concreta e, soprattutto, con la percezione della propria condizione di una parte non indifferente di giovani del nostro tempo. Insomma, il sistema è alla frutta, la sinistra tradizionale è parte del sistema alla frutta, non c’è alcuna speranza per noi, se non la comunità degli insorti, e, quindi, non rimane che accelerare e accompagnare la distruzione del sistema. Una visione immensamente pessimistica, ma è una visione, agli occhi di chi la condivide, che giustifica e che da senso alla pratica della distruzione di cose.
Quell’area politica a Roma c’era nel corteo, peraltro ben visibile, così come c’è nelle grandi città. Non sono reduci di battaglie del passato, ma in larghissima parte giovani e giovanissimi. Hanno deciso di esserci e di portarvi la loro pratica. E loro hanno iniziato.
Ma, anche qui, non prendiamo lucciole per lanterne. Alla fine, verso San Giovanni, a scontrarsi con la polizia non erano soltanto loro, a meno che non si voglia sostenere seriamente che 2 più 2 faccia 10… No, era un pezzo più ampio del corteo che, una volta partiti gli scontri con la polizia, si è fatto coinvolgere.
Perché? Perché erano lì e non volevano stare a guardare di fronte a quello stava accadendo? Perché era già sceso in piazza con quello stato d’animo? Perché pensava che questo era un modo, un po’ politicista, ma non per questo meno reale, di regolare i conti con altre aree del movimento, considerate troppo moderate? Chissà, probabilmente tutte queste cose messe insieme.
Comunque sia, rimane un fatto, che segna una distanza e una diversità non indifferente con Genova 2001. Allora, il rifiuto della violenza e, più concretamente, della strada dell’impatto frontale con le forze antisommossa era sentimento dominante e diffuso, come avrebbe dimostrato il dopo: la reazione alla bestiale repressione di Genova non fu la violenza, bensì il suo contrario, per parecchi anni.
Oggi è diverso. Dalle mobilitazioni dell’Onda al 14 dicembre dell’anno scorso, passando per la Val di Susa, è emersa una realtà nuova, fatta di un rapporto diverso con la piazza, i divieti e le forze dell’ordine. E questo non riguarda soltanto qualche piccola realtà organizzata (che non sarebbe una novità), ma settori più ampi. Insomma, un cambiamento di clima che ieri ha fatto sì che non ci fosse un fuggifuggi generale di fronte alla colonne di fumo che si levavano in via Labicana, ma il grosso dei manifestanti continuasse ad andare in quella direzione, compresa quella parte, molto significativa, che urlava agli “incappucciati” di smetterla.
3. In terzo luogo, se quanto sopra detto ha un senso, dobbiamo tentare anche un primo bilancio sul percorso di preparazione del 15 ottobre qui in Italia. E proviamo a buttare lì alcune considerazioni in maniera un po’ ruvida. Il percorso di avvicinamento al 15 è stato difficoltoso, perché, sebbene tutte le aree di movimento, i sindacati conflittuali (dalla Fiom ai sindacati di base), l’associazionismo eccetera convergessero e concordassero sull’appuntamento internazionale lanciato dagli indignados spagnoli, su tutto il resto prevalevano le divergenze. Cosa fare in piazza, come proseguire dopo il 15, le parole d’ordine caratterizzanti, le prospettive politiche eccetera, tutto questo divideva. Eravamo forse ai livelli unitari più bassi da tempo.
Nulla di sorprendente, perché la disunità prevale da un po’ e i tempi sono complicati, ma in fondo la politica, anche quella di movimento, è fatta per cambiare le cose e non semplicemente per prendere atto dell’esistente. O no? Comunque, c’è stato un tavolo di discussione e un tentativo unitario, il Coordinamento 15 ottobre, dove c’erano quasi tutti, ma non si è riusciti ad andare oltre il minimo sindacale. E quindi, nel percorso di avvicinamento al corteo hanno prevalso le mediazioni che non accontentavano nessuno, gli appuntamenti di parte e la competizione tra le varie aree sulla visibilità eccetera. E tutto questo, a nostro avviso, ha reso più facile che si potesse guardare al 15 ottobre come ad un giornata dove ognuno era libero di fare quello che gli pareva.
Beninteso, questo non è un atto di accusa verso nessuno, ma l’evidenziazione di un problema collettivo, che ci troveremo di fronte anche nelle prossime scadenze. Cioè, un problema che richiede una soluzione.
Ieri sera, tornando a Milano da Roma, mi è venuto in mente un documento che avevo letto quest’estate. Si intitolava Cos’è una resistenza popolare, era firmato “Network Antagonista Torinese (askatasuna-murazzi-cua-ksa) e Comitato di lotta popolare no tav – Bussoleno” e si riferiva alla lotta della Val di Susa. Tra le altre cose diceva che “tacere sui limiti soggettivi dei movimenti non è d’aiuto”, criticava la logica dell’autoreferenzialità, sosteneva che “la Val Susa non è il Luna Park dove trovare quell’appagamento che non si trova sui propri territori” e riteneva necessario il rispetto delle decisioni collettive. Ebbene, forse i firmatari del documento non saranno d’accordo che lo citiamo in questo contesto e forse non c’entra niente, ma mi era venuto in mente e quindi mi sembra giusto dirlo.
Abbiamo scritto un fiume di parole, ma succede così quando si scrive a caldo e quando si vogliono evitare fraintendimenti. Ce ne scusiamo. Ora la domanda che rimane è la solita: “quindi, che facciamo?”.
Io non ho ricette pronte e credo, specie in questo caso, che bisogna trovarle insieme, altrimenti non funziona. Ma sono altrettanto convinto che, per poterlo fare, bisogna parlare chiaro, abbandonare luoghi comuni e mistificazioni. E, in questo senso, mi sento di dire due cose.
Primo, non possiamo più permetterci che l’andamento di un appuntamento collettivo venga determinato dalle decisioni unilaterali di una parte. Non è un problema burocratico, è un problema politico di tutto il movimento e di tutte le sue articolazioni. A meno che, ovviamente, non si pensi che nella società e nella politica debbano essere solo gli altri a decidere e che ai movimenti spetti semplicemente il ruolo di fare le standing ovation oppure un po’ di riot.
Secondo, smettiamola di mistificare e mettiamo sul tavolo le opzioni politiche. Cioè, esplicitiamo le proposte, i percorsi e gli orizzonti. Il governo che viene? Le alternative? Quali? I contenuti? Il rapporto con le forze politiche? Le pratiche? Eccetera, eccetera. Non sto parlando di tavole rotonde in qualche circolo, il dibattito si fa anche con le iniziative e con il conflitto. No, sto parlando di trasparenza e partecipazione.
Rispondere a questi due quesiti non risolve tutti i problemi, ma ci farebbe fare qualche passo in avanti, di cui peraltro abbiamo a questo punto disperato bisogno.
Ieri a Roma eravamo tantissimi, eravamo un embrione di movimento. Forse le scelte e le decisioni di qualcuno l’hanno ucciso. Forse no. Comunque, dipende soltanto da noi e non da qualche forza oscura o da qualche complotto.
di Luciano Muhlbauer