Non è abitudine di questo blog pubblicare interi articoli di quotidiani e mai ci è successo di farlo con l’Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Ma oggi lo facciamo, perché in mezzo al mare di ipocrisie e interessate cecità che già iniziano a sommergere quello che è successo domenica mattina in via Zuretti, l’editoriale in prima pagina pubblicato oggi dall’Avvenire rappresenta una scialuppa di salvataggio, un atto di intelligenza contro l’idiozia. Pensate che già ieri sera alcuni notabili del Pd hanno iniziato a fare retromarcia, allineandosi con la tesi dei “futili motivi” tanto cara al centrodestra. Ascoltate Penati: “non ho mai inteso dare una connotazione razzista a questo episodio, …è stata una spedizione punitiva ma non perché il ragazzo era di colore, ma perché aveva rubato”. Ebbene, che dire? Fate voi, tanto non è difficile!
Editoriale Avvenire, 16 settembre 2008:
ABDUL, NOSTRO FRATELLO.
IL RAZZISMO COME RABBIA OSCURA DALLE VISCERE
di Marina Corradi
Tre ragazzi che alla fine di un sabato notte portano via due pacchi di biscotti da un bar. I proprietari che li inseguono, loro che afferrano dalla spazzatura bottiglie, e una scopa per difendersi. Ma uno dei tre cade, e il barista gli è addosso. Con una spranga gli spacca il cranio e lo ammazza. Poi, lui e suo figlio se ne tornano a casa.
Sembra Bronx, ma è Milano, in un’alba in via Zuretti, una strada come tante, parallela alla massicciata dei binari che entrano alla Stazione Centrale. E chi ascolta si dice che questa storia è assurda e folle, com’è possibile ammazzare come un cane un ragazzo, per dei biscotti? Com’è possibile che a farlo, insieme, siano il genitore e suo figlio, senza che l’uno sappia – senta il dovere – di neutralizzare l’altro? Ci deve essere un’altra ragione, per spiegare cosa è successo a Milano, e dovrebbe rifletterci, chi assicura che è stato solo un tragico, esecrabile omicidio per futili motivi. L’'altra' ragione, è che quei ragazzi erano neri, e nero, benché cittadino italiano, era Abdul, 19 anni. I due baristi urlavano «Negri di m. ve la diamo noi una lezione», e li han sentiti in molti, tra quanti, svegliati dal baccano, si sono affacciati alle finestre. Se a insinuarsi nel bar fossero stati tre ragazzi bianchi, come sarebbe andata? Due insulti, uno spintone, e poi quel «va’ a lavurà» brusco, ma non maligno, che si gridava a chi pretendeva qualcosa senza guadagnarselo, una volta, a Milano.
Già, c’era una volta Milano. Omicidi e rapine, sempre stati, ma inseguire con una spranga un ragazzo per dei biscotti, sfasciargli la faccia e andarsene lasciandolo moribondo, no, questa non è mai stata cronaca abituale, a Milano. È una storia impazzita questa di via Zuretti, a meno che non si prenda sul serio quel «sporchi negri, vi insegniamo noi» urlato da due uomini – padre e figlio – stravolti. Che giurano, ora, di non essere razzisti. Però, la moglie e madre dei due, da dietro il banco, ammette, riferiscono le cronache: «Sì, io sono razzista. Lo sono diventata, vedendo quello che succede nel quartiere». Dove, per carità, trovandoci dietro la Stazione Centrale di sera si cammina in fretta e inquieti, che pare d’essere, dopo anni di incuria, nelle retrovie di un porto, in un approdo di ogni fuga e miseria e espediente. Ma proprio per questa paura dello straniero che si respira qui e altrove, occorre avere il coraggio di dire che il razzismo, con la fine di Abdul Guiebre, c’entra. Non lo hanno ucciso per due pacchi di biscotti. La ferocia è scoppiata alla vista di un branco di ragazzi neri che acciuffavano, come padroni, qualcosa dal banco. Una rabbia oscura allora dalle viscere è risalita, veloce come il sangue, alla testa dei due italiani, in un corto circuito esplosivo: e una mano ha afferrato una spranga, ed è partita la caccia. Non era con 'quel' nero che ce l’avevano, non solo. In un istante, in un’alba di asfalto tra i semafori lampeggianti, un rigurgito di ferocia tribale, una faida da foresta, come ne scoppiano fra tribù primitive quando il proprio territorio è minacciato, o invaso. E allora giù colpi su Abdul, 19 anni, da Cernusco sul Naviglio, Abdul che in camera teneva il poster del milanista Ronaldinho.
Non c’entra il razzismo, ripetono in molti ora, e preoccupa questo non voler vedere quale ombra si va insinuando fra noi. Dal palco del raduno della Lega, a Venezia, proprio domenica il prosindaco di Treviso ha gridato: «Che gli immigrati vadano a pregare e p. nel deserto». E certo ha parlato l’anima più becera del partito: ma ci sarebbe piaciuto che qualcuno, dello staff leghista, se ne fosse dissociato. No, non è stato razzismo a Milano, dicono in molti, è stato un furto: due biscotti e una sconsiderata reazione. Sfortunato ragazzo, ha scelto il bar sbagliato. Quanta ansia di rassicurarsi che non è successo niente. Di non voler vedere il segnale di un livido incanaglimento in una città che, una volta, per due pacchi di biscotti, benevola avrebbe borbottato: ragazzo, va a lavurà.