Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
È partita la prima class action contro il discriminatorio sistema di finanziamento pubblico della scuola privata che vige in Lombardia. Concretamente possono parteciparvi tutti i genitori di studenti delle scuole pubbliche che nell’anno scolastico 2013/2014 siano stati beneficiari della “dote scuola” denominata “sostegno al reddito”. Infatti, secondo la recente sentenza del Tar della Lombardia, questi genitori sono stati discriminati e hanno ricevuto un contributo economico troppo basso.
Ma andiamo con ordine. Il 2 aprile scorso la terza sezione del Tar della Lombardia ha emesso la sentenza in merito a un ricorso di due genitori di studenti della scuola pubblica. Come avevamo commentato a suo tempo, la sentenza non mette in discussione il finanziamento pubblico della scuola privata in sé, ma punta l’indice contro quella che è la vera cifra del “buono scuola” lombardo, cioè la discriminazione degli studenti della scuola pubblica. In questo senso, pur non essendo rivoluzionaria, questa sentenza si configura però come una prima crepa nel sistema voluto da Formigoni e ora proseguito da Maroni.
In particolare, il Tar interviene su un istituto accessorio del buono scuola in senso stretto, cioè sull’”integrazione al reddito”, che prevede un sostengo economico supplementare per le famiglie meno abbienti delle private (la maggioranza dei beneficiari del buono per le private comunque non ne ha affatto bisogno). Infatti, la logica discriminatoria del buono scuola è talmente pervasiva e arrogante da spingersi fino a stabilire che, a parità di fascia ISEE (il riccometro utilizzato normalmente dalle pubbliche amministrazioni), il sostegno economico alle famiglie meno abbienti sia differenziato in base alla tipologia di scuola: una “integrazione al reddito” tra 400 e 950 euro, nel caso della scuola privata, e un “sostegno al reddito” tra 60 e 290 euro, nel caso della scuola pubblica.
Una discriminazione talmente macroscopica che persino una sentenza altrimenti piuttosto conservatrice si esprime al riguardo nei seguenti termini: “l’amministrazione ha previsto, senza alcuna giustificazione ragionevole e con palese disparità di trattamento, delle erogazioni economiche quantitativamente diverse, più favorevoli per coloro che frequentano una scuola paritaria … a fronte della medesima necessità … e a fronte della medesima situazione di bisogno economico”.
Di conseguenza, il Tar “annulla gli atti impugnati … nella parte in cui prevedono, a parità di fascia ISEE di appartenenza, l’erogazione a titolo di “sostegno al reddito” di buoni di valore inferiore a quelli erogabili a titolo di “integrazione al reddito”.
(Per leggere la versione integrale della sentenza clicca qui; per un commento giuridico alla sentenza qui).
Ebbene, poiché il Tar “ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa”, la class action, promossa dall’Associazione NonUnoDiMeno, con il sostegno della Flc-Cgil, consiste proprio nel richiedere a Regione Lombardia il pagamento della differenza dovuta.
Se quindi siete genitori con figli iscritti alla scuola primaria o secondaria statale che abbiano ottenuto il contributo per il “sostegno al reddito” per l'anno scolastico 2013/2014, allora potete fare richiesta alla Regione, avvalendovi degli appositi sportelli messi a disposizione dai promotori della class action.
In particolare, vi segnalo quello presso la Camera del Lavoro di Milano, in via Corso di Porta Vittoria 43, operativo fino alla fine di luglio nei seguenti orari: lunedì ore 15.00-17.30, martedì ore 10.00-12.30, giovedì ore 15.00-17.30. Per conoscere gli sportelli attivati in altri Comuni lombardi, chiedete informazioni mandando una mail a info@nonunodimeno.net.
In ogni caso, prima di recarvi allo sportello, leggete con attenzione tutte le istruzioni disponibili sul sito dell’Associazione NonUnoDiMeno!
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 08/07/2014, in Lavoro, linkato 1392 volte)
Volevano condanne forti ed esemplari contro i lavoratori e sindacalisti per gli scioperi alla Bennet di Origgio (VA) del 2008, ma la sentenza di primo grado emessa ieri 7 luglio dal Tribunale di Busto Arsizio è una sostanziale vittoria per i lavoratori. Certo, ci sono anche le quattro condanne a 2 mesi, con sospensione della pena, per minacce e ingiurie, ma le 16 assoluzioni e, soprattutto, la bocciatura della tesi centrale dell’accusa, cioè che scioperi e picchetti fossero un reato da sanzionare, rappresentano indubbiamente una notizia positiva per quanti si battono per i diritti dei lavoratori nel settore della logistica.
La situazione di pesante sfruttamento e di sistematica elusione delle più elementari regole del diritto del lavoro che predomina nel settore della logistica, rende infatti estremamente difficile la stessa sindacalizzazione, figuriamoci l’organizzazione di vertenze e lotte. Nei poli logistici e nella movimentazione merci della grande distribuzione lo sciopero è de facto fuorilegge, sebbene sia una diritto costituzionalmente tutelato.
Beninteso, formalmente è tutto in regola, grazie a quel micidiale sistema di appalti e subappalti, per cui l’azienda (Granarolo, Ikea, Bennet o comunque si chiami) non assume direttamente i facchini, ma appalta invece alcune fasi di lavoro a delle cooperative. Così, quando i facchini della cooperativa X scioperano e si blocca quindi la movimentazione delle merci nell’azienda Z, allora quest’ultima mobilita semplicemente un’altra cooperativa, che chiamiamo Y –magari controllata dagli stessi che controllano anche la cooperativa X-, per garantire il “servizio” che la cooperativa X non riesce più a garantire. Facendo così, i lavoratori in sciopero della cooperativa X diventano una sorta di paria, dei senza diritti, che sostano abusivamente all’ingresso dell’azienda Z, impedendo in maniera illegale l’ingresso delle merci ed ostacolando il diritto al lavoro dei facchini della cooperativa Y.
Questa dinamica, con le tante possibili varianti sul tema, la troviamo regolarmente in praticamente tutte le lotte nel settore della logistica di questi ultimi anni. E quindi, anche la risposta tende ad essere normalmente quella repressiva, dalle botte di polizia e carabinieri, come a Basiano, ai fogli di via per sindacalisti, passando per i licenziamenti politici e i pestaggi paramafiosi. È un mondo duro, esposto alle infiltrazioni malavitose e dove sembra di essere tornati indietro nel tempo, agli albori del movimento sindacale. Ma è un mondo al servizio dei modernissimi interessi dei padroni della logistica e della grande distribuzione.
Ecco, la vicenda Bennet (grande distribuzione) fa parte di quel mondo. Lavoratori, sindacalisti e persone solidali, secondo l’accusa, avrebbero dovuto pagare caro, anche in termini di risarcimento monetario, il fatto di aver lottato e scioperato. Il processo e il giudice hanno detto invece un’altra cosa, assolvendo tutti per le accuse relative alle lotte sindacali, picchetti compresi.
Dal 2008 ad oggi la sindacalizzazione nella logistica ha fatto grandi passi avanti, grazie all’impegno di alcuni sindacati di base (quelli confederali brillano invece per assenza o peggio) e alla determinazione dei lavoratori del settore, spesso in maggioranza migranti. Ma moltissima strada è ancora da fare, poiché continua a prevalere la risposta repressiva e l’assenza di diritti. E anche larghissima parte del mondo politico fa finta di non vedere, quando non si schiera apertamente contro le lotte dei facchini, rendendosi di fatto complice di questa allucinante situazione.
Anche per questo, la sentenza sul caso Bennet è un piccolo ma prezioso segnale.
Luciano Muhlbauer
Era un sabato di quattro anni fa, il 25 settembre 2010 per la precisione, e al liceo Manzoni di Milano si era presentato un nutrito gruppo di neofascisti di Forza Nuova, nella quasi totalità estranei al liceo e al mondo delle scuole medie. L’obiettivo era dare una lezione agli studenti del collettivo, perché contrastavano regolarmente i tentativi di penetrazione dei gruppi nazifascisti nella scuola. Ma poiché l’azione dei neofascisti era una sorta di segreto di Pulcinella, gli studenti avevano chiesto la solidarietà degli antifascisti. Conclusione, i nazi sono stati cacciati dal Manzoni.
Sin dai primi giorni la tesi che andava per la maggiore sulla stampa e nelle dichiarazioni politiche (al governo di Milano c’erano ancora Moratti e De Corato) era quella della “rissa” e degli opposti estremismi. E anche la Questura promise denunce per tutti, sia per neofascisti che per antifascisti, sia per chi veniva “a dare una lezione”, che per quanti quella lezione l’avrebbero dovuta subire. E di conseguenza, quattro anni più tardi, venerdì 18 luglio, inizierà il processo, che vede imputati sia dei fascisti che una ventina di antifascisti, perché, appunto, si sarebbe trattato semplicemente di una “rissa” tra opposte fazioni, come se stessimo parlando di una scazzottata sui Navigli oppure davanti allo stadio.
Tesi comoda, quella della rissa o dei futili motivi, utilizzata a piene mani in questi anni per evitare di dover affrontare i problemi o, almeno, di discuterne. Forse la rissa non fu tirata in ballo anche ai tempi dell’omicidio di Dax oppure i futili motivi nel caso di quello di Abba? Una tesi comoda, anche nel caso della vicenda del Manzoni.
Il 2010 era, infatti, un anno di forti tensioni. C’era un pressing consistente da parte della galassia nazifascista per allargare la propria presenza a Milano e da parte dell'amministrazione comunale prevaleva la tolleranza, se non addirittura la collaborazione. Quella del 2010 fu forse la prima di quelle “primavere nere”, diventate nel frattempo una triste consuetudine nel panorama politico milanese, come ci ha purtroppo confermato anche l’anno in corso. Ricordate le numerose iniziative e le provocazioni di quattro anni fa, comprensive del tentativo di organizzare un concerto-raduno nazifascista proprio il 24 aprile, fallito soltanto grazie alla reazione degli antifascisti? In quelle settimane succedeva di tutto e ci furono anche aggressioni a gay e cittadini stranieri e una lettera minatoria indirizzata al sottoscritto.
Ogni anno vede il protagonismo di una sigla particolare. Quest’anno c’è quello dei neonazisti di Lealtà e Azione, ma nel 2010 era il turno di Forza Nuova. Infatti, passata l’estate, Forza Nuova tornò all’attacco, tentando di mettere piede nelle scuole superiori milanesi, con l’utilizzo della sigla “Lotta Studentesca”, e persino di aprire una sede in corso Buenos Aires, grazie ai buoni uffici del Comune. Ovviamente –e per fortuna- ci fu una reazione: nelle scuole i collettivi studenteschi reagirono e la sede in Buenos Aires non aprì a causa della mobilitazione antifascista, che vedeva insieme un fronte vasto, dai movimenti fino alla Camera del Lavoro.
Ebbene, i fatti del Manzoni del 25 settembre si inserivano in quel contesto. Ed è di questo che bisognerebbe parlare. Ma appunto, è molto più comodo –e ipocrita- parlare di risse o sciocchezze simili, che non spiegano nulla, ma che in cambio assolvono un sacco di gente e istituzioni.
Venerdì mattina ci sarà un presidio, alle 9.00 del mattino, in corso Porta Vittoria, davanti al Tribunale, per esprimere solidarietà agli antifascisti sotto processo e per ribadire che sui valori dell’antifascismo non cediamo di un millimetro. Qui l’evento fb.
Se non siete al lavoro a quell’ora, fateci un salto.
Luciano Muhlbauer
Aggiornamento del 18 luglio: causa vizi di forma il processo è stato rinviato al... 12 dicembre... Non è una battuta, è proprio il 12 dicembre.
Hanno sgomberato Zam. Stamattina la questura si è presentata davanti all’ex scuola di via Santa Croce con il consueto dispiegamento di forza e con l’ordine di sgombero in mano. Gli attivisti di Zam hanno resistito per un po’, ma poi la ragione della forza e dei manganelli, usati peraltro in maniera assolutamente sproporzionato, ha prevalso.
La motivazione formale dello sgombero risiede in quella perizia sulla staticità dell’edificio, che era stata sollecitata da un “comitato” contiguo alle destre e che il Comune aveva depositato a inizio giugno presso la Prefettura, a disposizione del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. Secondo quella perizia la parte inagibile e pericolante (non occupata e non accessibile) dell’edificio comprometterebbe la staticità anche della parte agibile (e occupata). Infatti, la questura era pronta all’intervento contro Zam sin dall’inizio giugno, facendo passare temporaneamente in secondo piano quello già programmato contro il centro sociale Lambretta.
Tuttavia, la prospettiva del doppio sgombero pre estivo di Zam e Lambretta, oltre ad eccitare la fantasia dei vari De Corato e leghisti in salsa frontenazionale, aveva sollevato giustamente delle polemiche (vedi per esempio il mio articolo per il Manifesto Spazi sociali, a Milano il clima non è cambiato) e prodotto alcune iniziative. Diverse voci, tra cui anche la Camera del Lavoro, avevano chiesto alle istituzioni una moratoria sugli sgomberi e il Comune aveva aperto un tavolo di confronto sugli spazi sociali, che nelle intenzioni doveva coinvolgere anche i centri sociali e le realtà dell’autogestione. Ma di moratorie non se ne sono viste e nel frattempo, appunto, i dossier di Zam e Lambretta erano già stati passati a Prefettura e Questura, cioè a chi si occupa dei problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico e con gli strumenti dell’ordine pubblico.
E così, siamo praticamente tornati alla situazione di partenza, cioè allo sgombero di Zam e Lambretta. Già, perché Zam è stato sgomberato oggi e al Lambretta, a quanto pare, toccherà la stessa sorte prima ancora che finisca l’estate.
Oggi ha perso la politica, la città. Ci sarà tempo e modo per discutere di quello che è stato fatto e non fatto, dei dialoghi e dei tavoli, del che fare a Milano in tema di spazi sociali. Ora però dobbiamo fare qualcosa di più urgente, cioè essere solidali con Zam e Lambretta, camminare insieme a loro. Nei momenti di resistenza, certo, ma anche e soprattutto in quelli che seguiranno, quando si tratterà di rinascere in una nuova casa.
Luciano Muhlbauer
Il presidio fuori da Zam continua tutto il giorno. I tre attivisti rimasti sul tetto dopo le cariche all'ingresso sono scesi a mezzogiorno. L'appuntamento è alle ore 18.30 davanti allo Zam sgomberato per un'assemblea e poi per una mobilitazione. Per tenervi aggiornati e leggere la cronaca della giornata, consultate il sito http://milanoinmovimento.com/
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Comunicato stampa:
ZAM: SGOMBERO È MACIGNO LANCIATO CONTRO DIALOGO SU SPAZI SOCIALI.
SOLIDARIETÀ A ZAM
Dichiarazione di Luciano Muhlbauer
Lo sgombero di Zam è una sconfitta per la politica e un macigno lanciato contro il tentativo di dialogo e confronto sugli spazi sociali a Milano. E il fatto che dopo Zam si prospetti la stessa sorte, ancora prima che finisca l’estate, anche per il centro sociale Lambretta, non fa che rendere più grevi queste considerazioni.
Ho ritenuto e ritengo che l’apertura di un tavolo da parte del Comune fosse un passo importante e significativo, perché rappresentava la volontà e la possibilità di iniziare un ragionamento nuovo e pubblico, diverso da quelli del passato, sugli spazi sociali e sull’autogestione nella nostra città. Continuo a pensare che di questo spazio di confronto ci sia un grande bisogno, ma allo stesso tempo non si può fare finta che gli sgomberi non siano oggettivamente un impedimento al dialogo.
Dall’interno dello stesso tavolo diverse voci avevano chiesto una moratoria sullo sgomberi, tra cui anche la Camera del Lavoro. Non è andata così. Quindi, ora è necessario trovare le strade e gli atti nuovi che permettano di ridare una possibilità a quel confronto.
Delegare la soluzione dei problemi a chi si occupa di ordine pubblico e non di amministrazione del territorio non produce mai nulla di buono, anzi, come purtroppo ha confermato questa mattinata, dove si è registrato anche un uso eccessivo e gratuito della violenza da parte dei reparti mobili della Questura contro gli attivisti, presenti a mani nude e con l’unico intento della resistenza passiva.
Esprimo la mia solidarietà agli attivisti di Zam, auspicando che la loro esperienza possa trovare al più presto una nuova casa.
Milano, 23 luglio 2014
di lucmu (del 25/07/2014, in Lavoro, linkato 1168 volte)
Un’altra buona notizia dal fronte della logistica. Dopo la positiva sentenza del processo Bennet di alcune settimane fa, dove sul banco degli accusati sedeva di fatto il diritto di sciopero, ora arriva anche la firma di un accordo sindacale tra S.I.Cobas e Legacoop sulla vertenza Granarolo, dopo 15 mesi di lotta contro il licenziamento di 51 operai.
La firma di un accordo sindacale rappresenterebbe la più normale delle notizie se parlassimo di altre categorie economiche, ma nel caso della logistica e della movimentazione merci, dove ormai predominano gli appalti e i subappalti, le cooperative e la sistematica elusione dei più elementari diritti dei lavoratori, nonché l’uso abituale della repressione contro chi sciopera, un accordo sindacale rappresenta una mezza rivoluzione. Già, perché la primissima cosa che si nega ai facchini è il loro diritto di potersi organizzare sindacalmente e scioperare.
Con la firma di questo accordo, il 22 luglio scorso nella Prefettura di Bologna, si compie il primo passo verso il reintegro dei 51 facchini licenziati perché avevano scioperato (per i dettagli leggi il comunicato S.I.Cobas) e, per prima volta, la Legacoop riconosce il diritto di questi lavoratori, come peraltro prevedrebbe la nostra Costituzione, di potersi organizzare liberamente in un sindacato. È dunque un accordo importantissimo, perché rappresenta un precedente da valorizzare e da estendere, a partire da tutte le vertenze aperte, Ikea compresa.
Ma soprattutto occorre sottolineare un’altra cosa: la lotta paga! Già, perché questo accordo non è il frutto del caso o di una gentile concessione, bensì di una lotta durissima e prolungata, dove ci si batteva ad armi assolutamente impari. Da una parte i facchini e la loro determinazione, il piccolo ma preziosissimo sindacato di base S.I.Cobas, il sostegno militante di alcune realtà del movimento bolognese e una solidarietà diffusa che si espresse anche in altre città con la campagna di boicottaggio dei prodotti Granarolo. Dall’altra parte, non solo la potente Legacoop, sostenuta da un’analoga posizione da parte di tutti i giganti della grande distribuzione, ma anche l’ostilità, sovente molto attiva, da parte di Cgil, Cisl e Uil, di ampie parti dell’informazione mainstream e della grande maggioranza del mondo politico. Ma alla fine ha vinto Davide e Golia si è dovuto sedere al tavolo della trattativa.
Insomma, facciamo tesoro di questo insegnamento, perché di questi tempi la confusione è tanta.
Luciano Muhlbauer
Aggiornamento del 30 luglio: dopo quello con Legacoop, oggi è stato firmato a Bologna il secondo accordo sulla vertenza Granarolo, quello tra S.I.Cobas e Cogefrin e Consorzio SGB (vedi comunicato sindacale S.I.Cobas). A questo punto è previsto, per ora sulla carta, come sottolineano anche i lavoratori, il reintegro di tutti i 51 facchini licenziati.
di lucmu (del 30/07/2014, in Pace, linkato 8554 volte)
C’era una volta la solidarietà con il popolo palestinese. Nella sinistra politica, nei movimenti e tra i pacifisti era semplicemente una cosa scontata, ovvia. Anzi, in Italia sentirsi di sinistra e sentirsi solidali con i palestinesi era quasi la stessa cosa, faceva parte dell’identità. E così, ogni volta che Israele scatenava una delle sue periodiche campagne repressive o di guerra, c’è sempre stata mobilitazione e indignazione. Oggi, invece, dopo tre settimane di bombardamenti su quella prigione a cielo aperto che si chiama Gaza, con più di 1.200 morti, in grandissima parte civili, 5mila case rase a suolo e oltre 200mila sfollati, continuano a prevalere, salvo qualche eccezione, il silenzio e l’immobilismo.
Certo, i tempi sono cambiati e viviamo in un momento storico difficile. La sinistra italiana non è più quella di una volta, per usare un eufemismo, e anche i movimenti non se la passano poi tanto bene. Genova, il movimento dei movimenti, il pacifismo di massa contro la guerra all’Iraq sono cose lontane, appartengono a un’altra era. Anche in Palestina le cose sono cambiate. Una volta a casa nostra si litigava se bisognasse sostenere Al Fatah oppure un’opzione di sinistra più radicale, come il Fronte popolare. Oggi, Al Fatah è ridotta a uno scimmiottamento di uno dei tanti regimi corrotti che i popoli dell’area devono subire e l’organizzazione palestinese egemone nella resistenza all’occupazione israeliana è Hamas.
Sì, il mondo è cambiato e non ci piace. Noi arranchiamo a casa nostra e là in Palestina fatichiamo a trovare interlocutori politici con cui immaginare un percorso comune. E allora, per molti il silenzio, il guardare dall’altra parte e lo sperare che tutto finisca presto, diventa la via di fuga da un problema che non si riesce a risolvere. Altri, pochi per fortuna, si perdono (forse definitivamente) nella confusione e pensano che la presenza di fascistoidi, rossobruni, antisemiti e feccia simile nelle iniziative contro le bombe di Israele non siano un problema importante. Altri ancora, molti di più in questo caso, a volte sospinti dall’immancabile opportunismo, pensano che non ci si possa schierare contro la politica di Israele, perché Hamas non è progressista, bensì islamista, e perché spara missili su Israele, anche se difficilmente questi raggiungono un qualche obiettivo che non sia di natura propagandistica.
Ma se tante cose sono cambiate, ce n’è una che non è mai mutata, che continua imperterrita. Ed è la storia dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi, la storia di un popolo che non ha né terra, né sicurezza, né pace. È più questa storia continua, più diventa grave, irrisolvibile, definitiva. Israele non ha cominciato la guerra da quando c’è Hamas, ma l’ha sempre fatta contro le organizzazioni palestinesi, comunque si chiamassero, Olp, Fplp o Hamas, e qualunque fosse il loro orientamento di fondo, laico, di sinistra o islamista.
Israele non ha mai smesso di occupare e consumare territorio palestinese e se oggi prendete in mano una carta geografica potete vedere che i territori palestinesi sono ridotti a poca cosa, cioè a quella Striscia di Gaza di 360 km² dove si ammassano oltre 1,5 milioni di persone e a quella Cisgiordania dove le colonie israeliane sono avanzate talmente tanto da far assomigliare gli insediamenti palestinesi a dei fortini assediati. Insomma, andando avanti di questo passo, la proposta “due popoli due stati” diventerà definitivamente una chimera, semplicemente per mancanza di territorio per uno stato palestinese. O detto altrimenti, oggi il popolo palestinese, a Gaza e in Cisgiordania, sta lottando per la sua sopravvivenza.
La realtà è questa e chi veramente auspica la pace e la convivenza tra i popoli deve partire da qui. Oggi parlare di pace ha senso soltanto se ci si impegna per la fine dei bombardamenti israeliani, la fine dell’assedio e dell’embargo di Gaza, lo stop all’espansione delle colonie israeliane in Cisgiordania, la liberazione dei prigionieri politici palestinesi, eccetera. Ma la pace non è un dono che cala dall’alto, va conquistata, perché non fa parte delle opzioni politiche del governo Netanyahu (e allo stato neanche di quelle dei regimi egiziani e sauditi; altra cosa che non cambia mai). Anzi, l’attuale guerra è stata probabilmente decisa nel momento esatto in cui una Hamas indebolita ha annunciato di essere disponibile a ricostruire un governo palestinese unico nel quadro dell’Autorità nazionale palestinese. Sarebbe stato un fatto che in sé avrebbe spinto verso negoziati di pace e Netanyahu non avrebbe potuto dire di no.
Da noi c’è troppo silenzio e non ci sono giustificazioni. Anzi, c’è un aggravante, cioè l’inqualificabile posizione del governo Renzi, che non solo non pronuncia neanche le solite frasi di circostanza, ma che sta addirittura per consegnare a Israele i primi aerei M-346 nell’ambito del programma di cooperazione militare italo-israeliano.
In questo quadro, fare gli equidistanti, parlare d’altro, non mobilitarsi a fianco dei palestinesi e contro i bombardamenti israeliani non ha alcun senso per chi si considera uomo o donna di sinistra. Anzi, se non stiamo con il popolo palestinese ci giochiamo una parte della nostra anima.
Luciano Muhlbauer
P.S. a proposito, oggi a Milano, alle ore 18.00, in piazza Duomo, angolo Piazzetta Reale, c’è un’altra mobilitazione per la Palestina, un presidio intitolato RESTIAMO UMANI STOP AI BOMBARDAMENTI SU GAZA. Evento fb: www.facebook.com/events/1543684485859833/
Le vacanze (se le avete fatte) sono finite e a Milano si ricomincia subito da dove ci eravamo lasciati un mesetto fa, cioè dagli sgomberi. Il 23 luglio era toccato allo Zam e ora e il turno del Lambretta, ancora prima che inizi settembre, a quanto pare.
Non è una sorpresa, né uno scoop, ovviamente, poiché lo sgombero delle villette del Quartiere Del Sarto, zona piazza Ferravilla, lasciate per anni vuote e abbandonate dall’Aler e poi occupate da un collettivo di studenti e precari della zona, era ampiamente annunciato sin dalla primavera scorsa. Ma poi, con una vera e propria escalation estiva, si era aggiunto all’improvviso un altro sgombero da fare con urgenza: quello di Zam. E così, il Lambretta era finito in lista d’attesa.
Tavoli convocati, confronti avviati e poi impantanati, appelli per una moratoria degli sgomberi inascoltati eccetera. La storia la conoscete, ne abbiamo parlato parecchio, e comunque è finita com’è finita. Quindi, non ripetiamo cose già dette e concentriamoci invece sulle cose concrete.
L’intervento della Questura pare, appunto, molto imminente. Di più non si sa. Dunque, in questi giorni seguite i profili fb e twitter del Lambretta, consultate siti come Milano In Movimento e MilanoX e ascoltate Radio Popolare. E poi, magari raccogliamo anche gli inviti alla mobilitazione e alla solidarietà che verranno lanciati, perché i ragazzi e le ragazze del Lambretta non si meritano di essere lasciati da soli. Né ora, né in prospettiva, quando si tratterà di ridare a Milano nuovi spazi sociali autogestiti.
Stay tuned!
Luciano Muhlbauer
Il blitz di polizia e carabinieri è scattato alle 7 di stamattina e le villette occupate dal centro sociale Lambretta e quelle occupate da diversi nuclei familiari, con la presenza di numerosi bimbi, sono state sgomberate. Tuttavia, sei attivisti del Lambretta si trovano ancora sul tetto di una delle palazzine, dove resistono da stamattina presto. Allo stato non si registrano né feriti, né fermati o arrestati. Il Lambretta invita a passare in piazza Ferravilla, dov’è in corso un presidio permanente, e comunque dà appuntamento a tutti e tutte per le ore 20 di oggi per una manifestazione.
In estrema sintesi, è questa la cronaca di quanto avvenuto oggi a Milano. Se volete maggiori dettagli, leggete i racconti dei fatti di Milano In Movimento e di MilanoX.
Politicamente parlando, si chiude così il breve ciclo apertosi a primavera con gli annunci che sia Zam, che Lambretta erano sotto sgombero. Sono passati alcuni mesi e molte parole sono state spese, ma ora i due centri sociali milanesi, espressione ambedue di una nuova generazione di attivisti di movimento, si trovano senza casa.
Sarebbe tuttavia sciocco pensare che la cosa finisca qui, cioè che insieme agli immobili siano stati sgomberati anche la voglia di fare, di autorganizzarsi e di lottare per cambiare lo stato di cose presente. Si mettano quindi l’animo in pace quanti -a destra, ma non solo- auspicano il silenzio e il deserto.
Certo, gli attivisti di Zam e Lambretta hanno dovuto investire e consumare molte energie in questi mesi e fare i conti con un duplice sgombero non è semplice per nessuno. Non lo è per militanti consumati, figuriamoci per i tanti e le tante giovani che hanno animato i due spazi sociali. Occorrono dunque energia, lungimiranza e forza di volontà per ripartire senza perdere un attimo e riaprire così un nuovo ciclo. Ma ce la faranno, sono certo.
E soprattutto auspico che ce la facciano, perché checché ne dicano taluni, gli spazi sociali e i ragazzi e le ragazze, gli uomini e le donne che gli danno vita e colore non sono un problema, ma una ricchezza e una speranza di futuro. Quindi, camminiamo insieme a loro, oggi, ma anche domani, quando bisogna ridare a Milano i suoi spazi sociali.
Primo appuntamento, stasera alle ore 20 in piazza Ferravilla. Se siete in città e se potete, fateci un salto.
Luciano Muhlbauer
Giorgio Salvetti, giornalista della redazione milanese del Manifesto, ha deciso di lasciarci mercoledì 27 agosto. I funerali si tengono lunedì alle h. 14.15 nella sala commiato del Cimitero di Giubiano di Varese.
Non riesco a prendere commiato da te Giorgio. Ci sei sempre stato, non so come possa essere senza di te. Quante volte ci siamo sentiti per raccontare una manifestazione, un presidio, una lotta o per un’opinione, un commento oppure semplicemente per scambiarci due idee, perché non era mai una cosa a senso unico?
Ci siamo sentiti anche martedì, ricordi? Era in corso lo sgombero del centro sociale Lambretta e ti ho telefonato per allertarti in vista di un tuo articolo. Tu mi hai detto che però non eri al lavoro, che avevi preso un giorno libero, perché era il tuo compleanno. Così ti ho fatto gli auguri, ma prima ancora che riuscissi a chiudere la telefonata, mi hai detto che avresti avvisato lo stesso Roma per vedere se interessava. Il tardo pomeriggio mi hai poi richiamato, dicendomi che avresti scritto lo stesso, perché era importante che la notizia fosse sul Manifesto. Ne è uscito un buon articolo, ripreso poi da diversi siti di movimento milanesi. Eppure, mentre parlavi con me come tante altre volte, mentre ti mettevi a scrivere lo stesso, perché era importante, chissà che tremendo tumulto avevi dentro. Forse avevi già preso la decisione di andartene.
Ma tu eri, sei fatto così. Giornalista serio e scrupoloso, uomo e compagno sempre disponibile e presente. Persino quel martedì.
Giorgio, non sono ancora pronto per salutarti, ma ti auguro che ovunque ti trovi adesso, tu possa incontrare quella parte di serenità che qui ti era mancata. Io, noi, comunque, saremo sempre con te, così come dev’essere tra compagni, amici e fratelli.
Luciano Muhlbauer
Certo, non è ancora un testo di legge, molti particolari non proprio insignificanti sono avvolti nel mistero e poi ci saranno anche due mesi di consultazione pubblica, ma il piano “la buona scuola” del governo Renzi è pur sempre un testo organico di 136 pagine, che pretende indicare le linee guida per riformare la scuola italiana. E quindi, nessuno può esimersi dall’esprimere sin da subito una valutazione, un’opinione o un giudizio, in particolare per quanto riguarda il modello di scuola pubblica che viene delineato.
Già, perché il cuore strategico della “buona scuola” non è l’aspetto che ha avuto finora più attenzione mediatica e più simpatia pubblica, compresa la nostra, cioè l’annuncio che si porrà finalmente fine all’odiosa piaga del precariato nella scuola, assumendo nel settembre dell’anno prossimo 150mila insegnanti precari e svuotando così le graduatorie ad esaurimento e quella del 2012. Sempre che si trovino i 4 miliardi necessari per finanziare l’operazione, ovviamente, e che il tutto non finisca come la vicenda degli stipendi dei dipendenti pubblici, il cui blocco è stato ancora una volta reiterato, nonostante le tante chiacchiere estive del governo.
No, il cuore è il futuro modello di scuola ed è qui che bisogna iniziare a preoccuparsi o perlomeno a porsi seriamente qualche domanda, visto che il progetto, per nulla originale, si pone in piena continuità con quanto fatto o tentato dai precedenti governi e, persino, con i capisaldi della proposta di legge Aprea del 2008.
Esagero? Non credo e comunque vi invito a investire un po’ del vostro tempo e leggere con attenzione il piano “la buona scuola”. Non fatevi incantare dalle belle parole e dalla grafica accattivante e mettete per un attimo da parte le cose buone che pure ci sono, come il wi-fi e la banda larga o l’insegnamento della musica e della storia dell’arte, e concentratevi sull’essenziale. E così scoprirete concetti e proposte contro i quali siete probabilmente scesi ripetutamente in piazza negli ultimi anni.
Le parole d’ordine sono differenziazione e premialità e questo vale sia per il personale della scuola (docenti, amministrativi, dirigenti), che per gli istituti scolastici. Lo stipendio degli insegnanti, tra i più bassi d’Europa, verrà ristrutturato e reso meno certo nel suo valore. In altre parole, non crescerà più nel tempo in base all’anzianità di servizio, ma sarà sempre più condizionato dalle sue nuove parti variabili e differenziate, in base ai meriti e ai crediti. Anche gli istituti scolastici saranno sottoposti a valutazione e quest’ultima influirà non poco sulla quantità di risorse pubbliche che la singola scuola potrà ottenere.
Ma le scuole non dovranno competere solo per le risorse pubbliche, ma soprattutto cercarsi collaborazioni e finanziamenti sul mercato, cioè tra i privati. E per poter fare questo “la buona scuola” prevede una serie di nuove agevolazioni per i privati, tutte dalla denominazione rigorosamente in english (school bonus, school guarantee, crowdfunding), e soprattutto una modifica sostanziale del modo di essere del singolo istituto scolastico, che dovrà diventare una scuola-azienda, diretta da un preside-manager.
Il passaggio più rilevante a questo riguardo di “la buona scuola” è significativamente anche tra i più scarni dell’intero testo: “Anzitutto per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.” (pag. 124). Ebbene, ora leggetevi anche l’articolo 2 della proposta di legge Aprea e scoprirete un'assonanza davvero impressionante.
Insomma, il modello immaginato da Renzi prevede un sistema scolastico basato sulla differenziazione e sulla competizione. Tutto va conquistato, dal valore dello stipendio alle risorse economiche per l’istituto, passando per lo stesso posto di lavoro. Già, perché sarà la singola scuola, nella sua autonomia, a decidere le assunzioni, attingendo a un apposito registro nazionale docenti, contenente il “portfolio ragionato” di ogni singolo insegnante e amministrativo.
E tutto questo, come ci insegna l’esperienza dei sistemi scolastici che in giro per il mondo hanno spinto questi concetti alle estreme conseguenze, non può che produrre l’accentuazione e la cronicizzazione delle disuguaglianze e delle differenziazioni già esistenti tra i ceti sociali e i territori. Insomma, l’esatto contrario dei principi che avevano ispirato la riforma dell’istruzione pubblica a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, il cui obiettivo era tra l’altro garantire l’accesso alla scuola pubblica e all’università a tutti e tutte, a prescindere dalla provenienza sociale o territoriale. Ora la scuola proposta da Renzi, e praticamente identica a quella già immaginata da Berlusconi, Monti e Letta e dalle stesse puntuali letterine europee, ci dice che l’uguaglianza, persino quella delle opportunità, è roba del passato e che nel futuro ci sarà spazio soltanto per una parte e non per tutti e tutte. E pazienza se la lotteria della vita ha deciso di farti nascere in una famiglia con pochi mezzi economici e in un quartiere sfigato.
Infine, vi chiederete cosa dica questo testo sulla scuola privata, cioè quella che ormai si chiama pudicamente “paritaria”. Ebbene, praticamente non ne parla e c’è giusto qualche accenno di qua e di là, come nel caso del sistema nazionale di valutazione, che dovrà valutare tutti gli istituti, sia pubblici che “paritari”. Poca roba, insomma, ma che fa capire che questo governo, in continuità con quelli precedenti, considera la scuola pubblica e quella privata facente parte dello stesso sistema, della stessa offerta formativa. Per il resto, un premier molto attento alla comunicazione, avrà valutato che forse non era il caso di insistere troppo su un tema non molto popolare di questi tempi, come il finanziamento pubblico alla scuola privata. D’altronde dei soldi da dare alle private si parlerà altrove, non certo in un testo destinato al dibattito pubblico.
Luciano Muhlbauer
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