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LA FIOM SIAMO TUTTI/E NOI
LA FIOM SIAMO TUTTI/E NOI
di lucmu (del 07/03/2012, in Lavoro, linkato 2724 volte)
blog Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua.eu il 7 marzo 2012
 
Lo sciopero generale proclamato dalla Fiom il 9 marzo prossimo non riguarda soltanto la Fiom. E nemmeno i soli metalmeccanici o gli operai in generale. No, riguarda l’insieme del mondo del lavoro, così come oggi concretamente esiste, e riguarda la condizione presente e futura della nostra democrazia.
Da alcuni anni, ormai, la Fiom si trova nell’occhio del ciclone. Sulla sua pelle e su quella dei lavoratori metalmeccanici si gioca una partita dura e pesante, che va ben al di là delle sorti di qualche transnazionale dell’automobile o della stessa industria manifatturiera italiana. È una partita che individua nei metalmeccanici e nella Fiom l’anello forte da spezzare, anche simbolicamente. Insomma, un po’ come ai tempi fece la Thatcher con i minatori, la cui sconfitta spalancò le porte al dilagare delle politiche neoliberiste.
Pomigliano, giugno 2010. Vi ricordate? Dicevano che era un’eccezione, perché la fabbrica era proprio vecchia e perché gli operai campani erano un po’ strani e molto assenteisti, e che dunque occorrevano misure eccezionali, che furono poi scritte in un contratto eccezionale. In seguito, dopo aver ottenuto il via libera con un referendum, dove gli operai potevano democraticamente scegliere se accettare le regole eccezionali o finire disoccupati in una terra dove il lavoro è merce rara, l’eccezione si generalizzò fino a far diventare eccezionale il contratto nazionale.
Infatti, dopo Pomigliano arrivò Mirafiori, poi tutto il gruppo Fiat e il settore automotive eccetera. Ovviamente, dopo Mirafiori, di referendum, seppure con la pistola puntata alla tempia, non se ne sono più visti. In cambio, il governo Berlusconi-Lega si è inventato il famigerato articolo 8 della legge n. 148/2011, che non si limitava a legittimare ex post le eccezioni di Marchionne, ma operava un nuovo salto di qualità, di carattere generale: cioè, i contratti aziendali avrebbero potuto derogare non soltanto ai contratti nazionali, ma anche alle norme di legge, compreso l’articolo 18 e altri dello Statuto dei Lavoratori.
Berlusconi non c’è più, ma l’articolo 8 non solo è vivo e vegeto, ma il governo Monti sembra ormai puntare dritto al cuore delle vicenda, con la “riforma del mercato del lavoro”. Peraltro “ce lo chiede anche l’Europa” di togliere di mezzo l’articolo 18 e di valorizzare i contratti aziendali e/o individuali a scapito del contratto nazionale.
Ma perché ce l’hanno tanto con questo articolo 18? In fondo, vieta semplicemente i licenziamenti discriminatori, ma per tutto il resto, come purtroppo ci ricordano i tragici numeri della crisi e della recessione, i licenziamenti vengono fatti a getto continuo. E poi, l’articolo 18, che ha valenza effettiva e dissuasiva soltanto in presenza di un contratto a tempo indeterminato e di un’azienda con più di 15 dipendenti, è già di fatto disapplicato per una fetta molto ampia del mondo del lavoro. Cioè, per tutte le tipologie di lavoro precario e per tutte le piccole aziende, per non parlare del sommerso, ovviamente.
La risposta alla domanda non la troviamo di certo in quell’irritante ritornello che dice che l’art. 18 impedirebbe l’assunzione dei giovani, perché se dovessimo prenderlo sul serio, dovremmo concludere che si pensa di licenziare gli over 40 e 50, per assumere al loro posto dei ventenni. No, la risposta giusta la troviamo nelle dichiarazioni rese di continuo da coloro che appartengono al mondo che conta davvero, nel senso che decide le politiche che vengono effettivamente attuate.
Ne scegliamo alcune a caso. La prima appartiene a Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, che in una recente intervista ha affermato a chiare lettere di ritenere finito e superato il modello sociale europeo. La seconda è del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in uno dei suoi interventi più programmatici ha motivato la centralità della riforma del mercato del lavoro con la necessità di reggere la competizione internazionale con le economie emergenti. L’ultima, invece, è del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che proprio oggi ha dichiarato che in Italia bisogna “lavorare di più, in più e più a lungo”.
Insomma, il futuro modello sociale che si immagina per l’Italia e per l’Europa è molto cinese o serbo o tunisino o quello che volete voi. Comunque sia, la posta in gioco è la riduzione della massa salariale, diretta e indiretta e differita. Cioè, si aumenta l’età pensionabile (allungando la vita lavorativa), si allunga l’orario di lavoro medio e si intensificano i ritmi di lavoro. E tutto questo, ovviamente, a parità di salario o addirittura diminuendo gli stipendi.
Questi obiettivi hanno un presupposto necessario, cioè la disarticolazione del potere negoziale dei lavoratori, che altrimenti difficilmente accetterebbero senza colpo ferire un forte peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita. A questo serve lo smantellamento dei diritti e delle tutele, così come la manomissione dell’articolo 18, che in realtà non può far altro che arginare, laddove può, l’assoluto arbitrio padronale.
Ma, per essere più concreti, torniamo a Pomigliano, 20 mesi dopo quel referendum. Nel frattempo la fabbrica è stata ristrutturata e anche la proprietà è nominalmente cambiata. Cioè, è sempre roba della Fiat e di Marchionne, ma gli operai erano stati messi tutti in cassa e ora, che riprende la produzione, devono essere riassunti dalla newco per poter rientrare nella fabbrica dove già lavoravano. Ebbene, dei 5mila operai per ora ne sono stati riassunti 2mila e nessuno di loro è un tesserato Fiom! Cioè, se sei della Fiom non puoi lavorare.
Peraltro, a partire dal 1° gennaio, in tutto il gruppo Fiat è stata tolta l’agibilità sindacale alla Fiom. Le Rsu, elette dai lavoratori, sono state abolite ed esistono soltanto “delegati” nominati dalle sigle che sono d’accordo con Marchionne. In altre parole, nel gruppo Fiat la Fiom è stata messa in clandestinità e gli operai sono stati privati dei più elementari diritti e libertà sindacali, peraltro costituzionalmente tutelati.
E qui la questione del modello sociale e quella della democrazia si incontrano di nuovo. Infatti è impossibile che un modello sociale regressivo, dove le differenziazioni sociali si estremizzano, una parte crescente della società viene esclusa e il welfare si scioglie come neve al sole, possa reggere un tasso significativo di democrazia e partecipazione. Anzi, Pomigliano docet.
Ecco perché non dare il giusto peso alla battaglia della Fiom e magari girare la testa da un’altra parte, perché non si è della Fiom o non si è metalmeccanici, è un grave errore. Ed ecco perché è un pessimo e preoccupante segnale politico che alcuni esponenti di primo piano del Pd abbiano rinunciato alla loro presenza al corteo del 9 marzo, con il pretesto, davvero inconsistente, che dal palco interverrà il Presidente della Comunità Montana della Valle Susa, Sandro Plano, peraltro iscritto al Pd.
Oggi la Fiom, lottando per i diritti dei metalmeccanici e per quelli, più che legittimi, della propria organizzazione, sta conducendo una battaglia dalla valenza generale per un modello sociale equo e giusto e per la democrazia, in un paese che tende ad oscillare pericolosamente tra gli scatti d’ira e il consenso rassegnato ai governi cosiddetti tecnici.
Insomma, la Fiom, piaccia o non piaccia, siamo tutti e tutte noi. Ne dovremmo prendere semplicemente atto ed agire di conseguenza, a partire dal 9 marzo.
 
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