Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 3 aprile 2007 (pag. Milano)
L’iniziativa sulle politiche securitarie, le nuove destre e la xenofobia, promossa sabato scorso alla Stecca degli Artigiani dai Giovani Comunisti lombardi, appariva quasi come un tentativo di articolare una risposta alla sfilata morattiana “per la sicurezza” e alle troppe subalternità delle opposizioni cittadine. E in un certo senso lo era effettivamente, vista la vicinanza temporale, anche se in realtà l’idea era nata molto prima e prendeva le mosse da ben altro, cioè da quanto accaduto a Como un anno fa.
Era il 29 marzo del 2006, quando il diciottenne Rumesh Rajgama Achrige, comasco di origine cingalese, fu raggiunto alla testa da un colpo di arma da fuoco, esploso da distanza ravvicinata da un agente del “nucleo di sicurezza” della Polizia Locale. Rumesh ha miracolosamente sconfitto la morte, ma la sua vita sarà segnata da lesioni permanenti. L’autore dell’”incidente” è tuttora in servizio, seppure con mansioni d’ufficio, mentre il nucleo “di sicurezza” ha subito un semplice maquillage, chiamandosi ora “investigativo”.
E così alla Stecca si è discusso a partire da questo fatto e insieme ai familiari di Carlo Giuliani, Federico Aldovrandi e Dax. Una maniera diversa, ma indubbiamente più realistica e proficua, per affrontare il tema sicurezza. Infatti, come ormai tutti dovrebbero sapere, almeno a sinistra, a Milano non c’è un’emergenza criminalità, essendo il numero di reati stabile o in diminuzione, e sicuramente non mancano le forze di polizia. Anzi, dalle nostre parti, così come sul piano nazionale, vi è il più alto rapporto tra numero di addetti alla pubblica sicurezza e abitanti di tutta l’Unione Europea. Facendo poi la somma tra i funzionari delle varie forze di polizia, della polizia locale, di quella penitenziaria e della agenzie private di sicurezza arriviamo alla esorbitante cifra di 480mila unità in Italia.
E allora, da dove nasce questa benedetta “percezione di insicurezza”, giocata tutta sul piano dell’ordine pubblico e della repressione? Una domanda cruciale, a cui rispondere necessariamente, se non vogliamo essere destinati a rincorrere per un tempo indefinito la demagogia da “tolleranza zero”. A noi pare che si possano individuare almeno due componenti fondamentali, una oggettiva e l’altra indotta.
Ovvero, sulla base materiale costituita dalla diffusione massiccia dell’insicurezza, dell’atomizzazione e della precarietà sociale, come conseguenza della prolungata egemonia delle politiche liberiste e dell’accentuazione delle disuguaglianze, viene innestato un discorso politico che convoglia i disagi e le paure verso il tema dell’ordine pubblico. E qui il parallelismo con la crescita dei fenomeni xenofobi salta agli occhi, poiché chi governa lo smantellamento dello stato sociale e dell’universalità dei diritti è il medesimo che indica incessantemente nel migrante il responsabile dei bisogni non soddisfatti del cittadino autoctono.
È quindi indubbio che la critica del securitarismo necessita della critica del modello di società esistente, cioè della ricostruzione di un’idea –e di una pratica- alternativa di città e di società. Ma occorre altresì trovare l’intelligenza e il coraggio per contrastare l’effetto collaterale dell’egemonia del discorso securitario, cioè la legittimazione sociale e politica di quelle tendenze all’abuso della forza e alle pratiche devianti presenti nelle forze dell’ordine. E forse, partire dalla questione della militarizzazione dell’ex-vigilanza urbana, incentivata dalla legge regionale n.4/2003, uscendo finalmente dall’assordante silenzio bipartisan, può essere il punto di partenza.
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