Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul n. 14 del settimanale on line Ombre Rosse
C’era un tempo in cui Milano veniva chiamata capitale morale e la Lombardia si considerava geneticamente estranea a fenomeni come la mafia o la ‘ndrangheta. E quando si verificavano fatti eclatanti di corruzione politica o di crimine organizzato, allora, così si diceva, si trattava di eccezioni che confermavano la regola o di semplici prodotti di importazione, perché mica siamo a Roma o nel Meridione. La Lega, ai suoi tempi d’oro, ne aveva fatto uno dei suoi principali brand e, senza ombra di dubbio, aveva colto un diffuso sentire comune.
La convinzione che certe cose non potessero accadere da queste parti è sopravvissuta fino ad oggi, sebbene in maniera ormai un po’ traballante. Ancora poco più di due anni fa, il Prefetto di Milano, tuttora in carica, aveva affermato che in Lombardia c’erano sì delle famiglie mafiose, ma che la mafia non esisteva.
Parole inquietanti in sé, visto che richiamano alla mente affermazioni analoghe di un passato non troppo lontano, ma poi smentite totalmente anche dai fatti alcuni mesi più tardi: nel luglio 2010 i magistrati antimafia di Reggio Calabria e Milano fecero scattare l’operazione Infinito, che evidenziò che la ‘ndrangheta era ormai una presenza capillare, radicata e diffusa, che poteva contare su un sistema di complicità che coinvolgeva settori dell’imprenditoria locale, della pubblica amministrazione e della politica. Non a caso, i magistrati milanesi sono stati severi con gli imprenditori coinvolti, poiché consideravano la loro mancanza di collaborazione non come il frutto della paura, bensì della convenienza.
Dall’operazione Infinto in poi qualcosa ha iniziato a cambiare, anche se tantissima strada rimane ancora da fare. Peraltro, era ormai diventato difficile non vedere una realtà sempre più straripante. E non ci riferiamo tanto al traffico di stupefacenti, di cui Milano è da tempo una delle principali piazze europee, quanto al fatto che ad Infinito sono seguite altre operazioni, che diversi importanti giornali hanno iniziato a fare inchieste e a pubblicare persino mappe della presenza mafiosa o che i primi appalti assegnati per Expo 2015 sono stati bloccati dalla magistratura causa infiltrazioni mafiose.
E poi c’è la questione degli incendi dolosi, che sono diventati troppi anche per un’area metropolitana come quella milanese, che ne ha viste tante. Locali, parchi, centri sportivi e strutture pubbliche hanno iniziato a prendere fuoco con troppa facilità. Una vera e propria inflazione di incendi, che a volte rappresentano degli inequivocabili messaggi pubblici di intimidazione, come nel caso dell’incendio del furgoncino di Loreno Tetti, l’unico ambulante a denunciare il “racket dei paninari” a Milano.
Ma se nel caso del crimine organizzato un certo ritardo nell’aprire gli occhi può essere persino comprensibile –ci riferiamo al singolo cittadino, beninteso, non certo alle istituzioni-, altrettanto non si può dire per quanto riguarda la corruzione politica. Già, perché la capitale morale è morta tanto tempo fa e Tangentopoli ebbe il suo epicentro proprio a Milano. Eppure, l’ondata berlusconiana e leghista, la solidità e la forza di sistemi di potere locali, che poi sono anche sistemi di produzione di consenso e complicità ben oltre i propri confini politici, come quello ciellino di Formigoni, unite alla prolungata debolezza politica e subalternità culturale delle opposizioni, hanno fatto sì che la maggioranza dei cittadini non volesse vedere, capire ed agire.
Ancora oggi, Formigoni e la Lega blaterano di “eccellenze” lombarde e sostengono che la Lombardia non è paragonabile al Lazio, che è tutta un’altra storia. Certo, Er Batman e certi toga party sono difficili da battere, ma al netto di questi eccessi di squallore, la situazione in Lombardia è forse anche più grave.
Il punto non è quanti siano gli inquisiti in Consiglio regionale, il cui numero è comunque è da primato nazionale, o che 4 componenti su 5 dell’Ufficio di Presidenza originario siano stati sostituiti a causa dei loro guai giudiziari (Penati del Pd, Boni della Lega, Ponzoni e Nicoli Cristiani del Pdl). E non si tratta nemmeno del trota di turno o della maîtresse diventata consigliera regionale, grazie al listino del presidente Formigoni (peraltro presentato con le firme false).
No, la questione è che il malaffare e la corruzione in Regione Lombardia si sono fatti sistema, sono strutturali. Già, perché c’è ad esempio il piccolo particolare che gran parte dei consiglieri regionali indagati, processati o incarcerati sono tutti ex assessori formigoniani, inquisiti per fatti commessi quando facevano gli assessori. Oppure, c’è la madre di tutte le questioni, cioè la sanità, che è poi il vero e proprio core business delle Regioni.
Ebbene, Formigoni stesso è indagato per corruzione per lo scandalo Maugeri e sarà ovviamente il processo a stabilire eventuali responsabilità. Tuttavia, ci sono dei fatti che parlano da soli. Primo, il trattamento di favore ricevuto nell’assegnazione dei fondi regionali da parte delle fondazioni private del San Raffaele e della Maugeri è innegabile. Secondo, il “faccendiere” che sta al centro di questi scandali, cioè Daccò, non solo faceva il lobbista per questi ospedali ed era definito un “amico” da Formigoni, ma soprattutto pagava ripetutamente le vacanze di lusso al Presidente lombardo. Terzo, il 3 ottobre scorso Daccò è stato condannato a 10 anni di reclusione per il crac del San Raffaele, cioè al doppio della pena chiesta dai Pm.
Infine, quando corruzione politica e crimine organizzato dilagano accade quasi sempre che si incontrino. E sta succedendo anche in Lombardia, come dimostrano alcuni segnali molto preoccupanti. E basti qui ricordare soltanto alcuni esisti dell’operazione Infinito: il Comune di Desio (MB), a guida centrodestra, è caduto due anni fa a causa del coinvolgimento nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta di alcuni esponenti del Pdl locale e delle conseguenti dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali; l’ex assessore di Formigoni, il brianzolo Ponzoni, sebbene finito in carcere solo per corruzione, risultava negli atti dell’inchiesta come “capitale sociale” della ‘ndrangheta.
A Milano e in Lombardia non siamo poi tanto diversi ed è bene prenderne atto fino in fondo. Ma soprattutto occorre agire in tempi stretti, perché forse qui siamo ancora in tempo per evitare il peggio, ma soltanto a condizione che si ponga fine al più presto ai vecchi e marci sistemi di poteri e che si costruisca davvero una prospettiva alternativa sul piano politico, sociale e culturale.