Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua il 21 marzo 2012
Non si tratta più, su nulla e con nessuno, che sia un sindacato, una comunità locale o uno Stato sovrano. È questo uno dei tratti distintivi del governo tecnocratico in epoca di crisi globale, dove la fonte di legittimazione dichiarata di ogni decisione sta nello stato di necessità, per definizione non discutibile, e nella volontà dei mercati finanziari, dell’Europa, della Bce e del Fondo monetario.
Quando Mario Monti, ieri sera, ha dichiarato che il Governo sull’articolo 18 non tratta più, ha detto soltanto una mezza verità, perché in realtà non c’è mai stata alcuna trattativa. La conclusione del confronto sul mercato del lavoro è, infatti, identica al suo punto di partenza, se consideriamo le cose che contano davvero. E l’unica differenza con la vicenda del brusco e brutale innalzamento dell’età pensionabile del dicembre scorso sta unicamente nella forma.
Beninteso, il Governo Monti non si sta comportando in maniera eccentrica, ma piuttosto in piena sintonia con lo spirito dei tempi. Sarà anche per questo che il suo stile è molto apprezzato a Berlino o nella City di Londra e che lo spread ha smesso improvvisamente di essere un problema.
Come Monti fanno un po’ tutti i poteri che contano e messi insieme fanno una tendenza generale. Marchionne ha fatto da battistrada, stabilendo che lui non trattava più e che si poteva scegliere se adeguarsi o andare fuori dai piedi. E per chiarire il concetto, con la gentile collaborazione di Fim e Uilm, per dire la verità, ha abolito l’elezione dei delegati e dichiarato illegale il principale sindacato metalmeccanico, la Fiom.
Ma il non-tratto-più è un metodo universale, non limitato al lavoro. Ne sanno qualcosa le comunità locali dalla Val di Susa e chiunque, come peraltro anche il sottoscritto, ritenga il Tav Torino-Lione un’opera sbagliata e inutile. A loro viene offerto il dialogo, a patto che la conclusione sia identica alla relazione introduttiva, cioè l’opera si fa comunque. E se non ti sta bene e continui a rompere, allora ci sono sempre le legnate.
Anche agli Stati europei messi peggio da un punto di vista debitorio viene riservato il medesimo trattamento. I greci o i portoghesi decidano pure chi votare alle elezioni, tanto il governo reale della nazione viene esercitato da altri. Peraltro, la stessa famosa lettera della Bce al Governo italiano dell’estate scorsa non era un insieme di suggerimenti, bensì un dettagliato programma di governo da applicare senza fiatare, compresa la manomissione dell’articolo 18.
La situazione è peggio di quello che sembra, perché vi sono alcuni fatti che spesso sfuggono all’attenzione dell’opinione pubblica a causa del loro apparente buon senso. Ci riferiamo all’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, che probabilmente già domani verrà licenziato dalla competente commissione in Senato, e al trattato europeo sulle politiche fiscali, il cosiddetto “fiscal compact”, firmato dagli Stati membri il 2 marzo scorso. Ebbene, quelle norme vincoleranno le politiche degli Stati europei -e degli enti locali- per molti anni, impedendo delle politiche espansive ed imponendo una politica permanente dei tagli. In altre parole, a prescindere dalle scelte degli elettori e delle elettrici, viene imposto lo smantellamento definitivo del modello sociale europeo.
Insomma, il vuoto lasciata da un sistema politico dilaniato dalla corruzione materiale e morale e da una pesante crisi di legittimità, è stato riempito dal potere finanziario e dalle istituzioni internazionali con esso intrecciato. In un certo senso è un paradosso, poiché ad imporre oggi il loro comando sono i medesimi che in larga misura hanno provocato l’attuale crisi. Ma tant’è.
Comunque sia, siamo di fronte a un disastro politico di dimensione epocale, perché questo stato di cose significa uno svuotamento progressivo, sebbene in modo incruento, della democrazia, finanche nella sua accezione puramente liberale. La sovranità popolare è di fatto elusa, ridotta a platea che periodicamente può scegliere chi applaudire tra i tanti attori che si presentano sul palcoscenico. Ma la fonte di legittimazione e di formazione delle decisioni, vabbé, quella sta da tutt’altra parte.
E qui torniamo alla riforma del mercato del lavoro e alla manomissione dell’articolo 18. Non è una buona riforma, è una cattiva riforma, anche se ormai molti cittadini sono convinti del contrario, perché letteralmente bombardati da una propaganda bipartisan che ha imposto delle equazioni che in realtà non stanno né in cielo né in terra.
Ad esempio, nessuno ha ancora spiegato perché si dovrebbe creare nuova occupazione giovanile se si facilita il licenziamento dei cinquantenni, a meno che non si intende che il giovane apprendista, meno costoso, prenderà il posto del cinquantenne (ex) “garantito”. Oppure, non si capisce proprio dove stia la bontà per gli over 40 e 50 di una riforma degli ammortizzatori sociali che, in piena crisi, elimina la mobilità e la cassa straordinaria e la sostituisce con un’indennità di durata temporale inferiore, mentre contemporaneamente l’età pensionabile si allontana. Cioè, uno o una come cavolo fa ad arrivare alla pensione? O, ancora, non si capisce perché i giovani precari –e i precari meno giovani- dovrebbero esultare di fronte a una riforma che non abolisce affatto i tanti contratti precari e che esclude dalle nuove tutele alcune delle forme più odiose di precarietà ed abuso, come le collaborazioni a progetto o le finte partite Iva.
In altre parole, la strada da seguire sarebbe l’opposta, perché il sistema degli ammortizzatori ha sì un gran bisogno di riforma, ma nel senso di fornire una tutela a chi oggi ne è sprovvisto e di abolire le forme contrattuali precarie, il cui unico senso è quello far lavorare le persone più tempo per meno salario e senza alcun diritto. Insomma, il tanto citato dualismo del mercato del lavoro andrebbe eliminato livellando la situazione verso l’alto, estendendo l’art. 18 e le tutele, invece il Governo Monti ha scelto la strada del livellamento verso il basso. Cioè, i precari rimangano precari e quelli che non lo erano lo diventino pure loro.
Per quanto riguarda l’articolo 18, poi, vi è un ulteriore elemento che aggrava la situazione. Ma, prima di tutto, togliamo di mezzo le tante chiacchiere di queste ore che dicono più o meno così: “sì, ma in fondo la modifica è solo per i licenziamenti economici, mentre per quelli discriminatori rimarrà il reintegro e quindi di che cosa vi lamentate?”. Ci mancherebbe pure che si toccassero anche i licenziamenti discriminatori! Persino negli Stati Uniti, dove c’è ampia libertà di licenziamento, di fronte a un licenziamento discriminatorio accertato c’è un pesante intervento del giudice sull’azienda. Il problema è che è maledettamente difficile dimostrare il carattere discriminatorio (mi ha licenziato perché gay, perché ho invitato i colleghi a partecipare allo sciopero, perché ho chiesto il pagamento degli straordinari, perché non sono andata a letto con lui eccetera), perché l’onere della prova spetta comunque al lavoratore.
No, a chi vuole più libertà di licenziare interessa il licenziamento economico. Basta e avanza. Un esempio? Voglio liberarmi di un lavoratore che insiste un po’ troppo con le regole contrattuali e con le misure di sicurezza e, quindi, mi invento una riorganizzazione di qualche ufficio o reparto e lo dichiaro oggettivamente non più necessario. Se il giudice mi crede, allora me ne sono liberato a gratis, se invece ritiene che io abbia fatto un licenziamento illegittimo, allora mi fa pagare un indennizzo, ma conferma comunque il licenziamento. Insomma, un buon affare e, infatti, Il Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria, oggi non aveva dubbi e ha titolato in prima pagina: “Articolo 18, addio per tutti”.
No, la manomissione dell’articolo 18 non serve a produrre occupazione o investimenti, serve a spezzare la schiena al sindacato, anzi, all’idea stessa di organizzazione collettiva dei lavoratori per negoziare le condizioni salariali e di lavoro. Appunto, non si negozia più niente e si ristabilisce il comando, a livello aziendale e a livello generale.
Ecco perché è proprio sull’articolo 18 che non si può accettare l’ennesimo ricatto e che vanno messe in campo tutte le forme di mobilitazione democratica dei lavoratori e delle lavoratrici e dei movimenti.
Ieri la Cgil non ha accettato il ricatto e oggi ha proclamato lo sciopero generale. Pensiamo sia una buona notizia, frutto anche della mobilitazione e della giusta ostinazione della Fiom di queste settimane e di questi giorni, e auspichiamo sia l’inizio di una fase nuova e non soltanto un fuoco di paglia.
Il 31 marzo prossimo, a Milano, ci sarà la mobilitazione già convocata dall’appello “Occupyamo Piazza Affari” e sarà sicuramente un appuntamento che si farà carico anche della lotta per l’articolo 18.
Occorre però che tutti si mobilitino, dai sindacati di base, che lo stanno già facendo, ai movimenti e alle associazioni, passando per le forze politiche e gli uomini e le donne della sinistra che stanno fuori dalla Grande Coalizione, Pdl-Udc-Pd, che in ultima analisi sarà chiamata a decidere, con il proprio voto, se quella riforma diventerà realtà oppure no.
L’articolo 18 è una questione di lavoro, di diritti e di democrazia, è una questione generale ed è uno spartiacque per tutti e tutte!