Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 08/10/2012, in Politica, linkato 976 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul n. 14 del settimanale on line Ombre Rosse
 
C’era un tempo in cui Milano veniva chiamata capitale morale e la Lombardia si considerava geneticamente estranea a fenomeni come la mafia o la ‘ndrangheta. E quando si verificavano fatti eclatanti di corruzione politica o di crimine organizzato, allora, così si diceva, si trattava di eccezioni che confermavano la regola o di semplici prodotti di importazione, perché mica siamo a Roma o nel Meridione. La Lega, ai suoi tempi d’oro, ne aveva fatto uno dei suoi principali brand e, senza ombra di dubbio, aveva colto un diffuso sentire comune.
La convinzione che certe cose non potessero accadere da queste parti è sopravvissuta fino ad oggi, sebbene in maniera ormai un po’ traballante. Ancora poco più di due anni fa, il Prefetto di Milano, tuttora in carica, aveva affermato che in Lombardia c’erano sì delle famiglie mafiose, ma che la mafia non esisteva.
Parole inquietanti in sé, visto che richiamano alla mente affermazioni analoghe di un passato non troppo lontano, ma poi smentite totalmente anche dai fatti alcuni mesi più tardi: nel luglio 2010 i magistrati antimafia di Reggio Calabria e Milano fecero scattare l’operazione Infinito, che evidenziò che la ‘ndrangheta era ormai una presenza capillare, radicata e diffusa, che poteva contare su un sistema di complicità che coinvolgeva settori dell’imprenditoria locale, della pubblica amministrazione e della politica. Non a caso, i magistrati milanesi sono stati severi con gli imprenditori coinvolti, poiché consideravano la loro mancanza di collaborazione non come il frutto della paura, bensì  della convenienza.
Dall’operazione Infinto in poi qualcosa ha iniziato a cambiare, anche se tantissima strada rimane ancora da fare. Peraltro, era ormai diventato difficile non vedere una realtà sempre più straripante. E non ci riferiamo tanto al traffico di stupefacenti, di cui Milano è da tempo una delle principali piazze europee, quanto al fatto che ad Infinito sono seguite altre operazioni, che diversi importanti giornali hanno iniziato a fare inchieste e a pubblicare persino mappe della presenza mafiosa o che i primi appalti assegnati per Expo 2015 sono stati bloccati dalla magistratura causa infiltrazioni mafiose.
E poi c’è la questione degli incendi dolosi, che sono diventati troppi anche per un’area metropolitana come quella milanese, che ne ha viste tante. Locali, parchi, centri sportivi e strutture pubbliche hanno iniziato a prendere fuoco con troppa facilità. Una vera e propria inflazione di incendi, che a volte rappresentano degli inequivocabili messaggi pubblici di intimidazione, come nel caso dell’incendio del furgoncino di Loreno Tetti, l’unico ambulante a denunciare il “racket dei paninari” a Milano.
Ma se nel caso del crimine organizzato un certo ritardo nell’aprire gli occhi può essere persino comprensibile –ci riferiamo al singolo cittadino, beninteso, non certo alle istituzioni-, altrettanto non si può dire per quanto riguarda la corruzione politica. Già, perché la capitale morale è morta tanto tempo fa e Tangentopoli ebbe il suo epicentro proprio a Milano. Eppure, l’ondata berlusconiana e leghista, la solidità e la forza di sistemi di potere locali, che poi sono anche sistemi di produzione di consenso e complicità ben oltre i propri confini politici, come quello ciellino di Formigoni, unite alla prolungata debolezza politica e subalternità culturale delle opposizioni, hanno fatto sì che la maggioranza dei cittadini non volesse vedere, capire ed agire.
Ancora oggi, Formigoni e la Lega blaterano di “eccellenze” lombarde e sostengono che la Lombardia non è paragonabile al  Lazio, che è tutta un’altra storia. Certo, Er Batman e certi toga party sono difficili da battere, ma al netto di questi eccessi di squallore, la situazione in Lombardia è forse anche più grave.
Il punto non è quanti siano gli inquisiti in Consiglio regionale, il cui numero è comunque è da primato nazionale, o che 4 componenti su 5 dell’Ufficio di Presidenza originario siano stati sostituiti a causa dei loro guai giudiziari (Penati del Pd, Boni della Lega, Ponzoni e Nicoli Cristiani del Pdl). E non si tratta  nemmeno del trota di turno o della maîtresse diventata consigliera regionale, grazie al listino del presidente Formigoni (peraltro presentato con le firme false).
No, la questione è che il malaffare e la corruzione in Regione Lombardia si sono fatti sistema, sono strutturali. Già, perché c’è ad esempio il piccolo particolare che gran parte dei consiglieri regionali indagati, processati o incarcerati sono tutti ex assessori formigoniani, inquisiti per fatti commessi quando facevano gli assessori. Oppure, c’è la madre di tutte le questioni, cioè la sanità, che è poi il vero e proprio core business delle Regioni.
Ebbene, Formigoni stesso è indagato per corruzione per lo scandalo Maugeri e sarà ovviamente il processo a stabilire eventuali responsabilità. Tuttavia, ci sono dei fatti che parlano da soli. Primo, il trattamento di favore ricevuto nell’assegnazione dei fondi regionali da parte delle fondazioni private del San Raffaele e della Maugeri è innegabile. Secondo, il “faccendiere” che sta al centro di questi scandali, cioè Daccò, non solo faceva il lobbista per questi ospedali ed era definito un “amico” da Formigoni, ma soprattutto pagava ripetutamente le vacanze di lusso al Presidente lombardo. Terzo, il 3 ottobre scorso Daccò è stato condannato a 10 anni di reclusione per il crac del San Raffaele, cioè al doppio della pena chiesta dai Pm.
Infine, quando corruzione politica e crimine organizzato dilagano accade quasi sempre che si incontrino. E sta succedendo anche in Lombardia, come dimostrano alcuni segnali molto preoccupanti. E basti qui ricordare soltanto alcuni esisti dell’operazione Infinito: il Comune di Desio (MB), a guida centrodestra, è caduto due anni fa a causa del coinvolgimento nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta di alcuni esponenti del Pdl locale e delle conseguenti dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali; l’ex assessore di Formigoni, il brianzolo Ponzoni, sebbene finito in carcere solo per corruzione, risultava negli atti dell’inchiesta come “capitale sociale” della ‘ndrangheta.
A Milano e in Lombardia non siamo poi tanto diversi ed è bene prenderne atto fino in fondo. Ma soprattutto occorre agire in tempi stretti, perché forse qui siamo ancora in tempo per evitare il peggio, ma soltanto a condizione che si ponga fine al più presto ai vecchi e marci sistemi di poteri e che si costruisca davvero una prospettiva alternativa  sul piano politico, sociale e culturale.
 
(il sito di Ombre Rosse)
 
 
di lucmu (del 04/03/2013, in Politica, linkato 1628 volte)
Ci eravamo lasciati all’indomani degli scrutini con l’impegno di riparlare dei risultati elettorali e dello stato della sinistra. E quindi, rieccoci, a mente appena un po’ più fredda e con molte analisi ancora da fare. Tuttavia, penso che il dibattito non possa aspettare e che, anzi, sia urgente. Vi propongo dunque alcune mie riflessioni di questi giorni, che non contengono soluzioni o ricette già pronte, ma che, più modestamente, vogliono essere un contributo, un punto di vista. Un punto di vista partigiano, beninteso, e con una convinzione che ribadisco sin dalla premessa: a sinistra è tutto da rifare.
 
La doppia sconfitta lombarda
 
La nostra sconfitta alle regionali lombarde brucia parecchio, perché si tratta di una doppia sconfitta. Primo, quelli che hanno governato per 18 anni e dopo tutto quello che hanno combinato - dal sacco della sanità passando dalle tangenti fino alla ‘ndrangheta - hanno rivinto. Secondo, la sinistra, intesa come Etico e Sel, non è più rappresentata in Consiglio regionale. E più guardi i numeri, più questa sconfitta appare significativa, anche perché si tratta della Lombardia, terra natia di quelle destre che hanno spadroneggiato nell’ultimo ventennio.
Ecco cosa ci dicono i numeri, soprattutto quelli assoluti, perché le percentuali spesso ingannano:
1. il tracollo di consensi subito dal centrodestra a livello nazionale (dai 17 mln di voti del 2008 ai 9,9 mln del 2013 alla Camera) non si ripete a livello lombardo, dove la perdita è molto più limitata. Formigoni nel 2010 ottenne 2,7 mln di voti, Maroni ha ottenuto 2,2 mln di voti, soprattutto grazie alla tenuta dell’area leghista in senso lato. Infatti, la perdita di voti della Lega è stata compensata dal buon risultato della lista Maroni Presidente (se sommiamo i voti della Lega e della lista Maroni Presidente arriviamo a 1.253.770 voti, che superano persino il 1.117.227 della Lega del 2010);
2. è senz’altro vero che Umberto Ambrosoli è andato molto meglio di Penati nel 2010, ma non dimentichiamo che quest’ultimo aveva costruito una coalizione molto più ristretta di Ambrosoli e, soprattutto, assolutamente priva di appeal, per usare un eufemismo. E se quindi allarghiamo il confronto al compianto Sarfatti, che correva con una coalizione di centrosinistra larga, il risultato è che siamo fermi al 2005: Ambrosoli (2013) 2.194.169 voti, Penati (2010) 1.603.666 voti, Sarfatti (2005) 2.278.173 voti;
3. il Movimento 5 Stelle registra in Lombardia, in particolare alle regionali, un risultato sicuramente positivo, ma molto inferiore rispetto al resto d’Italia (775.211 voti e il 14,33% alle regionali, mentre alla Camera nei tre collegi lombardi raccoglie 1.126.147 voti);
4. le forze a sinistra del Pd, cioè Etico e Sel, si attestano su percentuali estremamente modeste: Etico 52.152 voti (0,96%), Sel 97.627 voti (1,8%). Inoltre, ambedue le forze sono caratterizzate da un accentuato milanocentrismo del consenso elettorale, particolarmente evidente nel caso di Etico, che paga anche il prezzo del simbolo nuovo e di primarie regionali che erano state scarsamente sentite fuori da Milano (l’unico luogo dove Etico supera il 2% di consensi è infatti Milano città, dove ottiene 14.239 voti che corrispondono più o meno ai 14.199 ottenuti dalla lista Federazione della Sinistra nel 2010).
Insomma, in Lombardia la destra ha retto, nonostante la gravità degli scandali, e l’opposizione, nonostante una situazione che sulla carta era la più favorevole possibile, ha perso. E questo ci riporta al peccato originale del centrosinistra lombardo, che non si chiama Ambrosoli, come ora qualcuno tenta di raccontare, bensì debole e inconsistente opposizione negli anni precedenti!
Beninteso, non sto dicendo che nessuno si sia mai opposto a nulla, perché questo sarebbe non solo ingeneroso ma soprattutto falso, ma mi pare palese che sia mancata una proposta alternativa e una battaglia continuativa dentro e fuori il palazzo e che sia invece prevalso il tirare a campare all’opposizione e troppo spesso la rincorsa del compromesso se non peggio. Tant’è vero che, da parte dell’opposizione, la ricerca di un candidato e di una coalizione è iniziata soltanto all’ultimo minuto, praticamente dopo la fine anticipata della legislatura. E questo nonostante le elezioni anticipate fossero state il fatto più annunciato dell’anno…
In altre parole, se un regime cade a causa delle indagini della magistratura, che ha fatto il suo mestiere, questo non significa che il consenso popolare si sposti automaticamente a un’opposizione politica che il suo mestiere non l’aveva fatto. E pochi mesi di campagna elettorale, anche con facce nuove, evidentemente non sono sufficienti per cambiare questo dato, specie quando si parte con l’ingiustificata convinzione, da parte di troppi, di aver già vinto e di doversi occupare soltanto della spartizione del bottino.
Per quanto riguarda la sinistra, cioè noi, si paga il prezzo di una serie di fatti, a partire da quell’insensato niet da parte del gruppo dirigente di Sel alla proposta di costruire un percorso elettorale comune attorno all’esperienza delle primarie di Andrea Di Stefano, per arrivare al poco tempo a disposizione per far conoscere un simbolo nuovo di zecca, cioè quello di Etico. Tuttavia, questi elementi sono soltanto delle aggravanti e guai ad usarli come alibi per non discutere del problema di fondo! A meno di non pensare davvero che bastino a  spiegare esaustivamente perché una parte non indifferente di elettori di sinistra abbia scelto di dare il voto al Movimento 5 Stelle o di astenersi.
 
La chiusura del cerchio del 2008
 
“Il cerchio del 2008 si è chiuso” mi ha messaggiato mercoledì mattina Roberto Maggioni, quello di RadioPop. Aveva ragione, penso avesse ragione. Quell’sms sintetizza un discorso lungo e complesso, iniziato con la fine del governo Prodi, o forse con l’inizio del governo Prodi. Cioè, con quel governo durato appena due anni e con una sinistra radicale (termine orribile, ma tanto per capirci) che nel 2006 entrò in parlamento con un consenso del 10% e che nel 2008 ne uscì con la débacle della Sinistra Arcobaleno. Da allora in poi fu una storia di divisioni e scissioni, di compagni che tornavano a casa o che cercavano di costruire nuove soggettività politiche, di chi rimase con Rifondazione, come chi scrive, di chi imboccò la strada di Sel o di altre esperienze ancora, magari più piccole e meno conosciute, ma non per questo meno meritevoli di rispetto.
Furono tante le lacerazioni e le rotture e tutte nel nome dell’unità, paradossalmente, ma forse neanche tanto, perché la fine della Rifondazione pre-Prodi e post-Genova, che aveva agito come centro di gravità politico per una pluralità di sinistra politica e anche di movimento, fece pensare ai più che la strada giusta o obbligata per ricostruire una forza di sinistra fosse a questo punto la separazione organizzativa e la sconfitta dell’altro sul campo.
Ebbene, dopo cinque anni e dopo questo voto, nel pieno della crisi italiana, europea e globale, cioè quando più che mai vi sarebbe necessità ed esigenza di sinistra, qual è il bilancio politico? Un fallimento, su tutta la linea.
Della Lombardia, Regione chiave, abbiamo già parlato e non c’è nulla da aggiungere.
Sul piano nazionale, Rifondazione Comunista aveva tentato la strada della Federazione della Sinistra, che però si era rilevata presto un vicolo cieco. A questo giro è stata tentata l’ipotesi Rivoluzione Civile, che peraltro comprendeva anche Di Pietro che con la sinistra c’entra poco, ma anche questa è andata male, anzi malissimo, risultando indigesta a gran parte degli elettori di sinistra e non raggiungendo l’obiettivo di entrare in Parlamento. Ora Rivoluzione Civile è un capitolo chiuso.
Ma se Atene piange, Sparta non ride e anche il bilancio di Sel è piuttosto critico. L’idea era quella di un nuovo centrosinistra e questo presupponeva ovviamente un nuovo Pd e diversi rapporti di forza. Cioè, si trattava di arrivare al famoso big bang o, più concretamente, di sconquassare il Pd per mezzo delle primarie e della figura di Nichi Vendola. Oggi Sel rientra in Parlamento grazie all’alleanza con il Pd, ma con un risultato molto al di sotto delle aspettative e in una posizione ininfluente e subalterna, mentre a sconquassare il Pd ci pensano Renzi e Grillo.
Per quanto riguarda le altre soggettività più piccole, figlie di quella storia di divisioni, come Sinistra Critica o il Pcl, ebbene, mi pare che il bilancio sia altrettanto magro.
Insomma, le strade imboccate non hanno portato da nessuna parte e le divisioni interne alla sinistra, ovviamente accompagnate dalle relative polemiche, sono diventate un’ulteriore palla al piede, visto che sempre meno uomini e donne di sinistra riuscivano a comprenderle e a tollerarle. Senz’offesa per nessuno e senza rancore per alcunché, mi pare dovremmo prenderne atto.
 
La debolezza politica dei movimenti
 
Peccheremmo però di politicismo se ci fermassimo alle considerazioni sopra esposte, perché il problema della sinistra nel nostro paese non riguarda -e coinvolge- soltanto le forze politiche in senso stretto, ma anche i movimenti e le forze sociali. Anzi, forse soprattutto loro, perché una sinistra degna di questo nome semplicemente non può esistere a prescindere dai movimenti e dal conflitto sociale. E poi, siamo in Italia, cioè il paese nel quale i movimenti e la loro politicità avevano segnato profondamente lo scenario politico soltanto un decennio fa.
Oggi, invece, la situazione è molto diversa e non perché i movimenti non esistano più o non siano esisti in questi ultimi anni, anzi, ma perché troppo frammentati, troppo poco incisivi politicamente e privi di un centro di gravità condiviso che potesse facilitare la costruzione di consensi e azioni comuni. E non ha aiutato sicuramente l’assenza di livelli di conflitto sociale paragonabili a quelli di altri paesi europei, in buona parte dovuta a quel potente anestetico rappresentato da un movimento sindacale confederale, i cui gruppi dirigenti sono privi di autonomia politica e tendenzialmente collaterali a governi o partiti.
Dopo l’esaurimento del ciclo di movimento proveniente da Genova e dalle lotte contro la guerra e dopo la vicenda del governo Prodi, che ebbe un effetto deprimente anche sui movimenti sociali, in Italia non si sono più manifestati movimenti/conflitti dall’analoga forza aggregativa e politica. Né la lotta contro il Tav in Val di Susa, né l’Onda anomala studentesca e nemmeno le mobilitazioni innescate dalla Fiom a partire dal referendum truffa di Pomigliano sono riuscite a trasformarsi in fatto costituente di un nuovo ciclo generale, mentre nel nostro paese non sono mai sbarcati veramente i movimenti tipici di questi tempi di crisi, come Occupy o gli Indignados.
Le ragioni di queste debolezze e assenze sono molteplici, ma a volte ci mettiamo del nostro, come quel 15 ottobre 2011 a Roma. Quel giorno si tenne la partecipatissima manifestazione nazionale convocata da un cartello di forze di movimento e sociali. Poteva essere l’inizio di una sorta di indignados italiani o qualcosa del genere, ma finì tra i fuochi d’artificio di piazza San Giovanni. Qualche settimana più tardi nacque il governo Monti con i voti di Pd-Pdl-Udc, si aprì una nuova fase politica, ma i movimenti erano finiti in fuorigioco, politicamente afoni e marginalizzati. Insomma, debolezza politica è anche questa.
Ebbene, ora anche il governo Monti è finito, abbiamo votato, il Pd ha raccolto quello che ha seminato, Berlusconi è risuscitato e Grillo e Casaleggio hanno fatto boom. Inevitabile che di questo si debba parlare molto anche e soprattutto nei movimenti e, infatti, la discussione è già iniziata. E come sempre, visto che ci conosciamo e che le divisioni sono ahinoi tante anche nei movimenti, c’è il rischio che questa si sviluppi lungo linee di frattura precostituite.
Comunque sia, mi pare che per ora, in questi primi giorni, si stiano delineando grosso modo due poli. Il primo, pur riconoscendo le ambiguità e le contraddizioni del M5S, ne valorizza però fortemente la funzione antisistema e ritiene che i movimenti possano approfittare degli spazi aperti dai 5 stelle. O per dirla con Franco Bifo Berardi, in un intervento del 27 febbraio pubblicato anche su Infoaut: ”La funzione importante e positiva che il movimento ha svolto è rendere il paese ingovernabile per gli antieuropei del partito Merkel-Draghi-Monti”. Il secondo polo può essere ben rappresentato dall’analisi di Wu Ming, in particolare dall’intervista rilasciata al Manifesto il 1 marzo. Secondo loro, “la nascita del grillismo è una conseguenza della crisi dei movimenti altermondialisti di inizio decennio. Man mano che quel fiume si prosciugava, il grillismo iniziava a scorrere nel vecchio letto”. Inoltre, la strategia di Grillo non aprirebbe spazi per movimenti radicali, ma anzi spingerebbe l’indignazione “lontano dalle piazze italiane”.
Per quanto mi riguarda, penso sia evidente, in base a quanto sopra argomentato, che il mio punto di vista è più vicino a quello di Wu Ming, ma di Bifo o di altri approcci simili salverei però l’avvertenza implicita che arroccarsi o peggio demonizzare il M5S sia una grandissima cazzata. Anche perché, a guardare bene, ambedue gli approcci riconoscono di fatto il dato di fondo, quello più importante: cioè, che il M5S occupa uno spazio che i movimenti non sono riusciti a riempire. Appunto.
 
Che fare?
 
Già, che fare? L’ho già scritto in premessa e lo ripeto: non ho ricette e soluzioni pronte. E penso che non sia nemmeno questo il punto in questo momento. No, ora e qui c’è bisogno di aprire una discussione e questo presuppone un atto preliminare, da parte di tutti e tutte, ovunque collocati. Cioè, dobbiamo riconoscere che è il problema non sono gli altri, ma che il problema siamo noi, la sinistra così com’è. Insomma, un ciclo si è chiuso e dobbiamo aprirne un altro. E dobbiamo farlo senza separare parole e pratiche e con una certa urgenza, perché viviamo in un tempo di cambiamenti e di instabilità e non è affatto detto che in assenza di un punto di vista di sinistra, organizzato e incisivo, la matassa si possa sbrogliare in senso favorevole ai ceti popolari. Anzi, sono convinto dell’esatto contrario! Per questo, insisto, a sinistra è tutto da rifare.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 31/05/2013, in Politica, linkato 983 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto il 31 maggio 2013, con il titolo “La Giunta Pisapia ha compiuto due anni: la ‘primavera’ al palo”.
 
Sono passati due anni ed è tempo di bilanci. Bilanci severi, perché tra l’entusiasmo e gli arcobaleni di allora e il freddo e il grigio di oggi non sembrano essere trascorsi soltanto 730 giorni, bensì un’epoca intera. Quel 30 maggio del 2011, infatti, da Milano, ma anche da Napoli o da Cagliari, sembrava alzarsi un’onda, una brezza di speranza, una riappropriazione dal basso della politica. Non avevamo vinto un’elezione, avevamo “liberato” Milano e presto, pensavamo, sarebbe toccato anche al resto del paese. Oggi, invece, abbiamo di fronte il deprimente quadro disegnato da anni di crisi e austerity, da una politica desolata e desolante, da una democrazia in manifesta crisi di credibilità e da sindaci eletti dalla metà della metà dell’elettorato.
In questi due anni a Milano sono cambiate troppo poche cose, ma in compenso il mondo che la circonda si è fatto vieppiù ostile. La recessione ha eroso margini e imposto emergenze, il patto di stabilità sta strangolando il bilancio comunale e, invece del cambiamento, sono arrivati Monti e Letta, le larghe intese Pd-Pdl e la disastrosa ri-vittoria delle destre alle elezioni regionali lombarde. Insomma, le peggiori condizioni immaginabili.
Tutto questo è bene ricordarlo, per correttezza e per realismo, ma è altrettanto bene non usare queste considerazioni come un alibi per le cose che non vanno, che sono tante. Beninteso, non siamo alla fine di un’esperienza, ma siamo senz’altro a un punto critico, in uno di quei momenti in cui i mormorii rischiano di trasformarsi in rumore di fondo, in crepe insanabili, in incantesimo rotto. In altre parole, i nodi stanno venendo al pettine, come hanno confermato in modo lampante una serie di fatti di queste ultime settimane.
Anzitutto, la destra ha rialzato la testa. L’ha fatto riproponendo tutto il suo armamentario securitario e xenofobo, in seguito al triplice omicidio commesso da Mada Kabobo. Per ora la furibonda campagna di Lega e Pdl non ha portato risultati e la città non è ripiombata nel cupo clima decoratiano, ma il punto è che la destra è uscita dall’angolo ed è passata all’offensiva.
Negli stessi giorni Marco Vitale, autorevole esponente del “Gruppo 51”, cioè quella  borghesia illuminata milanese che si era schierata con Pisapia, ha pubblicato un pungente articolo in cui accusava il governo cittadino di non avere strategia e visione e di continuare la “politica dell’amministrazione del condominio”.
Le parole di Vitale hanno sollevato un vespaio. Il Corsera ha rilanciato le critiche e ipotizzato la fine del modello Milano, mentre l’assessore D’Alfonso, ex socialista e autoproclamato ideologo arancione, è intervenuto a modo suo, dando ragione a Vitale, ma dicendo che la colpa era di tutti gli altri, in primis dei consiglieri comunali di maggioranza che sarebbero sostanzialmente degli inetti.
Infine, gli scricchioli sono diventati rumore assordante anche sul lato sinistro, con lo sgombero del centro sociale Zam e le manganellate sulle teste dei manifestanti davanti al portone chiuso di Palazzo Marino. Beninteso, non era il primo conflitto tra centri sociali e amministrazione comunale, ma in questo caso l’elemento simbolico era forte, anche perché ha coinvolto una delle realtà di movimento finora più aperte nei confronti del Sindaco.
Insomma, quella ampia coalizione di forze e cittadini che aveva reso possibile la liberazione di Milano e che lo stesso Sindaco considera “il nostro patrimonio più prezioso” sta scricchiolando alla grande, su un lato e sull’altro. E non basta ribadire l’elenco delle cose fatte, perché risulta troppo insipido in assenza di prospettiva e progetto. O, peggio ancora, se l’unica prospettiva è quella dell’Expo, che ad oggi offre soltanto buchi di bilancio e affari immobiliari.
E non basta nemmeno rispondere al solo Corriere, perché il problema non è il dialogo con i poteri forti, ma anzitutto il recupero di un confronto con quella fondamentale parte della città impegnata nella cittadinanza attiva, nell’associazionismo, nell’attivismo sociale, nelle esperienze di autogestione.
Nulla è ancora perso o disperso, ma occorrono parole e fatti nuovi per ridare slancio a una primavera che oggi assomiglia un po’ troppo all’autunno.
 
 
di lucmu (del 15/07/2013, in Politica, linkato 998 volte)
Due fatti di questi giorni la dicono lunga sullo stato della nazione, molto più di tante disquisizioni. E non è questione di “limiti superati” o di qualcuno che ha “sbagliato”, poiché i protagonisti delle vicende sono il vicepresidente del Senato e ex Ministro di quel partito, la Lega, che governa mezzo Nord (Lombardia, Piemonte e Veneto) e il Ministro degli Interni in carica, che rappresenta il partito e la persona di Silvio Berlusconi. Ma andiamo con ordine, richiamando a memoria i fatti.
 
Fatto n. 1. Roma, fine maggio. Con una velocità procedurale mai vista e con un dispiegamento di forze dell’ordine degno di un’operazione contro Al Qaeda vengono prima catturate e poi espulse la moglie e la figlia del principale dissidente kazako, che vive in esilio a Londra. Tutta la vicenda è illegale, poiché Alma Shalabayeva e sua figlia Alua non potrebbero essere espulse, e per giunta l’operazione è stata sollecitata dall’ambasciata del Kazakistan, che ha contattato direttamente il capo gabinetto del Viminale.
Il Ministro Alfano dichiara che non ne sapeva nulla (e così dice anche il Ministro degli Esteri, Bonino), nonostante il coinvolgimento diretto dei massimi livelli dirigenziali del Ministero e della Polizia di Stato e la mobilitazione di mezza Questura di Roma.
Rimane il fatto che grazie a questa operazione la moglie e la figlia di uno dei principali oppositori sono ora ostaggi del dittatore kazako, Nursultan Äbiþulý Nazarbaev. Forse vi chiederete cosa c’entri il governo italiano con il tiranno kazako. Ebbene, non lo so, ma so che Nazarbaev e Berlusconi si considerano “amici” e che Alfano è il rappresentante di Berlusconi nel governo, nonché il capo supremo di coloro i quali hanno gestito l’espulsione lampo…
 
Fatto n. 2. Treviglio, 13 luglio, festa della Lega Nord. Roberto Calderoli fa il suo comizio e, ovviamente, non ce la fa a non dedicarsi a uno dei principali sport leghisti di questi tempi, cioè insultare il Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Ha detto che lei assomiglia a un “orango”. Poi si è scusato, però, e ha spiegato che non voleva offenderla e che “citare l’orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista” (vedi intervista Corsera di oggi)…
Già, Calderoli ha voluto strafare visto che Bossi gli aveva appena dato del “democristiano” e così avrà pensato che bisognava tornare ai bei vecchi tempi, in cui lui mostrava in Tv magliette anti-Maometto e si dedicava a cose edificanti come organizzare Maiale Day contro le moschee. Ma il punto non è questo, bensì il fatto che lui sta facendo esattamente la stessa cosa che fa tutta la Lega, sin dall’annuncio della nomina a Ministro di Cécile Kyenge. Ebbene sì, da ben prima che Kyenge potesse iniziare a parlare di ius soli o di altre proposte politiche, perché in realtà il peccato originale e imperdonabile è il colore della sua pelle. Appunto, come dice Calderoli, “è un giudizio estetico”!
Infatti, la Lega non si è scandalizzata più di tanto e Salvini si è limitato a dire che in realtà il problema sono i giornalisti che ne parlano, mentre il Presidente lombardo, Maroni, ha pensato bene di sottolineare che Calderoli si era scusato (sic).
 
Ebbene, questo è il breve riepilogo dei fatti, che ovviamente già conoscevamo. Ma è sempre bene metterli in fila, così non corriamo il rischio di sottovalutarli. Il quadro d’insieme che ne viene fuori è desolante, perché ci parla dell’Italia di questi tempi, delle macerie del ventennio berlusconiano-leghista e delle poco magnifiche sorti dei governi delle larghe intense.
Non me ne frega nulla del paese normale di veltroniana memoria, vorrei semplicemente un paese che recuperi un minimo di dignità. Un posto dove gente che si comporta come Calderoli o Alfano va cacciata via dalle responsabilità pubbliche, senza tanti bla bla bla, come se fosse una cosa normale.
Temo, ahimè e ahinoi, che anche un minimo di dignità oggigiorno sia merce rara…
 
Luciano Muhlbauer
 
P.S. a proposito, ho fatto un giro sul blog di Beppe Grillo, dove a volte si trovano cosa interessanti e utili, altre volte un po’ meno. C’è qualcosina sulla vicenda kazaka, ma sugli insulti di Calderoli a Kyenge, nulla. Neanche una parola, almeno fino al momento della pubblicazione di questo post. E penso che non sia una cosa bella e che, anzi, faccia parte del problema.
 
 
di lucmu (del 01/10/2013, in Politica, linkato 1114 volte)
Il governo delle larghe intese è al capolinea, travolto da un evento più grande di lui, che purtroppo non è una rivolta popolare contro l’austerità, bensì il crepuscolo del ventennio berlusconiano. Comunque vadano a finire le manovre di palazzo di questi giorni, lo scenario non sarà più lo stesso. E così, ancora una volta, il cambiamento e il movimento vengono determinati a destra e in alto.
Non saremo certo noi a rimpiangere questo governo, anzi. Oggi in tutta Europa le grandi coalizioni, di nome o di fatto, rappresentano viepiù la forma tipica di governo al tempo della crisi, la garanzia suprema di un sistema politico chiuso a riccio e di un ordine economico e sociale sempre più diseguale ed escludente. In altre parole, le grandi coalizioni fanno parte del problema e non delle soluzioni.
Tuttavia, c’è poco da esultare, perché nel frattempo in basso e a sinistra si muove ben poco, c’è silenzio e immobilismo. Subiamo gli eventi, al massimo li rincorriamo. E questo significa che oggi e qui i movimenti sociali e le sinistre non determinano alcunché. Significa, anzi, che gli interessi, le aspirazioni e le aspettative di chi la crisi la sta già pagando a caro prezzo vengono relegati al margine dell’agenda politica, considerati sacrificabili e prescindibili. Lavoratori e lavoratrici, precari, studenti, disoccupati, chi si batte per la difesa del territorio e contro le speculazioni, siamo tutti e tutte prescindibili come soggettività, al massimo siamo un problema di ordine pubblico.
Se la partita si gioca tutta sul lato destro del tavolo, allora, qualsiasi sarà la composizione futura di governo e maggioranza, le priorità saranno sempre le medesime, cioè quelle che ci hanno portati fino a qui e che ci spingono ulteriormente nel baratro. Tanto per capirci, ora l’allarme conti pubblici consiste nel dover recuperare 5 miliardi di euro entro fine anno e sappiamo tutti cosa vuol dire per le nostre esauste tasche. Ebbene, ora provate ad immaginarvi cosa succederà quando scatteranno le nuove regole europee (approvate ovviamente in maniera bipartisan dal nostro Parlamento), che prevedono che l’Italia debba ridurre il proprio debito al ritmo di 40-50 miliardi all’anno (fiscal compact), versare al MES 125 mld in cinque anni e fare tutto questo rispettando il pareggio di bilancio. Secondo voi, chi sarà chiamato a pagare il conto?
Insomma, se questo è il loro autunno, il nostro qual è? Appunto, per ora tutto è alquanto fermo, non stiamo troppo bene e occhio e croce ne conosciamo anche i motivi. Quindi, inutile riepilogare quello che già sappiamo e cerchiamo piuttosto di capire se ci sono le possibilità e le condizioni per muoverci, per rimettere in campo i movimenti e la sinistra.
Tra il 12 e il 19 ottobre ci saranno alcuni appuntamenti nazionali che ci diranno qualcosa in più sullo stato delle cose a sinistra e nei movimenti. Ma andiamo con ordine. Il 12 ottobre ci sarà a Roma la manifestazione nazionale per la difesa e l’attuazione della Costituzione, lanciata dall’appello La via maestra, firmato da Rodotà, Landini, Zagrebelsky, Don Ciotti e Carlassare. Il 18 ottobre ci sarà lo sciopero generale del sindacalismo di base. Il 19 ottobre, sempre a Roma, ci sarà il corteo intitolato Sollevazione Generale, lanciato da Abitare nella crisi e diverse realtà di movimento, compreso quello No Tav con presenze dalla Val di Susa. In mezzo ci saranno diverse iniziative a carattere territoriale, alcune legate alle scadenze nazionali, e la mobilitazione nazionale degli studenti medi dell’11 ottobre (evento facebook per l’appuntamento milanese).
Sono tutti appuntamenti nati quando non c’era la crisi di governo e sono tutte iniziative che si pongono fuori e contro la logica delle larghe intese e delle politiche d’austerità. Ma ora tutte dovranno fare i conti con il nuovo scenario e con le responsabilità che derivano. In altre parole, in quella settimana si deciderà, almeno in buona parte, se in questo autunno le sinistre e i movimenti potranno essere soggetti in campo, in grado di incidere, oppure se saranno fuori dai giochi e destinati all’irrilevanza.
Sì, lo so, sono iniziative diverse tra di loro. Anzi, sono per molti versi in competizione tra di loro. E in rete è facile trovare le relative polemiche. Ma il punto importante non mi pare questo, perché non si tratta di capire se “vince” un’iniziativa o l’altra, bensì se le mobilitazioni, o almeno una di esse, saranno in grado di aprire in basso e a sinistra una spazio e un protagonismo politico. Poi, chi ha più filo da tessere lo tesserà.
Infatti, ambedue le scadenze rischiano di rimanere segnati dai limiti che, ahimè, pervadono la sinistra, quella politica e quella di movimento. Il 12 ottobre è un’ottima iniziativa, persino innovativa per le modalità di convocazione, ma non è affatto detto che l’incipit riuscirà ad essere più forte della palude dei ceti politici. Il 19 potrebbe rappresentare un punto di ri-partenza sul piano nazionale per i movimenti, che costituirebbe peraltro una boccata d’ossigeno per i movimenti ora stretti dalla repressione, come quello No Tav, ma rischia di non liberarsi dal fantasma del 15 ottobre di due anni fa (do you remember?).
Insomma, ottobre ci offre delle opportunità per il nostro autunno, ma anche dei tranelli e dei rischi. E come sempre, dipende da noi cosa ne facciamo.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Post Scriptum del 2 ottobre: il governo delle larghe intese è ancora in piedi. Dopo capriole e contrordini a raffica, alla fine, Berlusconi ha dato la fiducia al governo che voleva sfiduciare. Il crepuscolo berlusconiano ha per ora risparmiato il governo, trasferendo le sue convulsioni direttamente in casa Pdl. La buona notizia (se proprio vogliamo cercarne una) è che per prima volta Berlusconi ha dovuto chinare pubblicamente il capo. Per il resto, rimane purtroppo interamente valido il ragionamento sopra svolto, perché i giochi si sono fatti tutti sul lato destro, mentre a sinistra sembriamo quelli che stanno seduti in platea a guardarci un film. E, ovviamente, continuano ad esserci il governo delle larghe intese e le politiche d’austerità, come prima.
 
 
di lucmu (del 16/10/2013, in Politica, linkato 1177 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su MilanoX il 16 ottobre e su il Manifesto il 17 ottobre 2013 
 
Sedriano, ovest milanese, poco più di 11mila abitanti, è il primo Comune lombardo ad essere sciolto per infiltrazione mafiosa. L’ha deciso il Consiglio dei Ministri del 15 ottobre, accogliendo le raccomandazioni contenute nella relazione della Prefettura di Milano di questa estate.
Quanta acqua è passata sotto i ponti dal giorno in cui un altro Prefetto milanese, Gian Valerio Lombardi, affermò che a Milano la mafia non esisteva. Sembra un secolo fa, eppure era soltanto il gennaio del 2010. Nel frattempo, però, la favola che il crimine organizzato fosse una questione meridionale, accreditata anche dalla Lega, ha iniziato a vacillare sotto i colpi dei dati di fatto.
Per prima arrivò l’Operazione Infinito dei magistrati antimafia di Reggio Calabria e Milano, scattata nel luglio 2010, che evidenziò che in Lombardia la ‘ndrangheta fosse ormai una presenza talmente capillare, radicata e diffusa, da poter contare su un sistema di complicità che coinvolgeva settori dell’imprenditoria locale, della pubblica amministrazione e della politica. Non a caso, i magistrati milanesi erano particolarmente severi con gli imprenditori coinvolti, poiché consideravano la loro mancanza di collaborazione non come il frutto della paura, bensì della convenienza.
L’operazione Infinto era un piccolo shock per l’opinione pubblica e qualcosa iniziò a cambiare. Peraltro, era ormai diventato difficile non vedere una realtà sempre più straripante. E non ci riferiamo tanto al traffico di stupefacenti, di cui Milano è da tempo una delle principali piazze europee, quanto al fatto che a Infinito sono seguite altre operazioni, che diversi importanti giornali hanno iniziato a fare inchieste e a pubblicare persino mappe della presenza mafiosa, che i primi appalti assegnati per Expo 2015 sono stati bloccati dalla magistratura causa infiltrazioni mafiose o che certi incendi dolosi erano diventati troppi anche per un’area metropolitana come quella milanese.
Tanti fatti, ma poi ne arrivò uno che ebbe l’effetto di una bomba, cioè l’inchiesta che nell’ottobre dell’anno scorso portò in carcere l’allora Assessore regionale alla Casa, Domenico Zambetti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e voto di scambio. Fu il colpo di grazia per la traballante Giunta Formigoni, ma anche l’inizio della vicenda di Sedriano, poiché risultava coinvolto anche il Sindaco, il pidiellino Alfredo Celeste, che finì agli arresti domiciliari.
Il marcio al Comune di Sedriano non si fermava però al Sindaco e si scoprì che in Consiglio comunale sedevano anche la figlia e la moglie di due presunti boss della ‘ndrangheta. Tuttavia, a nessuno degli amministratori passò per la tesa di dimettersi, tranne un unico consigliere della maggioranza di centrodestra. Anzi, terminati gli arresti domiciliari, il Sindaco tornò al suo posto in Comune, fregandosene delle crescenti proteste della cittadinanza.
Ora però è finita e presto a Sedriano arriverà il Commissario. È certamente un giorno triste per Sedriano, perché essere il primo Comune lombardo ad essere sciolto per mafia non fa piacere a nessuno, ma è anche un giorno buono e una vittoria per quei tanti e quelle tante sedrianesi che in questi dodici mesi non hanno mai smesso di mobilitarsi, di denunciare, di pretendere che il Sindaco se ne andasse e che si facesse pulizia, così come hanno fatto anche molte altre realtà del Magentino, a partire dalla Carovana Antimafia Ovest Milano.
Ma oggi è definitivamente finita anche con i dubbi, con le fette di salame sugli occhi. In Lombardia la mafia esiste! E tutti quanti dovrebbero prenderne atto e agire di conseguenza, magari prendendo esempio da chi in questi dodici mesi a Sedriano si è battuto contro le mafie e il menefreghismo e che oggi rappresenta la vera speranza di futuro per quel territorio.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 10/12/2013, in Politica, linkato 2934 volte)
Si può cavalcare la tigre dei forconi? I movimenti, i pezzi sparsi di sinistra, l’antagonismo possono attraversare e condividere lo spazio delle giornate “l’Italia si ferma!” e trarne qualcosa di utile e fecondo per una prospettiva di trasformazione politica e sociale? È sufficiente farsi un giro in rete e sui social network per capire che questa domanda aleggia un po’ ovunque. E pertanto è giusto e necessario parlarne.
Metto subito le mie carte su tavolo: io non penso si possa fare. Ma non perché condivida alcuni approcci un po’ troppo semplicistici, che ahinoi abbondano sul lato sinistro del mondo, per cui si preferisce mettere la testa sotto la sabbia di fronte a fenomeni e conflitti sociali che non rientrano nei nostri canoni tradizionali o che fatichiamo a leggere. Come se, così facendo, potessimo davvero esorcizzare una realtà che non è come la vorremmo.
Anzi, da questo punto di vista condivido molta parte delle argomentazioni che in questi giorni propone il sito Infoaut (vedi Quando Millennium People è sotto casa), perché guai a annebbiare la nostra vista e inaridire i nostri cervelli, a perdere la capacità di essere curiosi e di curiosare, a rifugiarci nelle rassicuranti certezze di un mondo che non esiste più. Saremmo dei matti, specie ora e qui.
Ma tutto questo non può significare che esistano delle scorciatoie per la ricostruzione di un progetto e di una soggettività della trasformazione. Insomma, non penso che si possa tanto semplicemente separare sociale e politico, per cui ora ci concentriamo sulla composizione sociale e le sue ambiguità, cercando nella pratica e sul campo un’interlocuzione, mentre la parte politica la mettiamo temporaneamente in disparte, come fosse cosa altra e comunque marginale.
Le giornate di blocchi e mobilitazioni dei forconi vedono in piazza una composizione sociale molto eterogenea e frammentata, da settori di piccola borghesia impoveriti –o che vivono nella paura dell’impoverimento- fino a settori popolari, uniti esclusivamente dalla rabbia e da un gigantesco contro: contro la politica, contro i politici, tutti a casa. Da una parte il popolo indistinto, dall’altra la casta.
Il perimetro, lo spazio in cui avvengono le manifestazioni non è neutro, è politicamente e culturalmente segnato. Lo è perché l’aria che tira è quella che è e, soprattutto, perché esistono degli organizzatori, dai Forconi al Life, che ovviamente non controllano con il telecomando tutte le mobilitazioni e le piazze, ma che, essendo chiaramente orientati a destra (vedi la denuncia dell’Osservatorio democratico), hanno impresso all’iniziativa sin dall’inizio una selezione di tematiche e priorità, una determinata direzione di marcia.
In altre parole, i fasci di Forza Nuova e Casa Pound, o qualche gruppo ultrà legato ai circuiti nazifascisti, ci sono non perché siano gli organizzatori principali (per fortuna non siamo ancora a questo), ma perché l’humus politico e culturale gli è congeniale, corrisponde ai loro discorsi e immaginari. E poi ci sono anche i celerini che si tolgono il casco davanti ai manifestanti, che magari è una bufala, ma in fondo non importa, perché comunque qualche pezzo della polizia rivendica alla grande quel gesto (vedi comunicato inquietante Siulp) e comunque non vedremo mai cose simili in Val di Susa, in un corteo studentesco o davanti una fabbrica occupata.
Insomma, non penso si possa cavalcare quella tigre, perché quella tigre non è neutra:  il punto non è l’ambiguità sociale, bensì quella politica.
Infatti, valga come controprova il riuscitissimo corteo del 19 ottobre scorso a Roma. Se allora fossimo andati a fare l’esame del sangue politico a ogni singolo manifestante, specie nel nutrito e popolare spezzone romano, ne avremmo viste probabilmente di tutti i colori. Ma, appunto, c’era un perimetro politico disegnato dagli organizzatori ed è questo che ha determinato il messaggio e la direzione di marcia del corteo.
 
Certo, detto tutto questo, rimane l’eterno problema del che fare, di questi tempi sempre più impellente. Sono tempi pesanti, individualmente e collettivamente parlando, la confusione è tanta e ogni fatto di qualche rilevanza sullo scenario politico sembra avvenire sempre e comunque sul lato destro. E succedono cose, qua e là, che magari non finiscono in prima pagina, ma sono cariche di simbolismo, come la recente nomina a commissario straordinario per Pompei di un Generale dei Carabinieri.
Eppure scorciatoie non esistono e non esiste alternativa alla nostra presa di iniziativa, al nostro protagonismo. Anzi, è lo stesso “noi” che va rifatto. È difficile? Sì, molto, ma va fatto, perché se continuiamo ad abbandonare il campo, altri lo occuperanno. Se lasciamo che dal lessico del cambiamento venga espulso definitivamente il paradigma del conflitto sociale, per essere sostituito da quello della casta, allora il futuro si prospetta parecchio fosco. Insomma, come al solito, dipende soltanto da noi.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 10/01/2014, in Politica, linkato 1652 volte)
Quello che colpisce nella fiction “Gli anni spezzati” non è tanto l’ennesimo tentativo di ri-scrivere la storia recente del nostro paese e nemmeno il fatto che l’artefice dell’operazione sia la Tv di Stato, con il patrocinio dell’Associazione nazionale della Polizia di Stato. No, quello che colpisce e offende è che lo si faccia con tanta spudorata banalità, grossolanità e approssimazione e senza che ci sia almeno un accenno di scandalo pubblico.
Segno dei tempi anche questo, perché fino a non troppi anni fa almeno ci si sforzava un po’, si producevano ri-letture un po’ più sofisticate e confezionate meglio. Specie quando si toccava il tasto del periodo della strage di Piazza Fontana. E non perché la memoria storica fosse molto di più solida di oggi, come aveva evidenziato già nel 2006 un’inchiesta della Provincia di Milano tra gli studenti medi (vedi “Piazza Fontana, sono state le Br. O la mafia”, Corriere della Sera 13.12.2006), ma molto più semplicemente perché bisognava attrezzarsi in vista delle prevedibili reazioni pubbliche.
Oggi, invece, la prospettiva della polemica pubblica non sembra più preoccupare nessuno e i fatti, ahinoi, paiono dare ragione alla Rai, perché a due giorni dalla messa in onda del primo capitolo della trilogia, Il Commissario, la polemica, le reazioni, la critica e la stessa discussione sono fondamentalmente confinate in un pezzo di mondo assai caratterizzato. Come mi ha scritto ieri una mia amica su facebook: “Preoccupante è il fatto che ovviamente se ne parla solo tra noi”.
Beninteso, non che sui mezzi di informazione mainstream ci siano le standing ovation, ma ci si limita a far finta di niente oppure a parlarne criticamente soltanto a pagina 42, come fa oggi La Repubblica. Davvero un po’ poco per una fiction che è ha stravinto la gara degli ascolti televisivi (share del 18,66% per la prima parte e del 17.14% per la seconda).  
E così, ci troviamo di fronte a un prodotto televisivo mediocre, dove la sciatteria nella cura dei dettagli, come quel manifesto contro Casa Pound in casa di un anarchico del ‘69 (vedi segnalazione di Militant), costituisce un semplice sottoprodotto di una più generale e grossolana noncuranza per la realtà di quegli anni, che porta a ignorare il clima politico, i movimenti di massa e l’autunno caldo e a ridurre la strage di Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi di Stato, a mero e inintelligibile sfondo per una telenovela il cui unico fine è l’esaltazione di una versione alquanto irreale del Commissario Calabresi. Come stupirsi dunque che alla fin della fiera la fiction proponga sulla strage del 12 dicembre, sulla stagione della strategia della tensione e sulla stessa morte in Questura di Pinelli un livello di verità persino molto inferiore a quella che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva definito "una verità storica conseguita”.
Un’operazione di falsificazione storica, senza dubbio, offensiva per la coscienza e la memoria storica, per non parlare dei familiari di Giuseppe Pinelli e degli anarchici, ma anche un’operazione che ha spopolato in prima serata e che dunque ha raccontato la sua verità su anni cruciali della nostra storia a milioni di persone. Ecco perché è sbagliato il troppo silenzio da parte di troppi, che invece la possibilità di parlare pubblicamente ce l’avrebbero. E la qualità infima della revisione storica non è un attenuante per i silenzi, anzi, semmai è un aggravante.
E poi, non è neanche finita qui, perché ci aspettano ancora due puntate. Settimana prossima toccherà a Il Giudice, dedicato alla figura del giudice Mario Sossi, sequestrato dalle Brigate Rosse nel ’74, e poi arriva L’ingegnere, che pretende di raccontarci la lotta operaia alla Fiat attraverso gli occhi di un dirigente della multinazionale…
Penso sia chiaro l’intento revisionista della fiction ed è altrettanto chiaro che si possa perseguire questo intento in maniera talmente banale e grossolana perché il vento che tira lo permette, perché l’egemonia culturale è ormai di qualcun altro, perché siamo passati dal pensiero debole a quello liquido, perché la storia la scrivono i vincitori ecc. ecc. ecc. Eppure, tutto ciò non è una giustificazione per non dire e non fare, anzi, perché come sempre, quando si riscrive il passato, l’obiettivo è il presente e il futuro.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 29/01/2014, in Politica, linkato 2725 volte)
Intervento di Luciano Muhlbauer pubblicato su MilanoX il 29 gennaio 2014
 
Lo scenario politico europeo sta prendendo una brutta piega e rischiamo seriamente che rimangano in campo soltanto due opzioni politicamente e culturalmente rilevanti: l’Europa così com’è, cioè quella dell’austerità e del neoliberismo, e l’Europa dei ripiegamenti nazionali e regionali, intrisa di egoismi, intolleranze e xenofobia. Attorno alla prima opzione si sono formate le grandi coalizioni oligarchiche centrodestra-(ex)centrosinistra, attorno alla seconda si sta delineando un ancora caotico, ma molto determinato fronte delle destre.
Due prospettive per nulla desiderabili, soprattutto se guardiamo al problema dal punto di vista di chi sta pagando il prezzo sociale della crisi, costretto a bassi salari, disoccupazione e precarietà a gogò.
L’Europa così com’è, quella della demolizione del welfare e dei diritti sociali, del cappio del fiscal compact e della massima libertà per i detentori di capitali, non è una soluzione, anzi, è parte fondamentale del problema. L’Europa dei ripiegamenti, quella di Le Pen, Wilders e Salvini, che dà tutta la colpa alla moneta unica e ai migranti, non propone un modello sociale alternativo, ma semplicemente una variante della guerra tra i poveri, dove alla fine vince sempre e comunque il ricco e il potente. E così, invece di mettere in competizione diretta il salario dell’operaio polacco e quello dell’operaio italiano, fanno scannare tra di loro l’autoctono e l’immigrato, il cristiano e l’islamico, l’etero e l’omo eccetera.
Il rischio di rimanere prigionieri di queste due opzioni e di dover quindi scegliere tra il Pasok e il Front National (o l’astensione) è serio e concreto, ma non è certo un destino ineluttabile. E per favore smettiamola anche con la storia trita e ritrita del tanto non c’è nulla da fare, perché in tempi di crisi e disoccupazione di massa vince sempre e comunque la destra. Sarà anche vero, ma oggi e qui sa tanto di autoassoluzione. E poi, come mai una delle esperienze più vive, fresche e promettenti della sinistra europea, cioè Syriza, si è formata e affermata proprio laddove la crisi e le politiche anticrisi hanno picchiato più duro, cioè in Grecia?
Appunto, non c’è mai nulla di ineluttabile, c’è sempre un sentiero da esplorare. E proprio dalla Grecia ci viene oggi un insegnamento e una proposta che guarda all’Europa, a un’altra Europa. I sondaggi danno Syriza ormai come primo partito greco. Syriza è di sinistra, chiaramente di sinistra, ha unito pezzi di sinistra preesistenti senza fare inguardabili pateracchi, perché l’ha fatto non nelle stanze di qualche palazzo, ma per strada, al calore dei movimenti e delle lotte sociali. Syriza è radicalmente contro le politiche di questa Europa, ma non è contro l’Europa. Anzi, ritiene che il terreno di scontro fondamentale sia continentale, che si debbano costruire alleanze con movimenti e forze organizzate degli altri paesi per riuscire a cambiare le cose, per costruire un’altra Europa.
Insomma, per non farla lunga, Syriza è la sinistra che ci vorrebbe un po’ dappertutto e non per motivi astratti o ideologici, ma perché rappresenta un’opzione concreta, politicamente e culturalmente rilevante. Forse anche per questo, anzi, sicuramente per questo, in tutta Europa le sinistre discutono se dare vita a liste di sostegno alla candidatura di Alexis Tsipras, il leader più in vista di Syriza, a presidente della Commissione Europea. Cioè, la candidatura di Tsipras costituisce una possibilità concreta per tentare di far emergere anche a livello europeo l’opzione che ancora manca (almeno in termini di rilevanza), quella più importante, quella di un’Europa sociale, dei diritti e dei popoli.
Ed eccoci arrivati a noi, alla disastrata sinistra italiana. C’è anzitutto un elemento positivo, cioè un diffuso consenso alla proposta di costruire una lista Tsipras anche in Italia, a partire dall’ottimo appello di Barbara Spinelli e altri, che qualcuno ha definito “degli intellettuali” o “della società civile”, ma che in realtà (e per fortuna) è già andato ben oltre definizioni del genere. Poi ci sono i partiti esistenti della sinistra, dallo scontato sostegno di Rifondazione Comunista, che ha in comune con Syriza la collocazione nella Sinistra Europea, a quello meno scontato e non ancora definitivo di Sel. E poi ci sono tanti altri pronunciamenti positivi, come quello di Sandro Mezzadra e Toni Negri. Insomma, siamo di fronte una convergenza ampia su un obiettivo comune che in Italia a sinistra non si vedeva da tempo.
Bene, ottimo. Ma qui iniziano anche i problemi, perché una cosa è avere un largo consenso, un’altra è tradurlo in una lista per le elezioni europee all’altezza della situazione. E da questo punto di vista non c’è nulla di semplice o scontato, perché il recente passato tipo Sinistra Arcobaleno o Rivoluzione Civile pesa, così come le mille divisioni e incomunicabilità, le troppe piccole patrie, i troppi recinti e i troppi protagonismi.
Non ho soluzioni pronte per risolvere il problema e per costruire nel poco tempo che resta una proposta politica ed elettorale credibile, rilevante e seria in vista delle elezioni europee di maggio. Eppure, non condivido il pessimismo di alcuni, come quello di Aldo Giannuli, che considera la proposta fuori tempo e senza spazio, perché quello spazio sarebbe irrimediabilmente occupato dal M5S.
Ho invece due convinzioni. La prima è che è necessario farlo, perché urge terribilmente far vivere anche in Italia e in maniera rilevante l’opzione per un’altra Europa, rispetto alla quale il M5S mantiene davvero troppe ambiguità. E se qualcuno avesse qualche dubbio sull’importanza del terreno europeo, in fondo gli basterebbe guardare meglio alla vicenda dell’Electrolux di questi giorni, poiché questa, come tante altre, ci ricorda con la brutalità dei fatti che in ultima analisi lo scontro sociale e politico si colloca a livello almeno continentale.
La seconda è che è possibile farlo, a patto però che si applichi il metodo suggerito dallo stesso Tspiras nella sua lettera del 24 gennaio scorso, che non a caso si chiude con queste parole: “solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, per fare tutti insieme molti passi in avanti, potremmo cambiare la vita degli uomini”.
Insomma, Tsipras c’è e c’è anche la possibilità di fare qualcosa di vero, di utile e di sinistra. Questo è il punto, tutto il resto viene dopo. Sta dunque a noi tutti e tutte non fare cazzate questa volta.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
di lucmu (del 06/02/2014, in Politica, linkato 1927 volte)
Il dibattito sull’Europa e sul che fare, anche in vista delle elezioni europee che si terranno il 25 maggio prossimo, è più che mai aperto e nel suo piccolo lo dimostra anche la polemica che si è aperta tra me e il mio amico Aldo Giannuli, il quale ha pubblicato sul suo blog lunedì e martedì due articoli in risposta al mio intervento di settimana scorsa, scritto per MilanoX e intitolato Con Tsipras, senza esitazione, per un’altra Europa.
Ebbene, le sue argomentazioni meritano senz’altro una replica, non per dare vita a un botta e risposta senza fine, cosa che non interesserebbe nessuno, ma piuttosto perché i temi sollevati mi pare appartengano a un dibattito ben più vasto. E poi, io credo nella dialettica e se la nostra piccola polemica servirà per alimentare e allargare il confronto, allora avremo fatto anche una cosa buona e utile.
Potete leggere i due interventi di Giannuli sul suo blog cliccando sui seguenti link: Può esserci un’altra Europa? E come? e Concludendo: la lista Tsipras si fa o no?. Per quanto mi riguarda procederò per punti, scusandomi in anticipo per un eventuale eccesso di schematismo, ma molte cose sono già state dette e scritte e mi pare preferibile concentraci sui nodi centrali.
 
1. La prima domanda, anzi la madre di tutte le domande non è se la Ue sia riformabile o irriformabile, oppure se l’attuale architettura europea e la sua moneta unica siano vicini al collasso. E nemmeno se il Parlamento europeo possa essere strumento di riforma dell’Unione, anche perché in un contesto continentale dove i Parlamenti nazionali sono sempre più svuotati di funzioni e poteri, cosa dovrebbe fare un’istituzione che di funzioni legislative e di potere non ne ha mai avuti? No, a monte c’è un altro quesito, cioè qual è oggi il terreno del conflitto di classe e, di conseguenza, qual è la dimensione in cui costruire e articolare una prospettiva di trasformazione, un programma, una strategia e una soggettività o meglio, una convergenza di soggettività.
Questo credo sia il punto di partenza di ogni ragionamento, perché viviamo in una dimensione non solo continentale, ma mondiale, in cui la globalizzazione liberista non è soltanto ideologia o proclama, ma anche sostanza economica, sociale e culturale. Gli stati nazionali rimangono altamente significativi, certo, perché è quella la dimensione in cui si costruisce la legittimazione politica del potere e sono quelli i livelli che detengono la forza armata e la funzione repressiva. Ma i luoghi del potere e delle decisioni che contano e il “campo di gioco” si trovano altrove e sfuggono alla mera dimensione nazionale. Vale per il capitale finanziario, vale per le transnazionali, vale per l’Electrolux o per la Fiat (pardon FCA), vale per qualsiasi grande istituto bancario, vale per la politica. Il sup Marcos qualche anno fa chiamò tutto questo La quarta guerra mondiale e la definizione mi pare assai calzante.
In un mondo e in un’Europa siffatti si può pensare davvero che la dimensione del conflitto, della lotta sociale e politica, del perseguimento di obiettivi concreti come un salario decente o un reddito sociale e della definizione di un modello di società possa essere diversa da quella sovrannazionale? Non è una questione astratta o ideologica, ma maledettamente concreta. In fondo è una questione di efficacia dell’azione sociale e politica.
 
2. L’Unione Europea è fondamentalmente al servizio del liberismo. Così come si è storicamente configurata con i suoi trattati, cioè con gli accordi tra i governi nazionali, è stata ed è strumento per abbattere frontiere ed eliminare regole per i capitali, innalzare muri per le persone, mettere in competizione livelli salariali diversi, fare dumping sociale, spingere i riluttanti a privatizzare di più e più in fretta. Con la crisi sono poi arrivate le politiche d’austerità e del pareggio di bilancio, che hanno fiaccato una parte del continente e che stanno strangolando interi settori sociali. E con loro sono arrivate le troike, le letterine ai governi, i fiscal compact, i commissariamenti di fatto. Quasi scontato che di conseguenza sia arrivata anche la crisi di legittimità delle istituzioni europee, già in partenza prive di investitura democratica diretta e ora sempre di più identificate come la causa di ogni male.
Oggi questa Europa rischia davvero di collassare e con essa la moneta unica. E anche sulla sua “riformabilità” ho dei sinceri dubbi. Non sta qui, infatti, il punto di divergenza con Giannuli. Il punto di divergenza con lui e con altre forze di sinistra, come il KKE greco, o movimenti “non etichettabili come destra” (per usare la definizione di Giannuli), come il M5S, è che non credo affatto che di conseguenza l’unica strada sia tifare per il disfacimento dell’Ue e della moneta unica, che altro non significa, in assenza di un discorso e di un orizzonte europeo, che ritornare alla dimensione e alle monete nazionali. E se succedesse questo, senza avere in campo un’opzione alternativa di sinistra a livello europeo e una cooperazione di movimenti e forze sul piano continentale, allora mi pare evidente, vista anche l’aria che tira, che la strada sarebbe più che libera per opzioni di destra, che nel ripiegamento nazionale si trovano invece perfettamente a loro agio.
Insomma, avere in campo un’opzione europea di sinistra dovrebbe essere una preoccupazione non solo di chi crede che l’attuale assetto istituzionale sia destinato a durare, ma soprattutto di chi crede che siamo ormai vicini al collasso.
 
3. Ultimo punto, o per dirla con le parole di Giannuli: “la lista Tsipras si fa o no?”. Magari lo sapessi, magari avessi la sfera di cristallo. Comunque, lo sapremo a breve, perché i tempi sono molto stretti e Tsipras venerdì sarà a Roma al Valle occupato. Credo che in quel frangente qualche elemento più concreto ci sarà per forza di cose, in positivo o in negativo.
Per quanto mi riguarda, come ho già scritto, io tifo perché ci sia la lista Tsipras e per quel che vale mi impegno in tal senso. E lo faccio nonostante sia perfettamente consapevole delle contraddizioni, delle difficoltà, dello stato pietoso in cui sono ridotte le sinistre italiane, delle tante autoreferenzialità dei ceti politici di partito e non di partito, dei litigi, degli odi, delle cazzate e delle idiozie. Lo faccio perché Tsipras rappresenta un’esperienza politica concreta e positiva e perché oggi la sua candidatura a livello europeo costituisce una possibilità per costruire convergenze a livello continentale per un’altra Europa.
Non è detto che si riesca, ovviamente. Tanti dicono di sostenere Tsipras, ma mettere i tanti insieme è dura, ci conosciamo. Eppure, per poter funzionare bisogna mettere insieme tutti e fare un'unica lista, aperta e includente.
I tempi sono stretti? Ci sono tante firme da raccogliere, grazie a una legge elettorale che penalizza chi non è già in parlamento? Certo, è difficile, ma non impossibile, a patto che la lista non sia un pateracchio, che non respinga le forze dotate di organizzazione, che non dia l’impressione di essere un club privato e, soprattutto, che in giro susciti un po’ di sano entusiasmo.
La lista, anche se riesce a presentarsi e a superare lo sbarramento, poi “si squaglierebbe in venti secondi”. Forse sì, forse no. Io penso che del poi bisogna occuparsi poi e che sarà determinato anche da quello che è successo prima. E magari, facendo delle cose insieme, si riesce a cambiare tutti e tutte e non necessariamente in peggio.
Insomma, ci sono tante controindicazioni e tanti pericoli. Ma i tempi della politica raramente seguono i nostri tempi, cioè quelli che noi pensiamo debbano essere i nostri tempi. Bisogna dunque osare, tentare, altrimenti non combineremo mai niente. Io la vedo così.
 
Per concludere, io sono fermamente convinto che la dimensione europea della lotta e del conflitto sia una necessità imprescindibile per i movimenti sociali, per le organizzazioni dei lavoratori e per le forze che fanno i conti con il livello elettorale e istituzionale. E che dunque sia quello il contesto in cui bisogna agire e costruire, anche al di là delle elezioni europee, che tuttavia nella congiuntura attuale assumono un significato politico di primaria importanza. Per questo vale la pena lavorare perché ci sia una lista Tsipras anche in Italia. Magari ci riusciamo, magari finisce prima di iniziare. Lo vedremo. Comunque sia, anche nella peggiore delle ipotesi, potremo dire di averci provato, invece di arrenderci passivamente a quel che passa il convento, cioè l’astensionismo o il voto al M5S. Nella migliore delle ipotesi, invece, avremo fatto finalmente qualcosa di utile.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
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