E dopo l’Epifania, che tutte le feste le porta via, ricominciamo da dove abbiamo lasciato. Anzi, riprendiamo un po’ peggio, perché qualcuno, cioè Marchionne & C., non si è fermato nemmeno durante le feste, utilizzando le vigilie di natale e capodanno per proseguire sulla strada tracciata sin dal referendum-ricatto di Pomigliano e per firmare nel giro di una sola settimana gli accordi di Mirafiori (23 dicembre) e di Pomigliano (29 dicembre).
Voglio qui evitarci l’analisi dettagliata dei due contratti, perché in questi giorni se ne riescono a recuperare a volontà sulla stampa o nella rete, ma soprattutto perché è utile concentrarci su alcune considerazioni.
Primo, vi è una differenza, un salto di qualità tra l’accordo separato di Pomigliano del giugno scorso e i due accordi separati firmati ora. Quello di sei mesi fa contava poco più di 20 pagine e nella sua forma non si configurava come un contratto di lavoro, mentre gli accordi attuali, ben più corposi e dettagliati, si configurano invece come contratti di lavoro a tutti gli effetti, con l’aggravante che non derogano più al contratto nazionale, ma molto più banalmente lo disapplicano, lo sostituiscono e lo cancellano.
Secondo, per quanto riguarda gli effetti sulle condizioni di lavoro per gli operai e le operaie, sostanzialmente si conferma quanto già contenuto nell’accordo di Pomigliano di sei mesi fa, cioè ritmi intensificati, pause ancora più ridotte, aumento dell’orario di lavoro e dello straordinario obbligatorio, assenze per malattie non necessariamente retribuite ecc.
Terzo, in relazione ai diritti sindacali e democratici dei lavoratori, invece, si registra un’ulteriore e gravissima stretta, già presente allo stato embrionale nell’accordo di giugno, ma ora esplicitata e formalizzata, sia per Pomigliano, che per Mirafiori. Infatti, oltre a confermare l’incredibile principio che un lavoratore che sciopera può essere sanzionato, si è aggiunta addirittura l’abolizione tout court delle elezioni dei rappresentanti sindacali e l’espulsione dall’azienda di quei sindacati (leggi: Fiom e sindacati di base) che non firmano il contratto di Marchionne.
In altre parole, secondo quei due accordi (vedi accordo Mirafiori e accordo Pomigliano), gli operai non potranno più scegliere i loro “rappresentanti” mediante il voto, ma questi verranno nominati dalle organizzazioni sindacali scelti da Marchionne. Insomma, democrazia abolita e sindacato trasformato in guardiano del padrone. Né più, né meno.
Quarto, il fatto che siamo passati nel giro di soli sei mesi da Pomigliano a Mirafiori, cuore anche simbolico della Fiat in Italia, e che in questi giorni si sia scatenata una campagna mediatica e d’opinione senza precedenti a favore dell’approccio Marchionne-Bonanni-Governo, dimostra definitivamente che Pomigliano non era un’eccezione alla regola, ma l’inizio dell’assalto alle regole stesse. In Fiat, nelle relazioni sindacali di tutto il paese e nella legislazione del lavoro.
Beninteso, lo ribadiamo ancora una volta, non si tratta di un complotto, bensì di una convergenza di interessi, diversi tra di loro, attorno un obiettivo ritenuto capace di scardinare l’insieme di quel sistema di diritti e regole conquistato dai lavoratori nel passato recente.
Ebbene, stando così le cose, appaiono ancora più gravi i balbettii, se non le posizioni apertamente favorevoli ai progetti di Marchionne & C., che si registrano in diversi e non indifferenti settori dell’opposizione, a partire dal Pd e nella stessa Cgil.
Il 13 e il 14 gennaio prossimi gli operai e le operaie di Mirafiori voteranno nel referendum-ricatto imposto da Marchionne, il quale ha già fatto sapere che o votano come vuole lui oppure chiude la fabbrica. E, ovviamente, in omaggio allo spirito dell’accordo sottoposto a referendum, i lavoratori appena rientrati dall’ennesimo periodo di cassa integrazione non potranno fare neanche mezza assemblea prima del voto, giusto per informarsi e discutere con i colleghi. No, niente assemblee in fabbrica, sono cose inutili. Così hanno deciso Fim, Uilm e Fismic di comune accordo con la Fiat.
Insomma, un referendum che assomiglia maledettamente a una pistola puntata alla tempia e che non potrà certo essere nobilitato da “firme tecniche” ex post, come aveva chiesto Susanna Camusso.
Da parte mia, ritengo che attorno alla battaglia della Fiom, che è appunto questione generale, debba svilupparsi il massimo di convergenza di interessi nostra, cioè di quei movimenti e quelle forze sindacali e politiche che ritengono che l’uscita dalla crisi non stia nella svendita dei diritti e delle libertà di chi lavora.
E questo significa, anzitutto, mobilitarsi subito, non lasciare da soli gli operai e le operaie che non si vogliono far imbavagliare e, molto concretamente, lavorare sin da subito per la piena riuscita della giornata di mobilitazione del 28 gennaio prossimo, giorno per il quale la Fiom ha proclamato lo sciopero generale di otto ore dei metalmeccanici.
Ci saranno manifestazioni regionali in tutta Italia il 28 (in Lombardia a Milano) e c’è anche l’appello rivolto dalla Fiom a tutto lo schieramento del 16 ottobre scorso di esserci. I primi riscontri positivi ci sono già (sindacalismo di base, Uniti contro la crisi, appelli vari ecc.), ma il tempo è poco e l’avversario è potente.
Quindi, molto semplicemente, non stiamo a guardare e diamoci una mossa.