Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Brebemi, Teem, Pedemontana e chi più ne ha più ne metta. Sono le grandi opere autostradali della Lombardia, esaltate e celebrate per lunghi anni come un must per il futuro della regione e del paese, per la sua viabilità e per il suo sviluppo economico. E chiunque osasse sollevare un dubbio o una critica, veniva tacciato di disfattismo, di nimby o peggio. I principali sponsor politici di quelle colate d’asfalto siedono ai piani alti del Palazzo della Regione, ma il coro di sostegno è sempre stato molto bipartisan. Memorabili, a questo proposito, le performances dell’allora Ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, che nel 2007 voleva zittire i critici lombardi della Brebemi, minacciando di far appendere in autostrada manifesti con le loro facce e i loro nomi.
Comunque sia, gli anni passano e la prima di quelle grandi opere autostradali, cioè la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano), non è più un progetto, ma una realtà. È stata inaugurata in pompa magna il 23 luglio scorso alla presenza del Presidente del Consiglio e battezzata A35. Ma i fasti mediatici sono durati poco e neanche due mesi dopo le perplessità hanno già conquistato l’influente prima pagina nazionale del Corriere della Sera, che oggi infatti titola “La nuova autostrada con le corsie vuote”.
Ma vediamo cos’è successo in questi due mesi, lasciando da parte le polemiche degli anni passati e concentrandoci sui fatti.
Primo, un minuto dopo l’inaugurazione si era già scatenata una vera e propria guerra tra l’A35 e il gestore della “vecchia” A4, cioè Autostrade per l’Italia, per accaparrarsi il cliente-automobilista della tratta Brescia-Milano. E così, l’A4 ha collocato in autostrada un megacartello che comparava i costi e i tempi di percorrenza della tratta Brescia-Milano. La vicenda è finita in tribunale, ma proprio in questi giorni Brebemi ha perso la causa. Comunque, la guerra dei cartelli tra le due autostrade è destinata a continuare, visto che ora un alleato commerciale della Brebemi, cioè il gestore dell’A21 (Brescia-Piacenza-Torino), ha fatto collocare dei cartelli che fanno deviare il traffico per Linate sulla A35, omettendo però di comunicare che così facendo si dovrà fare un pezzo su una strada provinciale (vedi articolo su Bresciaoggi).
Secondo, quanto affermato dal cartello della discordia posto sulla A4 è sostanzialmente vero: prendere la Brebemi costa di più e allo stato ci metti pure più tempo! Infatti, considerando il tratto Brescia Ovest – Milano Est, sulla A4 spendiamo 6,30 € (per i Tir 15,30), mentre sulla A35 il pedaggio ci costa 12,40 (per i Tir 33,60). Per quanto riguarda i chilometri da percorrere su questa tratta, per l’A4 sono 77 km, mentre per l’A35 sono 92. Ora, è scontato che i tempi di percorrenza sulla Berbemi potranno in parte migliorare, a seconda della destinazione scelta, nella misura in cui la Teem (Tangenziale Est Esterna di Milano) sarà operativa, ma per quanto riguarda i costi il panorama non cambierà.
Terzo, i pedaggi sensibilmente più alti rispetto all’A4 sono anche tra le principali cause del poco utilizzo della Brebemi da parte degli automobilisti. Infatti, le stime originarie di Brebemi sui volumi di traffico prevedevano 40mila macchine al giorno alla partenza e circa 60mila a regime. Ora, in base a una media giornaliera reale di 18mila macchine, le stime sono state riviste: 22mila nel 2015 e 48mila a regime.
Quarto e ultimo, la Brebemi SpA è una società privata e l’autostrada è stata finanziata in project financing. Anzi, questo aspetto era proprio uno dei fiori all’occhiello dell’operazione. “Neanche un euro del contribuente”, “tutto pagato dai privati” si diceva. Ma è davvero così? Non più, a quanto pare. Infatti, prima sono lievitati di parecchio i costi dell’opera (come peraltro sempre accade dalle nostre parti), dagli 800 milioni di euro preventivati inizialmente agli attuali 2,4 miliardi. E poi, anche di fronte a un pedaggio poco competitivo, la società ha dovuto rivedere il volumi di traffico previsti. In altre parole, i conti non tornano più e di conseguenza i privati sono andati a bussare alla porta pubblica, chiedendo un prolungamento della concessione dai 20 ai 30 anni e, soprattutto, una defiscalizzazione nell’ordine di quasi mezzo miliardo di euro. Vedremo come risponderà il governo.
Insomma, a conclusione di queste considerazioni, come la mettiamo con l’opera strategica e assolutamente imprescindibile per una viabilità razionale e per lo sviluppo economico del territorio? Davvero sono giustificati i costi economici e ambientali sostenuti di fronte alla realtà che abbiamo davanti? Certo, non pretendo che il dibattito pubblico faccia all’improvviso proprie le tesi di quanti, come il sottoscritto, avevano da subito criticato l’opera, segnalando peraltro proprio quegli elementi di criticità che ora si sono manifestati e che erano in buona parte prevedibili. Ma che almeno ci si ponga qualche domanda, che si apra qualche riflessione seria sulle scelte da fare, specie tra i cosiddetti decision-makers, questo sì che lo pretendo.
Purtroppo, devo prendere atto che finora non è stato così, nonostante qualche articolo di peso su qualche quotidiano di peso. Anzi, in casa dei principali sponsor di queste politiche insensate non solo si fa finta di niente, ma si insiste addirittura. Sono infatti di pochi giorni fa le stupefacenti dichiarazioni del Presidente leghista della Lombardia, Roberto Maroni, che in occasione del passaggio del gruppo Serravalle dalla Provincia di Milano a Regione Lombardia ha esclamato: “la Lombardia ha bisogno di nuove infrastrutture: servono, almeno, 200 chilometri di autostrade o di strade veloci”.
Detto altrimenti, se speriamo in qualche ravvedimento spontaneo allora stiamo freschi!
Luciano Muhlbauer
La Regione Lombardia privilegia la scuola privata e discrimina la scuola pubblica. Alla prima vanno ogni anno decine di milioni di euro di denaro pubblico e alla seconda soltanto le briciole, peraltro sempre più esigue. Ma questo lo sanno ormai quasi tutti, così come anche i più testardi hanno dovuto prendere atto che nulla è cambiato con il passaggio dal ciellino Formigoni al leghista Maroni.
Però, fuori dal palazzo qualcosa ha iniziato a cambiare, poiché sempre più cittadini considerano questo stato delle cose per quello che effettivamente è: uno scandalo puro e semplice. E così, ad aprile è arrivato anche il primo ricorso al Tar vinto da due genitori della scuola pubblica e, di conseguenza, a Milano è stata promossa una sorta class action, proposta e coordinata dall’Associazione NonUnoDiMeno, con il sostegno della Flc Cgil. Ne abbiamo parlato approfonditamente nel nostro articolo di inizio luglio. Rileggetelo per sapere cosa dice esattamente la sentenza e il ricorso.
Ebbene, l’invito a chiedere in massa il rimborso a Regione Lombardia è stato un indubbio successo, a riconferma che qualcosa sta cambiando. Nonostante il periodo estivo, si sono recati agli sportelli quasi 2500 genitori a Milano e un migliaio in provincia.
Ma, com’era ampiamente prevedibile, non basta firmare una richiesta a Regione Lombardia perché si ottenga un risultato. Infatti, il 15 luglio scorso, l’assessorato regionale competente, amministrato da quella Valentina Aprea che nel 2008 aveva dato il suo nome alla famosa proposta di legge che intendeva privatizzare gli istituti scolastici (e che ora la buona scuola di Renzi intende risuscitare), ha chiarito formalmente che non intende pagare nulla, poiché la sentenza del Tar vale solo per chi ha fatto e vinto il ricorso e per nessun altro (vedi comunicato originale Rimborsi dote scuola 2013/2014 a seguito sentenza TAR).
E quindi, eccoci alla fase due, cioè alla class action vera e propria. Infatti, giovedì 18 settembre riapriranno gli sportelli presso la Camera del Lavoro di Milano, ma questa volta saranno due: uno per continuare a raccogliere le richieste di rimborso alla Regione e, l’altro, per promuovere il formale ricorso al Tar a fronte del diniego della Regione di corrispondere il rimborso.
Gli sportelli funzioneranno nei seguenti orari: da lunedì e giovedì, dalle ore 16.00 alle 19.00, presso la Camera del Lavoro in Corso Porta Vittoria 43, a Milano.
Ricordate però che per poter partecipare a questa ricorso dovete essere genitori di studenti della scuola pubblica che abbiano ottenuto il contributo regionale per il “sostegno al reddito” per l'anno scolastico 2013/2014.
Informazioni, materiali e contatti potete trovarli sul sito degli organizzatori della class action: NonUnoDiMeno.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 19/09/2014, in Lavoro, linkato 1302 volte)
La vera domanda non è quando usciremo dalla crisi, ma come ne usciremo e, soprattutto, in che mondo ci ritroveremo dopo. Già, perché comunque vada, non sarà un ritorno al prima, come se si trattasse di guarire da una febbre passeggera, e le attuali politiche di governi, banche centrali e troike varie non servono tanto e soltanto per riattivare un’economia depressa, ma anche per disegnare un altro e nuovo modello sociale e politico, in dichiarata antitesi con quanto abbiamo conosciuto nell’epoca post sessantottina e persino post Liberazione. Insomma, con quello che a volte viene riassunto nel termine generico di modello sociale europeo.
Certo, lo so, detto così suona un po’ astratto e soprattutto terribilmente lontano dai problemi ben più impellenti che la maggior parte di noi deve affrontare nella quotidianità, tipo come arrivare alla fine del mese, come trovare un lavoro o un reddito o come immaginarsi un futuro. Siamo stufi, sfiduciati, squattrinati, precari e disillusi, non abbiamo più tempo e voglia di interrogarci sui grandi temi, desideriamo soltanto che finisca e che torni il sole. E così, siamo anche disposti a cantare nel coro delle Riforme, qualunque cosa vogliano dire, e persino a consegnare a Renzi il 40% dei voti.
Tutto comprensibile, per carità, ma anche tutto sbagliato, perché di questo passo rischiamo una fregatura grossa come una casa e potremmo ritrovarci con tante riforme fatte, un Pil in crescita e un debito pubblico in calo, ma noi più scemi di prima, con il conto da pagare in mano e sempre precari, squattrinati e con un futuro incerto. Insomma, magari ci conviene ricominciare ad occuparci dei grandi temi e leggere le famose riforme alla luce del modello di società che indicano, cioè del futuro che ci preparano. E questo vale anche –e forse soprattutto- per l’annosa questione dell’articolo 18 e della riforma del mercato del lavoro, cioè uno di quei dibattiti con il maggior tasso di teatrini, ipocrisie e giochi pirotecnici che ci sia in giro.
Il teatrino
Correva l’anno 2001, quello di Genova, e al governo c’era di nuovo Berlusconi. Nell’ottobre di quell’anno l’allora Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il leghista Roberto Maroni, pubblicò il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, con l’obiettivo di “una complessiva rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro”. Alla sua stesura aveva lavorato un gruppo di lavoro coordinato dall’allora sottosegretario Maurizio Sacconi e dal giuslavorista Marco Biagi. Quel libro bianco avrebbe poi partorito il D.lgs. n 276/2003 (più conosciuto come legge Biagi), cioè quella riforma del mercato del lavoro che diede una potentissima spinta alla diffusione dei contratti precari, a cui erano già state aperte le porte dal cosiddetto Pacchetto Treu nel 1997.
Con il libro bianco si era anche aperto il fronte dell’articolo 18, che da allora in poi non si sarebbe più chiuso. Ma a quel tempo il teatrino era ancora limitato e lo scontro era più trasparente e vero. Infatti, le velleità di modificare direttamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori furono bloccate da una fortissimo mobilitazione sindacale, sfociata nella famoso manifestazione dei 3 milioni del 23 marzo 2002. Ma erano altri tempi, erano gli anni dei movimenti di Genova, che infatti avevano sostenuto la mobilitazione della Cgil, e poi al governo c’era Berlusconi e quindi anche dalle parti del centrosinistra si era più radicali.
Ma appunto, i tempi cambiano, e quando fu ripreso il tema dell’articolo 18 il teatrino non aveva più freni. In questi anni l’articolo 18 è stato incolpato più o meno di tutto, ma fondamentalmente le accuse sono di due tipi: primo, sarebbe una roba vecchia, da privilegiati, anzi il pilastro di un sistema di apartheid (copyright by Renzi) che discrimina i giovani e, secondo, sarebbe uno dei responsabili del fatto che non si facciano investimenti in Italia.
Nel merito queste accuse sono piuttosto inconsistenti e persino ridicole. Infatti, è un po’ difficile sostenere seriamente che la precarietà sia colpa dei lavoratori che hanno ancora un contratto a tempo indeterminato e non delle leggi che hanno liberalizzato i contratti precari. E poi, cosa vuol dire risolvere il dualismo del mercato del lavoro, togliendo i diritti a chi ancora ce li ha e non riconoscendo i diritti a chi oggi ne è privo? Per quanto riguarda gli investimenti, basterebbe leggersi le valutazioni delle società specializzate in materia o sentire le lamentele dei famosi investitori esteri, dove tra le ragioni di criticità dell’Italia è molto difficile trovare l’articolo 18 e il reintegro, se non nelle ultime posizioni. Infatti, ben altre sono lamentele, dal costo dell’energia al peso degli adempimenti burocratici, dai tempi lunghi della giustizia civile alla corruzione.
Ma, appunto, il merito ha poco spazio in questo dibattito e nella sua dimensione pubblica e propagandistica contano le percezioni e le sensazioni trasmesse. E così, il teatrino va a gonfie vele, alfaniani contro bersaniani, forzitalioti contro sindacalisti, camussiani contro governativi, Pd di minoranza contro Pd di maggioranza eccetera eccetera. Ognuno con la sua bandiera e ognuno interessato più agli affari suoi che al merito della questione. Un teatrino utile, beninteso, anzitutto per chi vuole fare tabula rasa di ogni tutela in materia di licenziamenti, perché rafforza la sensazione che la contesa non riguardi i lavoratori, i precari e i disoccupati, ma che sia soltanto una questione di litigio tra politici.
Infine, il meschino gioco di dire al giovane precario che la sua situazione è dovuta a chi ha il “privilegio” dell’articolo 18 fa leva su un dato materiale: oggi soltanto una minoranza dei lavoratori e delle lavoratrici nel nostro paese può usare a propria tutela l’articolo 18, poiché sono esclusi de iure tutti i dipendenti di aziende con meno di 15 dipendenti e de facto tutti i precari. Quindi è facile sparare sull’articolo 18, mentre è molto più difficile che chi ne è escluso si mobiliti per difenderlo. A questo punto sarebbe però anche lecito chiedere “ma allora come mai è così importante eliminare questo articolo 18?”, ma questo, si sa, è un altro discorso.
Le ipocrisie
Non c’è teatrino senza ipocrisia e questo vale anche nel nostro caso. Anzi, le troppe ipocrisie accentuano la sensazione di estraneità da parte di molti, specie dei più giovani. Insomma, non si può gridare al colpo di stato e invitare all’insurrezione popolare quando a toccare l’articolo 18 è un governo Berlusconi e, poi, essere invece responsabilmente disponibili a modificarlo quando al governo c’è il centrosinistra. E questo non riguarda soltanto esponenti politici del Pd, ma anche –e questo è molto peggio- dirigenti dei sindacati confederali.
Infatti, l’articolo 18 in quanto tale non è mai stato modificato da un governo di centrodestra. Non ci sono mai riusciti. È stato modificato, invece, nel 2012 dalla Riforma Fornero, cioè dal governo Monti e con i voti della grande coalizione, compresi dunque quelli del Pd. Anzi, quella modifica fu approvata con il consenso di fatto di Cgil, Cisl e Uil, che infatti si astennero da qualsiasi forma di protesta o mobilitazione.
Con la riforma Fornero la sfera di applicazione dell’articolo 18 è stata ulteriormente ridimensionata, perché ora il reintegro nel posto di lavoro è obbligatorio soltanto in caso di licenziamento discriminatorio, che però è anche la fattispecie più difficile da provare in sede processuale, e in alcuni casi ben circoscritti dell’illegittimo licenziamento disciplinare. In tutto il resto dei casi, sebbene l’illegittimità del licenziamento sia accertata, non c’è più il diritto al reintegro, ma solo quello a un risarcimento economico.
Infine, arriviamo all’oggi, al governo Renzi e al tentativo di dare l’ultima spallata all’articolo 18. Allo stato, ovviamente, non si sa come sarà esattamente la modifica finale, perché il Jobs Act (attualmente in discussione in Parlamento) è una legge delega. Cioè il Parlamento voterà una sorta di legge quadro, delegando così la formulazione della legge vera e propria al Governo. E così, cosa già di per sé molto discutibile, il Governo potrà ri-scrivere con ampia autonomia interi pezzi fondanti dello Statuto dei Lavoratori.
Comunque, a giudicare dal testo dell’emendamento presentato dal Governo e approvato ieri dalla Commissione Lavoro del Senato, ci si dovrebbe orientare verso un “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, il che vorrebbe dire che per un neoassunto (di qualsiasi età) non varrà più l’articolo 18 e il reintegro per i primi (3?) anni. Insomma, è un po’ come un periodo di prova lungo anni.
Inoltre, tanto per non lasciare dubbi sul senso dell’operazione, l’emendamento presentato ieri prevede anche due altre modifiche allo Statuto dei Lavoratori. La prima intende consentire alle aziende la pratica del demansionamento del lavoratore e la seconda prevede l’attenuazione del divieto del controllo a distanza del lavoratore.
La posta in gioco
Tra teatrini e ipocrisie e un articolo 18 già oggi fortemente ridimensionato, si impone infine la domanda sulla vera posta in gioco. O meglio, a questo punto c’è ancora una posta in gioco? Ebbene, io credo che ci sia, eccome.
Molti, da destra a sinistra, in queste settimane hanno parlato di totem, simbolo e scalpo a proposito dell’articolo 18. C’è una parte di verità in questo, anche perché nella vita sociale e politica queste cose sono importanti, hanno il loro peso. Ma c’è molto di più in questo accanimento contro un articolo 18 ormai malconcio, manomesso e traballante: c’è la ricerca deliberata di una rottura culturale, di un atto costituente di una nuova epoca.
Lo Statuto dei Lavoratori con il suo articolo 18, diventato legge il 20 maggio 1970, fu una conseguenza diretta dei movimenti e delle lotte del 68 e dell’autunno caldo del 69. Fu oggettivamente una conquista del movimento operaio, anche se a sua tempo non fu riconosciuto e percepito come tale dai protagonisti delle lotte. E non mi riferisco soltanto ai settori più radicali in rapida crescita, ma allo stesso PCI, che in Parlamento non votò a favore della legge, ma si astenne, perché la considerava troppo favorevole alle imprese e agli interessi padronali.
Molto tempo è passato da allora e i rapporti di forza sociali sono cambiati, parecchio. Quello che allora si presentava come un’operazione democristiana per fermare l’impeto delle lotte operaie, era nel frattempo diventato uno preziosissimo strumento di difesa dei lavoratori, nonché una questione di civiltà (perché è sempre bene ricordare che l’art. 18 non vieta affatto i licenziamenti, ma si limita a sanzionare mediante il reintegro il licenziamento illegittimo). Fare a pezzi lo Statuto dei Lavoratori e il suo articolo più conosciuto e invocato, il numero 18, non servirà a produrre nuovi posti di lavoro e nuovi investimenti e non aiuterà nemmeno un precario a diventare meno precario. No, servirà a sancire la fine di un’epoca, ad abbattere l’ultima barricata rimasta di un tempo quando la classe operaia voleva andare in paradiso. Con un articolo 18 giustiziato sulla pubblica piazza non ci saranno più argini, barricate e trincee. Non ci saranno più tabù. Questo è il senso dell’operazione.
E se mi chiedete come sarà dopo, vi dico che non lo so, ma è sufficiente guardare a quelle quote di futuro senza diritti già ben presenti oggi per aver un’idea di che cosa si stia preparando. Guardate a quello che succede nelle cooperative che lavorano per la grande distribuzione, nella raccolta dei pomodori e degli agrumi o in uno dei tanti interstizi urbani dove prolifera il precariato senza regole e sottopagato. Dietro i teatrini, le ipocrisie e i fuochi pirotecnici c’è infatti questo, un ritorno al passato.
Insomma, penso proprio che sia di nuovo tempo di pensare ai grandi temi e di lasciarci alle spalle la rassegnazione.
Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer pubblicato su il Manifesto del 27 settembre 2014
A volte ritornano ed è bene che sia così. Zam e Lambretta, due dei più dinamici spazi sociali milanesi, erano stati entrambi sgomberati nel giro di poche settimane di questa strana e fredda estate. Avevano promesso che sarebbero tornati presto e così è stato. Il 19 settembre il Lambretta ha occupato uno stabile privato abbandonato in via Cornalia 6 e oggi è il turno di Zam (appuntamento ore 15.30 in piazza Sant’Eustorgio).
Forse non tutto andrà liscio, forse ci vorranno altre migrazioni prima di trovare casa stabilmente, ma quello che ora importa è che non sia passata l’idea che basti sgomberare delle mura per far scomparire anche le persone e, soprattutto, che i ragazzi e le ragazze -perché stiamo parlando in larghissima parte di giovani e giovanissimi- abbiano trovato l’energia e l’accortezza di rimettersi in gioco immediatamente. Sì, perché gli sgomberi possono capitare, ma questi si trasformano in sconfitta soltanto se riescono a produrre rassegnazione e silenzio.
E queste sono considerazioni che dovrebbero interessare un po’ tutti, a Milano e altrove, perché mica stiamo parlando di questioni private o di semplice cronaca locale. Anzi, abbiamo un gran bisogno di sprovincializzare il dibattito, di renderlo più politico, di guardarci attorno.
A Roma, per esempio, tira brutta aria per i movimenti. Non solo gli sgomberi si moltiplicano, ma soprattutto aumenta l’intensità della repressione. Dalle modalità dell’intervento sull’Angelo Mai alla detenzione di due esponenti del movimento per la casa, Di Vetta e Fagiano, fino all’inquietante arresto di Nunzio d’Erme e Marco Bucci dell’altro giorno. Non si tratta certo di fatti inediti, in Val di Susa succede di peggio, ma quando certi metodi si fanno largo anche nella capitale, allora è evidente che siamo di fronte a un problema più generale.
Milano non è Roma e nemmeno Torino, almeno finora. Ma è indubbio che le cose possono cambiare anche qui, persino a prescindere dalla volontà degli attori locali. La tendenza è infatti generale e viene alimentata dalla (facile) previsione dei vertici statali che il prolungarsi della crisi, la perdita di credibilità del sistema politico e l’accentuarsi delle disuguaglianze sociali produrranno più conflittualità. Ergo, visto che le deleterie politiche d’austerità proseguiranno, ci vuole più controllo e repressione. Una scelta politica, preventiva e democraticamente regressiva, ovviamente, ma di questo si tratta.
Non decidono gli attori locali, dunque, ma questi non sono del tutto impotenti. Detto altrimenti, non è indifferente se un Sindaco si oppone alla tendenza generale oppure se l’asseconda, non è la stessa cosa se a Palazzo Marino siedono Moratti e De Corato o Pisapia. Eppure, gli sgomberi manu militari ci sono stati lo stesso, nel caso di Zam si trattava addirittura di uno stabile di proprietà comunale, e sul piano politico è ormai conclamata la profonda crisi del rapporto tra amministrazione arancione e l'insieme degli spazi sociali autogestiti.
Il che fare è quindi sul tavolo, per tutti. Zam e Lambretta hanno fatto la cosa giusta, anche se in prospettiva non basterà resistere, ma bisognerà ricominciare a pensare in grande, a incidere. Le destre, gli ex vicesindaci e le camicie verdi sempre più nere di Salvini faranno le solite cose, ma con più aggressività, perché stanno già pensando alle prossime elezioni. L'amministrazione comunale, infine, dovrà decidere se adeguarsi alla tendenza generale, magari sotto la spinta normalizzatrice di Expo, oppure se guardare oltre e esplorare altre strade. Nel frattempo, comunque, bentornati Zam e Lambretta.
Zam è stato di nuovo sgomberato e quindi i ragazzi e le ragazze saranno costretti a nuove migrazioni prima di trovare casa. Le forze dell’ordine, in base alla decisione assunta in tempo record ieri in Prefettura dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, si sono presentate stamattina all’ex Spazio Forma, in piazza Tito Lucrezio Caro, che era stato occupato sabato pomeriggio. Nessuno si è fatto male e non ci sono stati fermi. Insomma, come si suol dire in questi casi, è stata una “cosa tranquilla”.
Peraltro, che sarebbe stato difficile rimanere lì era emerso già nella serata di sabato, allorquando da parte dell’Atm, proprietario dello stabile, erano state avanzate una serie di preoccupazioni dal punto di vista della sicurezza in relazione all’adiacente deposito e ai suoi impianti elettrici. Forse l’azienda ha esagerato un po’ con le preoccupazioni, ma poiché la sicurezza delle persone e dei lavoratori è una cosa serissima e per fortuna i giovani di Zam e della Rete Studenti la considerano tale, gli occupanti avevano comunicato immediatamente a Atm la massima disponibilità a collaborare su questo punto.
Comunque sia, poi è intervenuta la decisione della Prefettura e il resto è cronaca di oggi. Rimane però aperta più che mai la questione di fondo, cioè il rapporto della città con i suoi spazi sociali autogestiti. Ormai, a fare i conteggi del numero degli sgomberi dal 2011 a oggi non sono più i soli centri sociali, ma anche una potenza come il Corriere della Sera, che stamattina titola nella sua edizione cartacea “Centri sociali, il Comune sfida gli antagonisti”, aggiungendo poi la mappa e il numero di 22 (titolo peraltro ribadito oggi on line nella notizia a sgombero avvenuto). Il titolo è un’evidente forzatura e un’operazione un po’ maliziosa, ma testimonia il fatto che c’è interesse a soffiare sul fuoco e voglia di tirare per la giacchetta. Attenzione dunque. E questo vale per tutti.
Infine, Zam si rifarà vivo presto, ne sono certo, per il semplice motivo che è fatto di persone che non spariscono. E auspico che torni per restare.
Luciano Muhlbauer
Il taser, cioè la pistola che spara scariche elettriche, e la telecamera integrata nella divisa stanno per fare il loro ingresso ufficiale nell’equipaggiamento della polizia italiana. Siamo ancora a livello sperimentale, ovviamente, come peraltro accade da inizio anno con lo spray al peperoncino, ma ci sono pochi dubbi che la strada sia ormai tracciata.
Infatti, le microcamere applicate al gilet dei reparti mobili potrebbero essere utilizzate già il 2 ottobre a Napoli, in occasione delle manifestazioni di protesta contro il vertice Bce, mentre è di ieri la notizia che alla Camera le competenti Commissioni hanno approvato un emendamento che introduce il taser.
Dei famosi numeri identificativi sul casco degli agenti dei reparti mobili di Polizia e Carabinieri, invece, non si parla più nemmeno a Chi l’ha visto?. Eppure si tratterebbe di una misura tutt’altro che sovversiva, visto che quel numero se lo portano addosso in quasi tutti i paesi europei, dalla Germania alla Francia, e persino nell’autoritaria Turchia. Ce l’hanno semplicemente perché i superiori vogliono sapere chi fa che cosa.
E qui da noi? È risaputo che nelle questure e negli equilibri interni alla polizia di stato i reparti mobili e le loro rappresentanze hanno ormai acquisito notevole potere contrattuale e, quindi, sembra che nessun Ministro o partito di governo (e non solo di governo) abbia voglia di porre seriamente il problema. E soprattutto fa terribilmente comodo non porre il problema, specie quando mandi la celere a reprimere senza nemmeno pagare gli straordinari oppure quando metti in campo operazioni violente e palesemente illegali, come la macelleria messicana alla Diaz nel 2001.
È così l’asimmetria, che nelle vicende di piazza c’è sempre stata, si fa però davvero insopportabile. Grazie alla microcamera sul gilet dei reparti mobili, le forze dell’ordine potranno ora riprendere anche quel poco che finora era sfuggito alle numerose telecamere già presenti in occasione di manifestazioni, scioperi e presidi, ma in cambio, addirittura in caso di abusi palesi e documentati, non sarà possibile identificare i dirigenti o agenti di pubblica sicurezza responsabili
Ma quello che indigna veramente è la leggerezza e la naturalezza con le quali si coltiva quella asimmetria. Del numero identificativo non si può nemmeno discutere, ma l’introduzione del taser viene fatta in un batter d’occhio, senza alcun dibattito, sebbene sia universalmente noto che l’arma “non letale” abbia provocato numerose conseguenze letali in giro per il mondo. Infatti, secondo Amnesty International i morti per taser sarebbero 864 soltanto in Usa e Canada, dal 2001 a oggi. E cosa potrà mai succedere nel paese di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi?
Davvero, a parte le solite voci che per fortuna non si spengono mai, nessuno sente il dovere di dire o fare qualcosa? Davvero non c’è il coraggio di affrontare la questione ora e qui, prima di dover piangere altre vite rubate?
Luciano Muhlbauer
A pochi giorni dalla breve occupazione dello spazio Forma, ieri sera Zam è tornato, occupando uno stabile vuoto da quattro anni in zona Chiesa Rossa. Si trova in via Sant’Abbondio 10. Una volta ospitava la polizia locale della zona e ora fa parte di un fondo immobiliare gestito dalla banca Bnp Paribas.
Da questa mattina, invece, c’è anche lo Spazio Occupato Indipendente Mendel, S.O.Y. Mendel in breve. Si tratta di una new entry, un’occupazione nuova di zecca e si trova nel quartiere Baggio, in via Cancano 5. Lo stabile occupato è di proprietà privata e abbandonato da molti anni. Si tratta di un’occupazione dalla forte connotazione territoriale e antifascista: non solo lo spazio è stato intitolato al partigiano Mendel, ma nella loro dichiarazione degli intenti gli occupanti dichiarano che tra i loro obiettivi principali c’è anche il contrasto dell’attività di infiltrazione che i gruppi neofascisti e neonazisti stanno praticando nei quartieri popolari di Milano.
Ora vediamo cosa succederà, se gli spazi resisteranno nel tempo oppure no. Comunque sia, il fatto che molti giovani attivisti si diano da fare e che non si arrendano alla rassegnazione è un buon segno per la nostra città. E che ci sia attenzione particolare alle periferie e ai quartieri popolari anche, specie oggi.
Qui trovate il testo di presentazione di ZAM 5.0:
E qui si presenta S.O.Y. Mendel:
Luciano Muhlbauer
A Milano sarà una settimana di mobilitazioni. Mercoledì 8 ottobre, quando in città si riuniranno i capi di Stato e di governo europei per un vertice sul lavoro, ci sarà lo sciopero della Fiom, un corteo che alle 9.30 partirà da piazzale Lotto e un presidio in piazza Türr. Venerdì 10 toccherà poi agli studenti e sabato 11 ci sarà il corteo promosso dalla Rete Attitudine NoExpo.
Lavoro, precarietà, diritti, scuola pubblica, grandi opere e grandi eventi. Insomma, tutti i temi centrali di questa fase saranno in qualche modo sul piatto e oggetto di iniziativa sociale e politica. Sarà dunque una settimana da tenere d’occhio, per capire che aria tira in città in questo autunno, se prevarrà ancora la passività oppure se ci saranno segni di risveglio. Ma sarà anche una settimana da riempire con la nostra partecipazione, poiché la passività non si vince stando alla finestra, ma questo lo sapevate già.
Andiamo con ordine però. Mercoledì 8 ottobre, nel MiCo Conference Centre a Fieramilanocity, si terrà finalmente quella conferenza dell’Unione europea che era stata più volte annunciata e poi spostata. Ma ora ci siamo ed è il momento che Renzi intende utilizzare per esibire il Jobs Act, cioè la determinazione del governo italiano di fare i suoi compiti, di demolire quello che resta dei diritti dei lavoratori e di fare a pezzi l’idea stessa di sindacato come organizzazione autonoma e indipendente dei lavoratori. Non si tratta dunque di una mera questione di articolo 18 (del quale abbiamo parlato nel nostro recente articolo), bensì della questione di fondo, cioè del modello sociale.
La prima ad annunciare una mobilitazione in occasione del summit è stata la Fiom, che per l’8 ottobre ha promosso lo sciopero dei metalmeccanici su tutto il territorio della provincia di Milano e lanciato una manifestazione di piazza, con appuntamento alle ore 9.30 in piazzale Lotto. Per info vedi anche il sito della Fiom Milano.
Venerdì 10 ottobre scenderanno poi in piazza gli studenti medi e universitari, nel quadro di una mobilitazione nazionale decisa da tempo. Al centro, ovviamente, la difesa e il rilancio della scuola pubblica, ma a questo punto anche il dissenso rispetto al progetto renziano della “Buona Scuola” (vedi anche il nostro articolo La scuola di Renzi non è uguale per tutti). L’appuntamento milanese è alle ore 9.30 in piazza Cairoli.
Parteciperanno alla mobilitazione praticamente tutte le componenti del movimento studentesco milanese, dall'Uds ai collettivi. Vedi anche l’appello unitario Un’altra volta, un’altra onda lanciato da Uds, Rete Studenti Milano, Casc, Dillinger Unimi, Collettivo Bicocca, Link.
L’11 e il 12 ottobre ci sarà infine la due giorni promossa dalla Rete Attitudine NoExpo, che prevede un corteo sabato 11 ottobre, alle ore 15.00 in piazza Duca d’Aosta, un’assemblea domenica in tarda mattinata al Parco Pertini e un incontro il pomeriggio alla Ri-Maflow di Trezzano s/N.
Ci vediamo in settimana e in piazza!
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 09/10/2014, in Pace, linkato 1359 volte)
Da quando è esploso l’allarme Isis non passa giorno che i tg, i giornali e i siti d’informazione che vanno per la maggiore non ci propongano una narrazione che suona grosso modo così: da una parte loro, i cattivi, il male, cioè lo Stato islamico (Da’esh in arabo), e dall’altra parte noi, i buoni, il bene, cioè la coalizione anti Isis che riunisce Usa, Europa, Nato e i paesi arabi “moderati”. Ebbene, sui cattivi ci siamo senz’altro (e spero vivamente che anche quelle strane fascinazioni estive che avevano colpito taluni siano definitivamente alle nostre spalle), ma è la storiella dei buoni che non sta proprio in piedi e che, anzi, in questi giorni di eroica e solitaria resistenza di Kobanê si staglia davanti a noi in tutto suo immenso squallore.
Infatti, gli spettatori dei tg nostrani si saranno chiesti più volte come possa accadere che l’armata del bene, dotata di tutta la più avanzata tecnologia militare, non sia in grado di fermare le truppe dell’Isis che assediano la città kurdo-siriana, che peraltro si trova sul confine con uno dei più armati paesi della Nato, cioè la Turchia. A qualcuno sarà venuto persino il dubbio che quelli dell’Isis siano una specie di superuomini. Un mistero, insomma.
Ma la realtà è molto più banale e non ci sono né misteri né superuomini. C’è semplicemente una città circondata da tutte le parti. Su tre lati c’è l’Isis, con migliaia di uomini e armamento pesante, sul quarto lato c’è il confine turco, presidiato e sigillato dall’esercito di quel paese, che impedisce ogni rifornimento e rinforzo agli assediati. In città ci sono alcune migliaia di kurdi e kurde dell’ YPG/YPJ, da soli, a combattere con armi leggere. Non c’è certo bisogno di scomodare il vecchio von Clausewitz per capire come va a finire se la situazione rimane immutata.
In altre parole, se Kobanê cadrà nelle mani di Da’esh, con tutto quello che comporterà in termini umani, il responsabile non si chiamerà soltanto al-Baghdadi, ma anche Erdogan. E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul ruolo del governo turco, allora guardi alla brutale repressione delle proteste dei kurdi in Turchia di questi giorni: nel momento in cui scriviamo sono già oltre 20 i kurdi uccisi perché hanno protestato contro il massacro di Kobanê e la complicità del governo turco.
Dall’altra parte, Erdogan è sempre stato nemico dei kurdi e piuttosto amico dell’Isis, al quale permetteva un po’ di tutto, compreso quel confine aperto che invece è negato ai kurdi. Insomma, come nel caso di Arabia Saudita e delle altre petromonarchie del Golfo, prima che arrivasse il contrordine da Washington perché la creatura era sfuggita di mano –così come a suo tempo era successo con Bin Laden in Afghanistan- gli uomini di al-Baghdadi erano piuttosto coccolati, per usare un eufemismo.
Ma questo ormai dovrebbero averlo capito tutti, nonostante continui la narrazione dei buoni e dei cattivi. A livello politico, però, tutto va avanti come se niente fosse. Certo, ora gli aerei Usa sganciano qualche bomba nei dintorni di Kobanê, perché la situazione stava diventando imbarazzante anche per gli stomaci forti, ma poco di più. In Italia, poi, non c’è nemmeno un sottosegretario che trovi il tempo di una dichiarazione.
Già, l’Italia, casa nostra. Un paese della Nato, come la Turchia. Un paese che ora esprime Mrs Pesc, cioè il Ministro degli Esteri dell’Unione Europea. E un paese che, come tutta l’UE, ha accettato di classificare il Pkk (la forza politica più rappresentativa dei kurdi di Turchia) come “organizzazione terroristica”. È stato su questa base che soltanto un mese fa, con l’attacco a Kobanê già in corso, la Procura di Milano ha indagato per terrorismo 40 kurdi residenti in Italia soltanto per aver raccolto denaro per il Pkk.
Sin dall’inizio i kurdi e le kurde siriani, sostenuti da guerriglieri del Pkk, hanno combattuto contro l’Isis, anche quando quest’ultimo era ancora amico di Turchia e Arabia Saudita e gli Usa approvavano. Non avevano finanziatori e amici potenti, ma hanno resistito sul terreno alle bande del califfato meglio di chiunque altro. Hanno costruito nella loro terra e in mezzo alla guerra civile siriana un’esperienza di autogoverno democratico straordinaria, basata sulla Carta di Rojava, che include tutti, “arabi, curdi, assiri, armeni, ceceni, musulmani, cristiani e yazidi, secondo il principio della convivenza pacifica e della fratellanza”. Cioè, un messaggio più unico che raro in quella parte del mondo martoriata dalla guerra e dall’interventismo statunitense. E rappresenta l’esatto contrario dei principi sui cui si basa il Califfato proclamato dall’Isis.
Eppure, il governo Renzi, così loquace su tutto, non ha trovato una parola da dire alla Turchia. Non che Erdogan cambi idea perché glielo dice Renzi, figuriamoci, ma almeno l’Italia mostrerebbe un po’ di dignità (che non sarebbe male dopo l’indegna consegna di Ocalan nel 1999). E Mrs. Pesc Mogherini l’avete sentita? Tuttavia qualcosa di concreto di potrebbe fare, subito, in Italia e in Europa: togliere il Pkk dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Questo sì che darebbe fastidio a Erdogan e, soprattutto, un po’ di ossigeno ai kurdi e alle kurde.
Insomma, il governo italiano deve fare, urgentemente. E noi dobbiamo muoverci perché faccia, insieme alle comunità kurde. Non dobbiamo permettere che questa squallida ipocrisia possa andare avanti con il nostro silenzio, perché saremmo corresponsabili.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 15/10/2014, in Lavoro, linkato 950 volte)
Volete sapere come sarà il meraviglioso mondo del Jobs Act, quello dove robe vecchie come i diritti dei lavoratori, articolo 18, Statuto dei lavoratori o contratto nazionale saranno poco più di un lontano ricordo dei padri e dei nonni? Ebbene, allora date un’occhiata a uno di quei tanti settori privi di diritti, tutele e voce che già oggi abbondano a casa nostra, come per esempio la logistica.
Già, la logistica. Sebbene si tratti di un settore strategico e nevralgico dell’economia nazionale, senza il quale la grande distribuzione vecchia e nuova non potrebbe funzionare nemmeno un minuto, dal punto di vista del mercato del lavoro sembra di trovarsi nell’Ottocento. Infatti, non ci sono tutele in caso di licenziamento e il diritto di sciopero non esiste. Anzi, a guardare bene, lì non sei nemmeno considerato un lavoratore.
Il trucco (si fa per dire, visto che è tutto perfettamente legale) sta nel non assumere i facchini che lavorano per te. E così, anche se lavorano in un deposito Ikea e movimentano tutto il giorno mobili Ikea, nessuno di loro è un dipendente Ikea, bensì della cooperativa X, alla quale Ikea ha appaltato il servizio di facchinaggio. Se poi i lavoratori della cooperativa X dovessero scioperare, perché i salari sono troppo bassi o perché le regole contrattuali non vengono rispettate, allora Ikea potrebbe tranquillamente sostituire la cooperativa X con la cooperativa Y, poiché si tratterrebbe semplicemente di una mancata erogazione del servizio previsto dall’appalto da parte della cooperativa X. Di conseguenza, i lavoratori della cooperativa X rimarrebbero disoccupati, senza che l’Ikea c’entri qualcosa sul piano formale, e se poi qualcuno dovesse decidere di protestare e di picchettare gli ingressi del suo posto di lavoro, allora arriverebbe la Celere a cacciarli suon di manganellate, perché sarebbero soltanto degli estranei che interrompono illegalmente un servizio e impediscono ai lavoratori della cooperativa Y di poter lavorare.
Nel nostro esempio ipotetico abbiamo usato il marchio Ikea, semplicemente perché tutti lo conosciamo, ma potremmo usare qualsiasi altro marchio della grande distribuzione o il nome di qualsiasi azienda che ricorre al "trucco" dell'appalto. E poi, si tratta di una “ipotesi” per modo di dire, visto che storie del genere si verificano quotidianamente, con le ovvie varianti sul tema. Per esempio, oltre l’appalto ci sono anche i subappalti oppure, come ormai accade sempre più spesso, l’azienda potrebbe procedere a un “cambio di cooperativa”, cioè al licenziamento dei lavoratori, anche in assenza di scioperi e lotte, ma soltanto perché quei lavoratori si sono permessi di iscriversi a un sindacato non gradito. Appunto, l’Ottocento incombe.
Beninteso, tutto questo non vuol dire che non si possa più lottare o organizzare sindacati. Anzi, l’esperienza di questi anni ci insegna che proprio i lavoratori della logistica, dov’è fortissima la componente migrante, si sono resi protagonisti di uno dei più interessanti, intensi e freschi processi di sindacalizzazione e di lotta di questi anni. E si comincia anche a vincere qualche vertenza, ma solo al prezzo di durissime lotte, come nel caso della Granarolo. Alla fine Legacoop ha dovuto firmare un accordo con il sindacato di base S.I.Cobas e accettare il reintegro dei 51 licenziati, ma ci sono voluti 15 mesi interrotti di lotta.
Insomma, oggi stare con i facchini è un dovere e una scelta lungimirante, perché bisogna ricominciare a lottare per i diritti che ci vogliono togliere e che a tantissimi lavoratori hanno già tolto.
Luciano Muhlbauer
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