Hanno ucciso l’articolo 18 e dicono che non è successo nulla. Hanno esteso la precarietà e blaterano di opportunità per i giovani. Hanno tagliato drasticamente gli ammortizzatori sociali e lo chiamano modernizzazione del welfare. Hanno fatto una “riforma del mercato del lavoro” che toglie molto a molti, ma perché suonasse meglio hanno aggiunto nel titolo “in una prospettiva di crescita”. Insomma, da oggi il ddl Fornero è legge dello Stato.
Come già successo in Senato un mese fa, anche alla Camera si è fatto ricorso al voto di fiducia, che garantisce i tempi celeri chiesti da Monti e, soprattutto, evita imbarazzanti dibattiti pubblici sul merito. E così, una legge, le cui conseguenze non verranno vissute nemmeno da uno dei 393 deputati che l’hanno votata, è stata approvata a larghissima maggioranza.
Beninteso, non c’è alcuna sorpresa in questo esito, né vi è mai stato un minimo di suspense, anzi, tutto era talmente preannunciato e scontato che oggi la notizia fatica persino a conquistarsi un posto in prima fila nell’informazione mainstream. Già, un contrasto immenso tra le grida d’allarme che avevano giustificato il provvedimento e l’ordinarietà che accompagna oggi la sua approvazione.
Tuttavia, questa disattenzione non è dovuta solo al fatto che ormai si corre di emergenza in emergenza, per cui si invocano sempre nuove e più drastiche misure, senza peraltro indicare mai uno straccio di prospettiva, ma anche -e forse soprattutto- ai troppi scheletri in troppi armadi. Ebbene sì, perché quella diffusa voglia di parlare d’altro o di minimizzare non trova giustificazione alcuna nel merito del provvedimento, che anzi rappresenta un salto di qualità nel processo di smantellamento di tutele, regole e diritti nel mondo del lavoro.
Certo, la legge è scritta in maniera contorta in diverse parti e ci sono delle incoerenze formali, ma dal punto di vista degli obiettivi che intende perseguire e dell’idea di società a cui si ispira, essa è di una chiarezza esemplare. Infatti, tre sono gli obiettivi di fondo e tutti i tre ci paiono ampiamente garantiti dal testo approvato: 1) estensione della possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro precari; 2) taglio drastico degli ammortizzatori sociali e 3) abolizione de facto del divieto di licenziamento individuale senza giusta causa, mediante la riduzione a ipotesi puramente scolastica del reintegro previsto dall’articolo 18. In altre parole, piena continuità con le misure in materia di mercato del lavoro dei precedenti governi e assoluta aderenza ai precetti dell’ideologia neoliberista, cioè una vera e propria controriforma sociale.
Un’enormità, insomma, che avrebbe meritato una sollevazione sociale e politica o almeno uno scontro aspro e serio, ma invece non è successo nulla di tutto ciò. O meglio, qualcuno si è opposto davvero, ha lottato, si è mobilitato e ha scioperato (che significa rinunciare a una parte di salario), come la Fiom ed i sindacati base, settori di movimento, giuristi del lavoro e intellettuali, partiti della sinistra, singoli lavoratori e delegati. E possiamo essere anche ragionevolmente certi che la combattiva minoranza che si è opposta fosse più in sintonia con il sentire diffuso nella società che la maggioranza di parlamentari che ha approvato la controriforma.
Ma alla fine tutto questo, ovviamente, non è stato sufficiente, non poteva esserlo. E non solo perché il Governo, la finanza, il capitale, le banche, il Fmi, la Bce, la Ue e chi più ne ha più ne metta esprimono un potere enorme, ma soprattutto perché i lavoratori e le lavoratrici, il loro punto di vista e il loro interesse, sono stati lasciati troppo soli e hanno subito una delle molte anomalie italiane. Ed eccoci agli scheletri negli armadi, alla principale forza di centrosinistra del paese, il Pd, che vota compatto la controriforma, a Cisl e Uil che non hanno fatto nemmeno finta di opporsi, alla Cgil che, nella sua maggioranza, prima ha spacciato la bufala della manifesta insussistenza come “risultato positivo” e, poi, ha revocato anche formalmente le ore di sciopero generale contro la manomissione dell’art. 18. Eccetera eccetera.
L’approvazione del ddl Fornero è una sconfitta per i lavoratori. Bisogna chiamare le cose con il loro nome. Non per autoflagellarci, per carità, ma per non partecipare al deleterio gioco del “non è successo niente, tanto non cambia nulla”, che diffonde soltanto rassegnazione, e per, invece, pensare da subito a come riconquistare quello che ci hanno tolto, a partire dal diritto di non essere licenziati se qualche volta ci permettiamo di dire “no”.
Luciano Muhlbauer