Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 15 febbr. 2008
Quello che maggiormente colpisce nell’attuale confronto e dibattito nella sinistra, compreso nel nostro partito, è l’evidente impreparazione di fronte alla situazione. Certo, i tempi esatti e le modalità concrete non sono mai prevedibili, ma le tendenze di fondo che si esplicitano nell’odierna accelerazione erano e sono conosciute.
Eppure, di fronte all’annuncio veltroniano che il PD avrebbe corso da solo e che nella prossima legislatura intende concordare con Berlusconi le riforme elettorali e istituzionali, il disorientamento in ampie parti dei gruppi dirigenti delle sinistre era palese. Le dichiarazioni in stile “per favore non lasciarci”, salvo poi reagire da fidanzato respinto e offeso, erano paradigmatiche.
Tuttavia, qui il punto non è sparare sul quartier generale e neppure disquisire se in astratto era preferibile avere un centrosinistra unito per contrastare l’ascesa delle destre, bensì essere consapevoli del fatto che oggi prendono corpo politico e culturale quelle tendenze epocali che affondano le loro radici nelle sconfitte del movimento operaio dei decenni passati e nelle trasformazioni strutturali e sociali dell’epoca neoliberista. Insomma, i nodi vengono al pettine e con essi l’irrisolta questione della crisi della sinistra.
L’ex sinistra moderata, in realtà, una risposta al problema la sta dando, dichiarando storicamente superata l’ipotesi stessa di un progetto alternativo di società e impegnandosi in una prospettiva di ridisegno in chiave “americana” del sistema politico e istituzionale. Un progetto di medio periodo, che spiega perché nella presente campagna elettorale l’obiettivo primario del PD non sia la competizione con le destre per il governo, bensì l’eliminazione o la marginalizzazione –che sono poi quasi la stessa cosa- della sinistra. In fondo, anche le svolte filo-securitarie del 2007 e la lucida ostinazione nel disapplicare i punti qualificanti del programma di governo dell’Unione, con il conseguente logoramento delle sinistre, raccontavano già la medesima storia.
Ebbene, il progetto del PD non è campato per aria e non è privo di efficacia politica e fascino elettorale. Sottovalutarlo o pensare che sia sufficiente denunciarne ad altra voce la natura regressiva, sarebbe un errore madornale. No, dobbiamo urgentemente fare i conti con noi stessi, con i nostri ritardi e le nostre involuzioni, perché mentre il PD una strategia e un progetto ce li ha, noi non abbiamo più né l’una né l’altro.
E forse dovremmo partire proprio da una piccola operazione verità, cioè iniziare finalmente a chiamare le cose con il loro nome. In questo senso, non servono reticenze rispetto all’esperienza di governo e alla nostra linea politica di allora. Servono invece chiarezza e capacità autocritica. E questa non è certo una richiesta di qualcuno che ai tempi del congresso di Venezia era in disaccordo con l’impianto strategico maggioritario, ma piuttosto un’impellente necessità rispetto ai nostri tanti militanti ed elettori delusi e demotivati. Oggi, il problema principale di Rifondazione e di tutta la sinistra è quello di riuscire a riconquistare la credibilità perduta. E parlare chiaro e rimettere in sintonia le parole con i fatti è un punto di partenza obbligato.
La stessa chiarezza ci vuole anche per il futuro. Cioè, la scelta dell’autonomia della sinistra non può essere una mossa tattica o una furbizia elettoralistica, magari nell’illusione che, passata la bufera, tutto tornerà come prima. Sarebbe un po’ come vincolare l’esistenza della sinistra alla benevolenza del PD. In altre parole, sarebbe semplicemente un altro modo per suicidarsi.
Ecco perché il nuovo soggetto della sinistra non dovrà essere né un semplice assemblaggio dell’esistente, né una mera creatura dei vertici politico-istituzionali. Seppure nel quadro imposto dalle incombenti elezioni, occorre lavorare sin d’ora nella giusta direzione, nella consapevolezza che si tratta di un processo che deve proiettarsi verso l’avvenire.
Una nuova soggettività della sinistra, degna di questo nome, potrà avere linfa vitale, cioè consenso e partecipazione popolare, soltanto nella misura in cui segna delle discontinuità. Essa dovrà essere, nelle parole e nella pratica, un fatto nuovo, aperto ai movimenti sociali e alle giovani generazioni, e, soprattutto, spostare il baricentro politico dalle istituzioni alla società, immergendosi nelle condizioni di vita reali dei lavoratori e dei ceti popolari e sperimentandosi al calore dei conflitti sociali.
Questa ci pare sia la vera posta in gioco per cui vale la pena investire ancora energie, dibattere e anche scontrarsi nelle riunioni politiche. Ed è per questo che non riesco ad appassionarmi fino in fondo al nostro dibattito sul simbolo, che, beninteso, è di enorme importanza e dignità, ma che rischia, così com’è, di non centrare il bersaglio. Ovvero, oggi il problema non è tanto il simbolo, quanto invece la sostanza politica e sociale che esso pretende rappresentare.
Nessun commento trovato.