Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Guerre&Pace di marzo 2006
Nella sua sesta edizione il Forum sociale mondiale si è fatto policentrico. Non più un luogo unico a livello mondiale dunque, ma tre forum in paesi di tre diversi continenti: Bamako in Mali (19-23 gennaio), Caracas in Venezuela (24-29 gennaio) e Karachi in Pakistan (presumibilmente a marzo). Ci sarà tempo per fare un bilancio complessivo, ma sicuramente vi era la necessità di innovare un format che rischiava di essere un po’ ripetitivo e che ormai faticava a mettersi in sintonia con l’estensione geografica del processo. I maliziosi potrebbero poi aggiungere che forse taluni erano interessati a diluire il prevedibile impatto politico di un forum troppo di sinistra, come quello di Caracas.
Comunque sia, e mettendo in questa sede da parte considerazioni politiche più generali sul processo dei forum, l’appuntamento di Bamako si annunciava senz’altro come quello più innovativo e meno scontato, poiché si trattava di una autentica prima volta. Infatti, due anni fa, con il Fsm di Mumbai, il processo valicò i confini euro-latinoamericani per aprirsi ai movimenti asiatici, anzitutto a quelli indiani, ma l’Africa continuava fino ad oggi a rimanere ai margini estremi. Un problema di non poco conto, poiché questo significava in qualche modo emulare da sinistra e dal basso un’esclusione già decretata dal mercato mondiale liberista e dai potenti della politica globale. E un problema, peraltro, di non facile risoluzione, visto che i forum funzionano e acquisiscono senso politico laddove c’è protagonismo di movimenti sociali, mentre il continente africano è in larga parte caratterizzato dalla debolezza delle sue società civili o meglio, delle sue espressioni organizzate.
La decisione di tenere il Fsm del 2007, di nuovo unificato, nella capitale keniota, Nairobi, è stata pertanto coraggiosa e lungimirante. E in questo senso il forum di Bamako assumeva la funzione di apripista. Per tutti questi motivi si trattava di un vero e proprio forum di frontiera, difficilmente paragonabile agli appuntamenti portoalegrini. Difatti, non vi erano grandi palchi e grandi eventi politici, ma piuttosto la meno spettacolare costruzione di relazioni negli interstizi. Non vi si trovava tanto la prosecuzione –o la replica…- di dibattiti già conosciuti, ma piuttosto l’apertura di nuovi fronti politici, come quello delle migrazioni, finora rimasti poco più che enunciazioni nei vari forum sociali mondiali.
Questa diversità del forum di Bamako lo ha reso politicamente prezioso, ma al contempo gli ha negato la luce dei riflettori. I grandi media lo hanno sostanzialmente ignorato e anche la presenza della stampa italiana si è limitata ai soliti noti, cioè a Liberazione, il Manifesto e Carta. Gli stessi movimenti europei hanno in parte sottovalutato l’appuntamento, a giudicare dalle presenze e dalle assenze. Se escludiamo la delegazione francese, presente in maniera plurale e con oltre mille persone, in virtù dell’appartenenza del Mali al mondo francofono, il resto dell’Europa non ha brillato particolarmente per quantità e pluralità. Dall’Italia vi era una partecipazione forse superiore alle aspettative, quasi cento delegati, ma molte organizzazioni e movimenti erano del tutto assenti.
Non è facile raccontare il forum di Bamako nel suo insieme. Anzitutto per un fatto materiale, cioè a causa della sua dispersione in dieci distinti spazi tematici; conseguenza non tanto di scelte politiche, ma dell’effetto combinato della scarsità delle infrastrutture cittadine e dei mezzi finanziari degli organizzatori. Una frammentazione dei luoghi di discussione, ulteriormente accentuata dalle difficoltà di trasporto nella capitale maliana, che ha finito per limitare non poco la mobilità, la comunicazione e la contaminazione all’interno del territoire social mondial. Esclusa la manifestazione di apertura, a cui hanno partecipato 7mila persone, vi è stata dunque poca possibilità di incontro tra i circa 30mila partecipanti.
Una seconda difficoltà di orientamento -per la grande maggioranza degli europei, si intende- era rappresentata dall’intelaiatura sociale e politica del forum. In America Latina, Europa e India eravamo infatti abituati a confrontarci anzitutto con movimenti sociali, organizzazioni sindacali e, anche se ufficialmente non doveva essere così, con forze politiche. Se fossimo stati in Sudafrica, sarebbe stato uguale, ma appunto, il resto dell’Africa è in gran parte un’altra cosa e lo sicuramente il Mali, paese di quella fascia sub-sahariana a cui il capitalismo liberista concede unicamente lo sviluppo della povertà.
Tutto ciò ha comportato il co-protagonismo di altri soggetti, come le Ong o delle personalità che di fatto svolgono un ruolo da “referente” socio-politico, come era il caso dell’ex-Ministra della Cultura maliana, Aminata Traoré. Da sottolineare in particolare il ruolo svolto dalle organizzazioni femminili, decisamente superiore rispetto a quanto avvenuto negli altri forum. Non solo i seminari organizzati dalle donne erano sempre affollati e partecipati, ma vi era una presenza protagonista un po’ ovunque. Forse l’immagine più fedele l’ha fornita la composizione di una riunione di sindacati africani: la platea era affollata da maschi, ma al tavolo della presidenza quattro su sei erano donne.
Beninteso, non è che mancassero movimenti sociali e sindacati –e nemmeno forze politiche-, ma nel loro insieme non svolgevano il tradizionale ruolo determinante. Allo stesso tempo, quella composizione del forum testimonia l’esistenza di soggetti organizzati delle società civili africane, con i quali è possibile avviare un percorso di costruzione di relazioni, riflessioni e azioni.
A questo punto ci preme però sottolineare due assi politici che hanno attraversato tutto il forum e che rappresentano in realtà i due nodi strategici per il futuro del processo in Africa. La relazione tra africani e quella tra africani e europei.
Il primo asse ha visto delle discussioni intense in diversi seminari e ha toccato due ordini di problemi, tra di loro strettamente intrecciati. Ovvero, la necessità di avviare la costruzione di una rete di soggetti africani capaci di sostenere il percorso verso Nairobi 2007 e l’idea che da quella rete debba nascere una Carta dell’unità e del futuro africani.
Discussione complessa e ambiziosa, il cui punto di partenza è costituito dalla domanda “cos’è che unisce noi africani?”. Infatti, al di là degli stanchi stereotipi che spesso si aggirano dalle nostre parti, non vi è nel continente la percezione di un’identità africana, ma piuttosto quella delle differenze. C’è l’Africa occidentale, quella orientale, quella del sud e quella del nord. C’è quella francofona e quella anglofona, vi sono religioni, culture, lingue e condizioni economiche distinte e distanti, per limitarci soltanto alle macro-differenze. Insomma, difficile trovare un cittadino del Marocco e uno del Burkina Faso che pensano di appartenere allo stesso mondo.
Il problema ha dunque natura squisitamente politica, cioè la definizione dell’unità dei popoli africani nel rispetto delle diversità e in relazione alla condizione comune di sfruttamento e oppressione e alla conseguente necessità di costruire alternative. Inevitabile dunque partire dalla rivisitazione critica della Carta di Arusha, messa a punto nel 1990 da una rete di movimenti sociali africani e incentrata sulla resistenza ai piani di aggiustamento strutturale che in quella epoca le istituzioni finanziarie internazionali imponevano a paesi africani. Ora si tratta di partire dalle mutazioni intervenute sul piano continentale e mondiale, cioè, per dirla con il documento finale prodotto dalla discussione: “la fine della guerra fredda e l’affermazione dell’egemonia americana, la globalizzazione liberista e il suo impatto disastroso sulle nostre economie e società, la moltiplicazione dei conflitti e delle guerre per l’accaparramento delle risorse, la mercificazione e la privatizzazione della società, l’indebolimento di certi movimenti sociali, la nascita dell’Unione Africana”.
Vi è stata quindi ampia convergenza tra le realtà africane presenti, poiché, per usare le parole di uno degli esponenti intervenuti, “per cacciare una nuova bestia non serve un cane vecchio e stanco, ma ne occorre uno nuovo”. Il percorso concordato prevede consultazioni a livello nazionale e continentale da realizzarsi nel corso del 2006 e un’assemblea “di convalida” al Fsm di Nairobi l’anno prossimo.
Per quanto riguarda la relazione tra movimenti europei e africani, si trattava invece di esplorare un terreno largamente vergine. Molti seminari erano occasione per mettere in comunicazione i movimenti dei due continenti, dalle donne alla questione dei beni comuni, l’acqua in primo luogo, ma gli incontri forse più fecondi si sono realizzati nei seminari dedicati alle migrazioni. Infatti, per prima volta i movimenti e le organizzazioni europei che si battono per i diritti dei migranti –in questo caso soprattutto francesi, italiani (Arci, SinCobas, Cgil, Rifondazione Comunista) e dello stato spagnolo- hanno discusso direttamente con degli interlocutori nei paesi d’origine. E non solo in termini generali, ma anche concreti e specifici, dato che vi era una significativa presenza nel forum di associazioni di migranti espulsi dall’Europa. Un reticolato associativo, quest’ultimo, che ha costituito per gli europei un’autentica scoperta. Nel Mali, per esempio, ne esiste una “storica”, fondata nel 1996 da espulsi dalla Francia, mentre un’altra è stata formata recentemente dai maliani respinti a fucilate nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla.
I numerosi e molto partecipati seminari sulle migrazioni, ubicati tutti nel Palais des Congrés di Bamako, si sono presto trasformati in una sorta di assemblea permanente, dove ogni seminario, a prescindere dal suo titolo originario, finiva per discutere le medesime questioni. Emergeva, insomma, una diffusa necessità di definire relazioni e azioni comuni. In altre parole, si trattava di capire come costruire un contraltare alla cooperazione imposta dall’UE a molti governi africani, specie del nord, al fine di gestire la sua politica repressiva in materia di immigrazione e di cui sono triste e vergognoso esempio i fatti di Ceuta e Melilla o la delocalizzazione dei centri di detenzione per migranti irregolari (accordo Berlusconi-Gheddafi docet!).
Un confronto a più voci e dai più luoghi che si è tradotto infine in un Appello per il rispetto e la dignità dei migranti, con il quale le organizzazioni firmatarie, europee e africane, si impegnano su tre direttrici di lavoro: una rete internazionale di scambio di informazioni e di azione comune in relazione alle espulsioni coatte; un “asse tematico” dedicato alle migrazioni da costruire nel Fsm di Nairobi; una giornata internazionale di mobilitazione contro la politica repressiva e il diritto speciale applicato ai migranti in Europa e per la chiusura dei centri di detenzione e la libertà di circolazione.
Come nel caso delle relazioni tra movimenti africani, anche sul terreno di quelle euro-africane, nella frontiera di Bamako c’è stata dunque una semina. Certo, tutto questo è molto meno spettacolare dei grandi eventi del movimento e dei forum di questi anni, ma sicuramente non meno importante e prezioso per la costruzione di un’alternativa globale a quella rapina a mano armata, chiamata globalizzazione liberista. Anzi, forse è particolarmente importante proprio per i movimenti italiani ed europei, per i quali continuare a ignorare l’Africa sarebbe testimonianza di una miopia strategica imperdonabile.
A Bamako è stato dunque fatto il primo passo. Il resto è nelle nostre mani, dei movimenti europei e africani. Si tratta di non perdere l’occasione offerta da questi dodici mesi che ci separano dall’appuntamento di Nairobi del 2007, passando ovviamente per il Forum sociale del Magreb.
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