Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Il 14 novembre si sciopera. Non è ancora lo sciopero generale che ci vuole, cioè quello in grado, per quantità e qualità dell’azione, di sfidare davvero il progetto socialmente e politicamente regressivo dei poteri dominanti in Europa e del governo Renzi. Ma dopo lo sciopero generale di Usb del 24 ottobre e la grande partecipazione alla manifestazione nazionale della Cgil del 25 è senz’altro un ulteriore e importante passo nella giusta direzione, poiché consente di accumulare forze e consensi e, soprattutto, di mettere in campo un intreccio di diversi percorsi e di diverse lotte.
Venerdì 14, infatti, non ci sarà un unico sciopero, ma diversi scioperi e diverse mobilitazioni, che però significativamente si incontrano e si incrociano in un’unica giornata, evocando così con i fatti quella necessaria convergenza delle lotte, la cui mancanza pesa così tanto nello scenario italiano. In altre parole, venerdì è una giornata importante, su cui vale la pena investire, ognuno e ognuna per quello che può.
Ma andiamo con ordine. I primi a indicare il 14 novembre come giornata nazionale di mobilitazione sono stati i settori di movimento che hanno lanciato il percorso dello sciopero sociale (per approfondire visita il sito Sciopero Sociale), con l’obiettivo primario di coinvolgere i precari e le precarie. Poi è stato il turno dei sindacati di base e della Fiom. I primi, praticamente nella loro totalità (Cub, Conf. Cobas, Usi, Usb, Adl Cobas, Si.Cobas ecc.), proclamando per quella giornata lo sciopero generale di tutte le categorie e invitando alla mobilitazione di piazza e la seconda, proclamando lo sciopero generale dei metalmeccanici di otto ore in tutto il nord Italia con manifestazione a Milano.
Le mobilitazioni saranno dunque molte in tutto il paese, ma qui mi limito a indicare gli appuntamenti di Milano, probabilmente la piazza più importante venerdì prossimo. A Milano venerdì mattina ci saranno due appuntamenti di piazza e probabilmente tre cortei. Poi, nel corso della giornata ci saranno varie altre azioni e proteste.
Alle ore 9:00, in Porta Venezia, ci sarà il concentramento del corteo della Fiom, che si annuncia molto partecipato e terminerà in piazza Duomo, dove parleranno Landini e Camusso (per info vedi sito Fiom Milano).
Alle ore 9.30, in Largo Cairoli, ci sarà l’appuntamento dei sindacati di base, dei settori di movimento e degli studenti. Da lì partiranno di fatto due cortei. Uno sarà quello di buona parte dei sindacati di base (vedi per esempio il sito della Cub), l’altro quello degli studenti e degli attivisti. Il primo sarà incentrato sui temi del lavoro e del Jobs Act, mentre il secondo aggiungerà ovviamente anche quello del contrasto dell’operazione renziana “la buona scuola” e quello dell’Expo, in città un inevitabile paradigma anche delle mille forme di precarizzazione del lavoro, compresa quella del lavoro gratuito.
 
Insomma, venerdì partecipate e fate partecipare. Vedete voi a quale corteo partecipare, importante è esserci. Per il resto, l’auspicio è che l’intreccio di venerdì non sia una semplice parentesi, ma un punto di partenza su cui costruire.
 
Ci vediamo in piazza!
 
Luciano Muhlbauer
 
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Sabato 18 ottobre la Lega Nord manifesterà a Milano. La parola d’ordine del corteo è tanto semplice quanto eloquente: “Stop Invasione”. Dove gli invasori sarebbero ovviamente i migranti, a partire dai profughi scappati da guerre e dittature e sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo. Non si fa distinzione, tutti uguali, tutti “clandestini” e invasori.
Nulla di nuovo, direte voi, la Lega ha sempre cavalcato la xenofobia e le paure. Invece no, qualcosa di nuovo c’è e non capirlo o sottovalutarlo sarebbe grave. La Lega, dopo anni di alleanze governative con Berlusconi, era stata travolta prima dall’inconsistenza dei risultati ottenuti e poi dal malaffare e dagli scandali. Sembrava finita, ma poi Matteo Salvini ha osato un cambio di scenario, riposizionando la Lega nella grande famiglia della nuova e incalzante destra radicale europea.
Accanto a molti elementi di continuità con la Lega bossiana, ci sono però anche elementi di discontinuità. Ormai il riferimento territoriale non è più la Padania, ma tutta l’Italia. Il nemico non è più Roma ladrona, ma l’euro e l’immigrato. Mentre Bossi ricordava sempre, persino quando diceva e faceva cose di estrema destra, che lui era antifascista, Salvini ha stretto un’alleanza di ferro con Marine Le Pen e il Front National. In Italia è andato a fare visita alla sede romana dei neofascisti di Casa Pound –che già alle europee avevano sostenuto Borghezio- e ha partecipato al festival Atreju dei giovani di Fratelli d’Italia.
In altre parole, la nuova direzione della Lega ha capito che nell’Europa della crisi e delle politiche d’austerità si è aperto un enorme spazio politico ed elettorale a destra, ma anche che in Italia manca un soggetto politico in grado di riempirlo e di organizzarlo. I postfascisti di FdI sono messi male e stanno pagando gli anni passati a fare da scendiletto a Berlusconi, mentre la variegata galassia dei gruppi nazifascisti non è in grado di formare liste elettorali competitive. In altre parole, quella della Lega di Salvini è un’operazione egemonica, una Opa sulla destra radicale italiana.
Forse l’operazione non funzionerà -e noi tifiamo e ci adoperiamo perché non funzioni-, ma si tratta di una cosa seria che va presa sul serio. Basta infatti guardare ai risultati della Lega alle europee e ai vari sondaggi che circolano, per capire che il nuovo corso di Salvini ha invertito la tendenza negativa della Lega. E poi ci sarà pure il referendum per abrogare la riforma Fornero sulle pensioni, che è una cosa che avrebbe dovuto fare la sinistra, ma che invece ha fatto la Lega, a regalare ulteriori spazi alla Lega.
È la Lega in versione Front National, di destra radicale, xenofoba e razzista, che strizza l’occhio ai neofascisti di ogni risma, che sabato prossimo invaderà le piazze milanesi. E con la Lega, ne possiamo stare certi, stavolta saranno presenti in piazza anche rappresentanze dei gruppi militanti di estrema destra, a partire da Casa Pound.
 
Non si risolve il problema con una contromanifestazione, ovviamente. Ci vorrà ben altro. Ci vorrà un’altra opzione politica, di sinistra e antifascista, che sappia indicare un altro modello di società rispetto al liberismo sfrenato, l’austerità e la ridistribuzione della ricchezza a favore dei ricchi. Un’opzione che si metta dalla parte dei precari, dei lavoratori, dei disoccupati, dalla parte di chi la crisi la sta pagando a caro prezzo. Ma questo, in fondo, lo sapevamo già e, in ogni caso, non può diventare certo un alibi per non fare niente, per stare in silenzio o guardare dall’altra parte. Anzi, significa che proprio oggi dobbiamo far sentire forte e decisa la nostra voce, il nostro più fermo e totale ripudio del tentativo di riproporre a Milano e in Italia la xenofobia e il razzismo. E quindi #StopInvasione lo diciamo noi, ma lo diciamo ai razzisti e ai fascisti che sabato caleranno su Milano.
L’operazione politica che la Lega di Salvini intende materializzare sabato prossimo a Milano ha già suscitato la preoccupazione di Anpi e dell’associazione degli ex deportati nei campi di sterminio nazisti, l’Aned. Altri invece avevano lanciato l’idea di un corteo-parade, per non lasciare le strade e le piazze a chi predica l’odio e per dire che Milano è meticcia, antirazzista e antifascista. La proposta di mobilitarsi era buona, ha colto un’esigenza più ampia e le adesioni sono cresciute in questi giorni, dai centri sociali agli studenti, da settori sindacali a quelli associativi ad alcune forze politiche. E ci saranno anche rappresentanze delle comunità di migranti di Milano. L’appuntamento è quindi per sabato 18 ottobre, alle ore 15.00 in L.go Cairoli a Milano. Per tenervi aggiornati sull’organizzazione, sugli appelli e sulle adesioni, il punto di riferimento unitario è la pagina facebook www.facebook.com/milanometiccia.
 
Fate circolare le info sul corteo e se sabato siete a Milano partecipate, per dire tutti e tutte insieme che chi ama la libertà odia il razzismo.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Volete sapere come sarà il meraviglioso mondo del Jobs Act, quello dove robe vecchie come i diritti dei lavoratori, articolo 18, Statuto dei lavoratori o contratto nazionale saranno poco più di un lontano ricordo dei padri e dei nonni? Ebbene, allora date un’occhiata a uno di quei tanti settori privi di diritti, tutele e voce che già oggi abbondano a casa nostra, come per esempio la logistica. 
Già, la logistica. Sebbene si tratti di un settore strategico e nevralgico dell’economia nazionale, senza il quale la grande distribuzione vecchia e nuova non potrebbe funzionare nemmeno un minuto, dal punto di vista del mercato del lavoro sembra di trovarsi nell’Ottocento. Infatti, non ci sono tutele in caso di licenziamento e il diritto di sciopero non esiste. Anzi, a guardare bene, lì non sei nemmeno considerato un lavoratore.
Il trucco (si fa per dire, visto che è tutto perfettamente legale) sta nel non assumere i facchini che lavorano per te. E così, anche se lavorano in un deposito Ikea e movimentano tutto il giorno mobili Ikea, nessuno di loro è un dipendente Ikea, bensì della cooperativa X, alla quale Ikea ha appaltato il servizio di facchinaggio. Se poi i lavoratori della cooperativa X dovessero scioperare, perché i salari sono troppo bassi o perché le regole contrattuali non vengono rispettate, allora Ikea potrebbe tranquillamente sostituire la cooperativa X con la cooperativa Y, poiché si tratterrebbe semplicemente di una mancata erogazione del servizio previsto dall’appalto da parte della cooperativa X. Di conseguenza, i lavoratori della cooperativa X rimarrebbero disoccupati, senza che l’Ikea c’entri qualcosa sul piano formale, e se poi qualcuno dovesse decidere di protestare e di picchettare gli ingressi del suo posto di lavoro, allora arriverebbe la Celere a cacciarli suon di manganellate, perché sarebbero soltanto degli estranei che interrompono illegalmente un servizio e impediscono ai lavoratori della cooperativa Y di poter lavorare.
Nel nostro esempio ipotetico abbiamo usato il marchio Ikea, semplicemente perché tutti lo conosciamo, ma potremmo usare qualsiasi altro marchio della grande distribuzione o il nome di qualsiasi azienda che ricorre al "trucco" dell'appalto. E poi, si tratta di una “ipotesi” per modo di dire, visto che storie del genere si verificano quotidianamente, con le ovvie varianti sul tema. Per esempio, oltre l’appalto ci sono anche i subappalti oppure, come ormai accade sempre più spesso, l’azienda potrebbe procedere a un “cambio di cooperativa”, cioè al licenziamento dei lavoratori, anche in assenza di scioperi e lotte, ma soltanto perché quei lavoratori si sono permessi di iscriversi a un sindacato non gradito. Appunto, l’Ottocento incombe.
Beninteso, tutto questo non vuol dire che non si possa più lottare o organizzare sindacati. Anzi, l’esperienza di questi anni ci insegna che proprio i lavoratori della logistica, dov’è fortissima la componente migrante, si sono resi protagonisti di uno dei più interessanti, intensi e freschi processi di sindacalizzazione e di lotta di questi anni. E si comincia anche a vincere qualche vertenza, ma solo al prezzo di durissime lotte, come nel caso della Granarolo. Alla fine Legacoop ha dovuto firmare un accordo con il sindacato di base S.I.Cobas e accettare il reintegro dei 51 licenziati, ma ci sono voluti 15 mesi interrotti di lotta.
Insomma, oggi stare con i facchini è un dovere e una scelta lungimirante, perché bisogna ricominciare a lottare per i diritti che ci vogliono togliere e che a tantissimi lavoratori hanno già tolto.
 
Ebbene, il 16 ottobre prossimo ci sarà lo sciopero nazionale della logistica proclamato da S.I.Cobas, ADL Cobas e Cobas Lavoro Privato. In diverse città ci saranno anche azioni di sostegno, sotto la forma dello sciopero sociale. Nel milanese segnaliamo che è stato organizzato un infopoint a Pioltello, in via Cilea,  da Martesana Libera e altri.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 09/10/2014, in Pace, linkato 1346 volte)
Da quando è esploso l’allarme Isis non passa giorno che i tg, i giornali e i siti d’informazione che vanno per la maggiore non ci propongano una narrazione che suona grosso modo così: da una parte loro, i cattivi, il male, cioè lo Stato islamico (Da’esh in arabo), e dall’altra parte noi, i buoni, il bene, cioè la coalizione anti Isis che riunisce Usa, Europa, Nato e i paesi arabi “moderati”. Ebbene, sui cattivi ci siamo senz’altro (e spero vivamente che anche quelle strane fascinazioni estive che avevano colpito taluni siano definitivamente alle nostre spalle), ma è la storiella dei buoni che non sta proprio in piedi e che, anzi, in questi giorni di eroica e solitaria resistenza di Kobanê si staglia davanti a noi in tutto suo immenso squallore.
Infatti, gli spettatori dei tg nostrani si saranno chiesti più volte come possa accadere che l’armata del bene, dotata di tutta la più avanzata tecnologia militare, non sia in grado di fermare le truppe dell’Isis che assediano la città kurdo-siriana, che peraltro si trova sul confine con uno dei più armati paesi della Nato, cioè la Turchia. A qualcuno sarà venuto persino il dubbio che quelli dell’Isis siano una specie di superuomini. Un mistero, insomma.
Ma la realtà è molto più banale e non ci sono né misteri né superuomini. C’è semplicemente una città circondata da tutte le parti. Su tre lati c’è l’Isis, con migliaia di uomini e armamento pesante, sul quarto lato c’è il confine turco, presidiato e sigillato dall’esercito di quel paese, che impedisce ogni rifornimento e rinforzo agli assediati. In città ci sono alcune migliaia di kurdi e kurde dell’ YPG/YPJ, da soli, a combattere con armi leggere. Non c’è certo bisogno di scomodare il vecchio von Clausewitz per capire come va a finire se la situazione rimane immutata.
In altre parole, se Kobanê cadrà nelle mani di Da’esh, con tutto quello che comporterà in termini umani, il responsabile non si chiamerà soltanto al-Baghdadi, ma anche Erdogan. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul ruolo del governo turco, allora guardi alla brutale repressione delle proteste dei kurdi in Turchia di questi giorni: nel momento in cui scriviamo sono già oltre 20 i kurdi uccisi perché hanno protestato contro il massacro di Kobanê e la complicità del governo turco.
Dall’altra parte, Erdogan è sempre stato nemico dei kurdi e piuttosto amico dell’Isis, al quale permetteva un po’ di tutto, compreso quel confine aperto che invece è negato ai kurdi. Insomma, come nel caso di Arabia Saudita e delle altre petromonarchie del Golfo, prima che arrivasse il contrordine da Washington perché la creatura era sfuggita di mano –così come a suo tempo era successo con Bin Laden in Afghanistan- gli uomini di al-Baghdadi erano piuttosto coccolati, per usare un eufemismo.
Ma questo ormai dovrebbero averlo capito tutti, nonostante continui la narrazione dei buoni e dei cattivi. A livello politico, però, tutto va avanti come se niente fosse. Certo, ora gli aerei Usa sganciano qualche bomba nei dintorni di Kobanê, perché la situazione stava diventando imbarazzante anche per gli stomaci forti, ma poco di più. In Italia, poi, non c’è nemmeno un sottosegretario che trovi il tempo di una dichiarazione.
Già, l’Italia, casa nostra. Un paese della Nato, come la Turchia. Un paese che ora esprime Mrs Pesc, cioè il Ministro degli Esteri dell’Unione Europea. E un paese che, come tutta l’UE, ha accettato di classificare il Pkk (la forza politica più rappresentativa dei kurdi di Turchia) come “organizzazione terroristica”. È stato su questa base che soltanto un mese fa, con l’attacco a Kobanê già in corso, la Procura di Milano ha indagato per terrorismo 40 kurdi residenti in Italia soltanto per aver raccolto denaro per il Pkk.
Sin dall’inizio i kurdi e le kurde siriani, sostenuti da guerriglieri del Pkk, hanno combattuto contro l’Isis, anche quando quest’ultimo era ancora amico di Turchia e Arabia Saudita e gli Usa approvavano. Non avevano finanziatori e amici potenti, ma hanno resistito sul terreno alle bande del califfato meglio di chiunque altro. Hanno costruito nella loro terra e in mezzo alla guerra civile siriana un’esperienza di autogoverno democratico straordinaria, basata sulla Carta di Rojava, che include tutti, “arabi, curdi, assiri, armeni, ceceni, musulmani, cristiani e yazidi, secondo il principio della convivenza pacifica e della fratellanza”. Cioè, un messaggio più unico che raro in quella parte del mondo martoriata dalla guerra e dall’interventismo statunitense. E rappresenta l’esatto contrario dei principi sui cui si basa il Califfato proclamato dall’Isis.
Eppure, il governo Renzi, così loquace su tutto, non ha trovato una parola da dire alla Turchia. Non che Erdogan cambi idea perché glielo dice Renzi, figuriamoci, ma almeno l’Italia mostrerebbe un po’ di dignità (che non sarebbe male dopo l’indegna consegna di Ocalan nel 1999). E Mrs. Pesc Mogherini l’avete sentita? Tuttavia qualcosa di concreto di potrebbe fare, subito, in Italia e in Europa: togliere il Pkk dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Questo sì che darebbe fastidio a Erdogan e, soprattutto, un po’ di ossigeno ai kurdi e alle kurde.
Insomma, il governo italiano deve fare, urgentemente. E noi dobbiamo muoverci perché faccia, insieme alle comunità kurde. Non dobbiamo permettere che questa squallida ipocrisia possa andare avanti con il nostro silenzio, perché saremmo corresponsabili.
 
Luciano Muhlbauer
 
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A Milano sarà una settimana di mobilitazioni. Mercoledì 8 ottobre, quando in città si riuniranno i capi di Stato e di governo europei per un vertice sul lavoro, ci sarà lo sciopero della Fiom, un corteo che alle 9.30 partirà da piazzale Lotto e un presidio in piazza Türr. Venerdì 10 toccherà poi agli studenti e sabato 11 ci sarà il corteo promosso dalla Rete Attitudine NoExpo.
Lavoro, precarietà, diritti, scuola pubblica, grandi opere e grandi eventi. Insomma, tutti i temi centrali di questa fase saranno in qualche modo sul piatto e oggetto di iniziativa sociale e politica. Sarà dunque una settimana da tenere d’occhio, per capire che aria tira in città in questo autunno, se prevarrà ancora la passività oppure se ci saranno segni di risveglio. Ma sarà anche una settimana da riempire con la nostra partecipazione, poiché la passività non si vince stando alla finestra, ma questo lo sapevate già.
 
Andiamo con ordine però. Mercoledì 8 ottobre, nel MiCo Conference Centre a Fieramilanocity, si terrà finalmente quella conferenza dell’Unione europea che era stata più volte annunciata e poi spostata. Ma ora ci siamo ed è il momento che Renzi intende utilizzare per esibire il Jobs Act, cioè la determinazione del governo italiano di fare i suoi compiti, di demolire quello che resta dei diritti dei lavoratori e di fare a pezzi l’idea stessa di sindacato come organizzazione autonoma e indipendente dei lavoratori. Non si tratta dunque di una mera questione di articolo 18 (del quale abbiamo parlato nel nostro recente articolo), bensì della questione di fondo, cioè del modello sociale.
La prima ad annunciare una mobilitazione in occasione del summit è stata la Fiom, che per l’8 ottobre ha promosso lo sciopero dei metalmeccanici su tutto il territorio della provincia di Milano e lanciato una manifestazione di piazza, con appuntamento alle ore 9.30 in piazzale Lotto. Per info vedi anche il sito della Fiom Milano.
Al corteo non parteciperanno soltanto i metalmeccanici, ma ci saranno anche studenti, precari e diverse realtà di movimento (vedi appello L'8 Ottobre in piazza contro l'Europa dell'austerità). 
Inoltre, Cub, Usb e altri sindacati di base hanno lanciato un presidio in piazza Stefano Türr, che durerà dalle ore 9.00 alle 16.00.
 
Venerdì 10 ottobre scenderanno poi in piazza gli studenti medi e universitari, nel quadro di una mobilitazione nazionale decisa da tempo. Al centro, ovviamente, la difesa e il rilancio della scuola pubblica, ma a questo punto anche il dissenso rispetto al progetto renziano della “Buona Scuola” (vedi anche il nostro articolo La scuola di Renzi non è uguale per tutti). L’appuntamento milanese è alle ore 9.30 in piazza Cairoli.
Parteciperanno alla mobilitazione praticamente tutte le componenti del movimento studentesco milanese, dall'Uds ai collettivi. Vedi anche l’appello unitario Un’altra volta, un’altra onda lanciato da Uds, Rete Studenti Milano, Casc, Dillinger Unimi, Collettivo Bicocca, Link.
 
L’11 e il 12 ottobre ci sarà infine la due giorni promossa dalla Rete Attitudine NoExpo, che prevede un corteo sabato 11 ottobre, alle ore 15.00 in piazza Duca d’Aosta, un’assemblea domenica in tarda mattinata al Parco Pertini e un incontro il pomeriggio alla Ri-Maflow di Trezzano s/N.
Il corteo è stato promosso da un appello che puoi trovare qui, mentre l’evento facebook lo trovi qui www.facebook.com/events/684863571596877/
 
Ci vediamo in settimana e in piazza!
 
Luciano Muhlbauer
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A pochi giorni dalla breve occupazione dello spazio Forma, ieri sera Zam è tornato, occupando uno stabile vuoto da quattro anni in zona Chiesa Rossa. Si trova in via Sant’Abbondio 10. Una volta ospitava la polizia locale della zona e ora fa parte di un fondo immobiliare gestito dalla banca Bnp Paribas.
Da questa mattina, invece, c’è anche lo Spazio Occupato Indipendente Mendel, S.O.Y. Mendel in breve. Si tratta di una new entry, un’occupazione nuova di zecca e si trova nel quartiere Baggio, in via Cancano 5. Lo stabile occupato è di proprietà privata e abbandonato da molti anni. Si tratta di un’occupazione dalla forte connotazione territoriale e antifascista: non solo lo spazio è stato intitolato al partigiano Mendel, ma nella loro dichiarazione degli intenti gli occupanti dichiarano che tra i loro obiettivi principali c’è anche il contrasto dell’attività di infiltrazione che i gruppi neofascisti e neonazisti stanno praticando nei quartieri popolari di Milano.
Ora vediamo cosa succederà, se gli spazi resisteranno nel tempo oppure no. Comunque sia, il fatto che molti giovani attivisti si diano da fare e che non si arrendano alla rassegnazione è un buon segno per la nostra città. E che ci sia attenzione particolare alle periferie e ai quartieri popolari anche, specie oggi.
 
Qui trovate il testo di presentazione di ZAM 5.0:
 
E qui si presenta S.O.Y. Mendel:
 
Luciano Muhlbauer
 
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Il taser, cioè la pistola che spara scariche elettriche, e la telecamera integrata nella divisa stanno per fare il loro ingresso ufficiale nell’equipaggiamento della polizia italiana. Siamo ancora a livello sperimentale, ovviamente, come peraltro accade da inizio anno con lo spray al peperoncino, ma ci sono pochi dubbi che la strada sia ormai tracciata.
Infatti, le microcamere applicate al gilet dei reparti mobili potrebbero essere utilizzate già il 2 ottobre a Napoli, in occasione delle manifestazioni di protesta contro il vertice Bce, mentre è di ieri la notizia che alla Camera le competenti Commissioni hanno approvato un emendamento che introduce il taser.
Dei famosi numeri identificativi sul casco degli agenti dei reparti mobili di Polizia e Carabinieri, invece, non si parla più nemmeno a Chi l’ha visto?. Eppure si tratterebbe di una misura tutt’altro che sovversiva, visto che quel numero se lo portano addosso in quasi tutti i paesi europei, dalla Germania alla Francia, e persino nell’autoritaria Turchia. Ce l’hanno semplicemente perché i superiori vogliono sapere chi fa che cosa.
E qui da noi? È risaputo che nelle questure e negli equilibri interni alla polizia di stato i reparti mobili e le loro rappresentanze hanno ormai acquisito notevole potere contrattuale e, quindi, sembra che nessun Ministro o partito di governo (e non solo di governo) abbia voglia di porre seriamente il problema. E soprattutto fa terribilmente comodo non porre il problema, specie quando mandi la celere a reprimere senza nemmeno pagare gli straordinari oppure quando metti in campo operazioni violente e palesemente illegali, come la macelleria messicana alla Diaz nel 2001.
È così l’asimmetria, che nelle vicende di piazza c’è sempre stata, si fa però davvero insopportabile. Grazie alla microcamera sul gilet dei reparti mobili, le forze dell’ordine potranno ora riprendere anche quel poco che finora era sfuggito alle numerose telecamere già presenti in occasione di manifestazioni, scioperi e presidi, ma in cambio, addirittura in caso di abusi palesi e documentati, non sarà possibile identificare i dirigenti o agenti di pubblica sicurezza responsabili
Ma quello che indigna veramente è la leggerezza e la naturalezza con le quali si coltiva quella asimmetria. Del numero identificativo non si può nemmeno discutere, ma l’introduzione del taser viene fatta in un batter d’occhio, senza alcun dibattito, sebbene sia universalmente noto che l’arma “non letale” abbia provocato numerose conseguenze letali in giro per il mondo. Infatti, secondo Amnesty International i morti per taser sarebbero 864 soltanto in Usa e Canada, dal 2001 a oggi. E cosa potrà mai succedere nel paese di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi?
Davvero, a parte le solite voci che per fortuna non si spengono mai, nessuno sente il dovere di dire o fare qualcosa? Davvero non c’è il coraggio di affrontare la questione ora e qui, prima di dover piangere altre vite rubate?
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 29/09/2014, in Movimenti, linkato 1174 volte)
Zam è stato di nuovo sgomberato e quindi i ragazzi e le ragazze saranno costretti a nuove migrazioni prima di trovare casa. Le forze dell’ordine, in base alla decisione assunta in tempo record ieri in Prefettura dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, si sono presentate stamattina all’ex Spazio Forma, in piazza Tito Lucrezio Caro, che era stato occupato sabato pomeriggio. Nessuno si è fatto male e non ci sono stati fermi. Insomma, come si suol dire in questi casi, è stata una “cosa tranquilla”.
Peraltro, che sarebbe stato difficile rimanere lì era emerso già nella serata di sabato, allorquando da parte dell’Atm, proprietario dello stabile, erano state avanzate una serie di preoccupazioni dal punto di vista della sicurezza in relazione all’adiacente deposito e ai suoi impianti elettrici. Forse l’azienda ha esagerato un po’ con le preoccupazioni, ma poiché la sicurezza delle persone e dei lavoratori è una cosa serissima e per fortuna i giovani di Zam e della Rete Studenti la considerano tale, gli occupanti avevano comunicato immediatamente a Atm la massima disponibilità a collaborare su questo punto.
Comunque sia, poi è intervenuta la decisione della Prefettura e il resto è cronaca di oggi. Rimane però aperta più che mai la questione di fondo, cioè il rapporto della città con i suoi spazi sociali autogestiti. Ormai, a fare i conteggi del numero degli sgomberi dal 2011 a oggi non sono più i soli centri sociali, ma anche una potenza come il Corriere della Sera, che stamattina titola nella sua edizione cartacea “Centri sociali, il Comune sfida gli antagonisti”, aggiungendo poi la mappa e il numero di 22 (titolo peraltro ribadito oggi on line nella notizia a sgombero avvenuto). Il titolo è un’evidente forzatura e un’operazione un po’  maliziosa, ma testimonia il fatto che c’è interesse a soffiare sul fuoco e voglia di tirare per la giacchetta. Attenzione dunque. E questo vale per tutti.
Infine, Zam si rifarà vivo presto, ne sono certo, per il semplice motivo che è fatto di persone che non spariscono. E auspico che torni per restare.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 27/09/2014, in Movimenti, linkato 1062 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer pubblicato su il Manifesto del 27 settembre 2014
 
A volte ritornano ed è bene che sia così. Zam e Lambretta, due dei più dinamici spazi sociali milanesi, erano stati entrambi sgomberati nel giro di poche settimane di questa strana e fredda estate. Avevano promesso che sarebbero tornati presto e così è stato. Il 19 settembre il Lambretta ha occupato uno stabile privato abbandonato in via Cornalia 6 e oggi è il turno di Zam (appuntamento ore 15.30 in piazza Sant’Eustorgio).
Forse non tutto andrà liscio, forse ci vorranno altre migrazioni prima di trovare casa stabilmente, ma quello che ora importa è che non sia passata l’idea che basti sgomberare delle mura per far scomparire anche le persone e, soprattutto, che i ragazzi e le ragazze -perché stiamo parlando in larghissima parte di giovani e giovanissimi- abbiano trovato l’energia e l’accortezza di rimettersi in gioco immediatamente. Sì, perché gli sgomberi possono capitare, ma questi si trasformano in sconfitta soltanto se riescono a produrre rassegnazione e silenzio.
E queste sono considerazioni che dovrebbero interessare un po’ tutti, a Milano e altrove, perché mica stiamo parlando di questioni private o di semplice cronaca locale. Anzi, abbiamo un gran bisogno di sprovincializzare il dibattito, di renderlo più politico, di guardarci attorno.
A Roma, per esempio, tira brutta aria per i movimenti. Non solo gli sgomberi si moltiplicano, ma soprattutto aumenta l’intensità della repressione. Dalle modalità dell’intervento sull’Angelo Mai alla detenzione di due esponenti del movimento per la casa, Di Vetta e Fagiano, fino all’inquietante arresto di Nunzio d’Erme e Marco Bucci dell’altro giorno. Non si tratta certo di fatti inediti, in Val di Susa succede di peggio, ma quando certi metodi si fanno largo anche nella capitale, allora è evidente che siamo di fronte a un problema più generale.
Milano non è Roma e nemmeno Torino, almeno finora. Ma è indubbio che le cose possono cambiare anche qui, persino a prescindere dalla volontà degli attori locali. La tendenza è infatti generale e viene alimentata dalla (facile) previsione dei vertici statali che il prolungarsi della crisi, la perdita di credibilità del sistema politico e l’accentuarsi delle disuguaglianze sociali produrranno più conflittualità. Ergo, visto che le deleterie politiche d’austerità proseguiranno, ci vuole più controllo e repressione. Una scelta politica, preventiva e democraticamente regressiva, ovviamente, ma di questo si tratta.
Non decidono gli attori locali, dunque, ma questi non sono del tutto impotenti. Detto altrimenti, non è indifferente se un Sindaco si oppone alla tendenza generale oppure se l’asseconda, non è la stessa cosa se a Palazzo Marino siedono Moratti e De Corato o Pisapia. Eppure, gli sgomberi manu militari ci sono stati lo stesso, nel caso di Zam si trattava addirittura di uno stabile di proprietà comunale, e sul piano politico è ormai conclamata la profonda crisi del rapporto tra amministrazione arancione e l'insieme degli spazi sociali autogestiti.
Il che fare è quindi sul tavolo, per tutti. Zam e Lambretta hanno fatto la cosa giusta, anche se in prospettiva non basterà resistere, ma bisognerà ricominciare a pensare in grande, a incidere. Le destre, gli ex vicesindaci e le camicie verdi sempre più nere di Salvini faranno le solite cose, ma con più aggressività, perché stanno già pensando alle prossime elezioni. L'amministrazione comunale, infine, dovrà decidere se adeguarsi alla tendenza generale, magari sotto la spinta normalizzatrice di Expo, oppure se guardare oltre e esplorare altre strade. Nel frattempo, comunque, bentornati Zam e Lambretta.
 
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di lucmu (del 19/09/2014, in Lavoro, linkato 1286 volte)
La vera domanda non è quando usciremo dalla crisi, ma come ne usciremo e, soprattutto, in che mondo ci ritroveremo dopo. Già, perché comunque vada, non sarà un ritorno al prima, come se si trattasse di guarire da una febbre passeggera, e le attuali politiche di governi, banche centrali e troike varie non servono tanto e soltanto per riattivare un’economia depressa, ma anche per disegnare un altro e nuovo modello sociale e politico, in dichiarata antitesi con quanto abbiamo conosciuto nell’epoca post sessantottina e persino post Liberazione. Insomma, con quello che a volte viene riassunto nel termine generico di modello sociale europeo.
Certo, lo so, detto così suona un po’ astratto e soprattutto terribilmente lontano dai problemi ben più impellenti che la maggior parte di noi deve affrontare nella quotidianità, tipo come arrivare alla fine del mese, come trovare un lavoro o un reddito o come immaginarsi un futuro. Siamo stufi, sfiduciati, squattrinati, precari e disillusi, non abbiamo più tempo e voglia di interrogarci sui grandi temi, desideriamo soltanto che finisca e che torni il sole. E così, siamo anche disposti a cantare nel coro delle Riforme, qualunque cosa vogliano dire, e persino a consegnare a Renzi il 40% dei voti.
Tutto comprensibile, per carità, ma anche tutto sbagliato, perché di questo passo rischiamo una fregatura grossa come una casa e potremmo ritrovarci con tante riforme fatte, un Pil in crescita e un debito pubblico in calo, ma noi più scemi di prima, con il conto da pagare in mano e sempre precari, squattrinati e con un futuro incerto. Insomma, magari ci conviene ricominciare ad occuparci dei grandi temi e leggere le famose riforme alla luce del modello di società che indicano, cioè del futuro che ci preparano. E questo vale anche –e forse soprattutto- per l’annosa questione dell’articolo 18 e della riforma del mercato del lavoro, cioè uno di quei dibattiti con il maggior tasso di teatrini, ipocrisie e giochi pirotecnici che ci sia in giro.
 
Il teatrino
Correva l’anno 2001, quello di Genova, e al governo c’era di nuovo Berlusconi. Nell’ottobre di quell’anno l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il leghista Roberto Maroni, pubblicò il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, con l’obiettivo di  “una complessiva rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro”. Alla sua stesura aveva lavorato un gruppo di lavoro coordinato dall’allora sottosegretario Maurizio Sacconi e dal giuslavorista Marco Biagi. Quel libro bianco avrebbe poi partorito il D.lgs. n 276/2003 (più conosciuto come legge Biagi), cioè quella riforma del mercato del lavoro che diede una potentissima spinta alla diffusione dei contratti precari, a cui erano già state aperte le porte dal cosiddetto Pacchetto Treu nel 1997.
Con il libro bianco si era anche aperto il fronte dell’articolo 18, che da allora in poi non si sarebbe più chiuso. Ma a quel tempo il teatrino era ancora limitato e lo scontro era più trasparente e vero. Infatti, le velleità di modificare direttamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori furono bloccate da una fortissimo mobilitazione sindacale, sfociata nella famoso manifestazione dei 3 milioni del 23 marzo 2002. Ma erano altri tempi, erano gli anni dei movimenti di Genova, che infatti avevano sostenuto la mobilitazione della Cgil, e poi al governo c’era Berlusconi e quindi anche dalle parti del centrosinistra si era più radicali.
Ma appunto, i tempi cambiano, e quando fu ripreso il tema dell’articolo 18 il teatrino non aveva più freni. In questi anni l’articolo 18 è stato incolpato più o meno di tutto, ma fondamentalmente le accuse sono di due tipi: primo, sarebbe una roba vecchia, da privilegiati, anzi il pilastro di un sistema di apartheid (copyright by Renzi) che discrimina i giovani e, secondo, sarebbe uno dei responsabili del fatto che non si facciano investimenti in Italia.
Nel merito queste accuse sono piuttosto inconsistenti e persino ridicole. Infatti, è un po’ difficile sostenere seriamente che la precarietà sia colpa dei lavoratori che hanno ancora un contratto a tempo indeterminato e non delle leggi che hanno liberalizzato i contratti precari. E poi, cosa vuol dire risolvere il dualismo del mercato del lavoro, togliendo i diritti a chi ancora ce li ha e non riconoscendo i diritti a chi oggi ne è privo? Per quanto riguarda gli investimenti, basterebbe leggersi le valutazioni delle società specializzate in materia o sentire le lamentele dei famosi investitori esteri, dove tra le ragioni di criticità dell’Italia è molto difficile trovare l’articolo 18 e il reintegro, se non nelle ultime posizioni. Infatti, ben altre sono lamentele, dal costo dell’energia al peso degli adempimenti burocratici, dai tempi lunghi della giustizia civile alla corruzione.
Ma, appunto, il merito ha poco spazio in questo dibattito e nella sua dimensione pubblica e propagandistica contano le percezioni e le sensazioni trasmesse. E così, il teatrino va a gonfie vele, alfaniani contro bersaniani, forzitalioti contro sindacalisti, camussiani contro governativi, Pd di minoranza contro Pd di maggioranza eccetera eccetera. Ognuno con la sua bandiera e ognuno interessato più agli affari suoi che al merito della questione. Un teatrino utile, beninteso, anzitutto per chi vuole fare tabula rasa di ogni tutela in materia di licenziamenti, perché rafforza la sensazione che la contesa non riguardi i lavoratori, i precari e i disoccupati, ma che sia soltanto una questione di litigio tra politici.
Infine, il meschino gioco di dire al giovane precario che la sua situazione è dovuta a chi ha il “privilegio” dell’articolo 18 fa leva su un dato materiale: oggi soltanto una minoranza dei lavoratori e delle lavoratrici nel nostro paese può usare a propria tutela l’articolo 18, poiché sono esclusi de iure tutti i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti e de facto tutti i precari. Quindi è facile sparare sull’articolo 18, mentre è molto più difficile che chi ne è escluso si mobiliti per difenderlo. A questo punto sarebbe però anche lecito chiedere “ma allora come mai è così importante eliminare questo articolo 18?”, ma questo, si sa, è un altro discorso. 
 
Le ipocrisie
Non c’è teatrino senza ipocrisia e questo vale anche nel nostro caso. Anzi, le troppe ipocrisie accentuano la sensazione di estraneità da parte di molti, specie dei più giovani. Insomma, non si può gridare al colpo di stato e invitare all’insurrezione popolare quando a toccare l’articolo 18 è un governo Berlusconi e, poi, essere invece responsabilmente disponibili a modificarlo quando al governo c’è il centrosinistra. E questo non riguarda soltanto esponenti politici del Pd, ma anche –e questo è molto peggio- dirigenti dei sindacati confederali.
Infatti, l’articolo 18 in quanto tale non è mai stato modificato da un governo di centrodestra. Non ci sono mai riusciti. È stato modificato, invece, nel 2012 dalla Riforma Fornero, cioè dal governo Monti e con i voti della grande coalizione, compresi dunque quelli del Pd. Anzi, quella modifica fu approvata con il consenso di fatto di Cgil, Cisl e Uil, che infatti si astennero da qualsiasi forma di protesta o mobilitazione.
Con la riforma Fornero la sfera di applicazione dell’articolo 18 è stata ulteriormente ridimensionata, perché ora il reintegro nel posto di lavoro è obbligatorio soltanto in caso di licenziamento discriminatorio, che però è anche la fattispecie più difficile da provare in sede processuale, e in alcuni casi ben circoscritti dell’illegittimo licenziamento disciplinare. In tutto il resto dei casi, sebbene l’illegittimità del licenziamento sia accertata, non c’è più il diritto al reintegro, ma solo quello a un risarcimento economico.
Infine, arriviamo all’oggi, al governo Renzi e al tentativo di dare l’ultima spallata all’articolo 18. Allo stato, ovviamente, non si sa come sarà esattamente la modifica finale, perché il Jobs Act (attualmente in discussione in Parlamento) è una legge delega. Cioè il Parlamento voterà una sorta di legge quadro, delegando così la formulazione della legge vera e propria al Governo. E così, cosa già di per sé molto discutibile, il Governo potrà ri-scrivere con ampia autonomia interi pezzi fondanti dello Statuto dei Lavoratori.
Comunque, a giudicare dal testo dell’emendamento presentato dal Governo e approvato ieri dalla Commissione Lavoro del Senato, ci si dovrebbe orientare verso un “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, il che vorrebbe dire che per un neoassunto (di qualsiasi età) non varrà più l’articolo 18 e il reintegro per i primi (3?) anni. Insomma, è un po’ come un periodo di prova lungo anni.
Inoltre, tanto per non lasciare dubbi sul senso dell’operazione, l’emendamento presentato ieri prevede anche due altre modifiche allo Statuto dei Lavoratori. La prima intende consentire alle aziende la pratica del demansionamento del lavoratore e la seconda prevede l’attenuazione del divieto del controllo a distanza del lavoratore.
 
La posta in gioco
Tra teatrini e ipocrisie e un articolo 18 già oggi fortemente ridimensionato, si impone infine la domanda sulla vera posta in gioco. O meglio, a questo punto c’è ancora una posta in gioco? Ebbene, io credo che ci sia, eccome.
Molti, da destra a sinistra, in queste settimane hanno parlato di totem, simbolo e scalpo a proposito dell’articolo 18. C’è una parte di verità in questo, anche perché nella vita sociale e politica queste cose sono importanti, hanno il loro peso. Ma c’è molto di più in questo accanimento contro un articolo 18 ormai malconcio, manomesso e traballante: c’è la ricerca deliberata di una rottura culturale, di un atto costituente di una nuova epoca.
Lo Statuto dei Lavoratori con il suo articolo 18, diventato legge il 20 maggio 1970, fu una conseguenza diretta dei movimenti e delle lotte del 68 e dell’autunno caldo del 69. Fu oggettivamente una conquista del movimento operaio, anche se a sua tempo non fu riconosciuto e percepito come tale dai protagonisti delle lotte. E non mi riferisco soltanto ai settori più radicali in rapida crescita, ma allo stesso PCI, che in Parlamento non votò a favore della legge, ma si astenne, perché la considerava troppo favorevole alle imprese e agli interessi padronali.
Molto tempo è passato da allora e i rapporti di forza sociali sono cambiati, parecchio. Quello che allora si presentava come un’operazione democristiana per fermare l’impeto delle lotte operaie, era nel frattempo diventato uno preziosissimo strumento di difesa dei lavoratori, nonché una questione di civiltà (perché è sempre bene ricordare che l’art. 18 non vieta affatto i licenziamenti, ma si limita a sanzionare mediante il reintegro il licenziamento illegittimo). Fare a pezzi lo Statuto dei Lavoratori e il suo articolo più conosciuto e invocato, il numero 18, non servirà a produrre nuovi posti di lavoro e nuovi investimenti e non aiuterà nemmeno un precario a diventare meno precario. No, servirà a sancire la fine di un’epoca, ad abbattere l’ultima barricata rimasta di un tempo quando la classe operaia voleva andare in paradiso. Con un articolo 18 giustiziato sulla pubblica piazza non ci saranno più argini, barricate e trincee. Non ci saranno più tabù. Questo è il senso dell’operazione.
E se mi chiedete come sarà dopo, vi dico che non lo so, ma è sufficiente guardare a quelle quote di futuro senza diritti già ben presenti oggi per aver un’idea di che cosa si stia preparando. Guardate a quello che succede nelle cooperative che lavorano per la grande distribuzione, nella raccolta dei pomodori e degli agrumi o in uno dei tanti interstizi urbani dove prolifera il precariato senza regole e sottopagato. Dietro i teatrini, le ipocrisie e i fuochi pirotecnici c’è infatti questo, un ritorno al passato.
Insomma, penso proprio che sia di nuovo tempo di pensare ai grandi temi e di lasciarci alle spalle la rassegnazione.
 
Luciano Muhlbauer
 
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