Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Non merita sicuramente l’appellativo epocale, ma l’accordo sulla rappresentanza, firmato il 31 maggio scorso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, certifica indubbiamente un cambiamento di fase. Cioè, si chiude il periodo delle divisioni tra la Cgil e Cisl-Uil e si apre una nuova fase all’insegna della ricostituzione del quadro unitario tra le tre confederazioni, del restringimento della sfera di autonomia di lavoratori, delegati e categorie e della compressione della conflittualità sociale.
Insomma, in sintonia con il clima di larghe intese politiche, si ripropone, o si tenta di riproporre, lo schema neocorporativo e concertativo degli anni ’90 del secolo scorso, ma con la significativa differenza che oggi i rapporti di forza sono immensamente peggiori e i margini di manovra vengono continuamente erosi dalle politiche d’austerità. In altre parole, a queste condizioni il massimo che si può concertare è la resa e non è nemmeno detto che sia onorevole.
Molto difficile pensare che i vertici di Cgil, Cisl e Uil non avessero piena coscienza di ciò e ne è dimostrazione il fatto che il terreno concreto dell’accordo fosse proprio la questione della rappresentanza e della democrazia, cioè del chi e del come decide. Peraltro anche un altro accordo “storico”, quello del 23 luglio 1993, conteneva un nucleo duro dedicato alla questione. Infatti, lo scempio antidemocratico del 33% dei delegati RSU assegnati d’ufficio a Cgil-Cisl-Uil, a prescindere dal voto dei lavoratori, fu introdotto proprio allora.
L’accordo del 31 maggio va dunque valutato per quello che è e per quello che produrrà, da un punto di vista politico e da un punto di vista sostanziale.
 
La subalternità al quadro politico
Sembra quasi un controsenso parlare di subalternità al quadro politico nel momento storico in cui i partiti attraversano una crisi di credibilità e di legittimità senza precedenti e la politica appare più che mai ininfluente, anzi irrilevante, rispetto agli interessi sociali ed economici dominanti. Eppure, è proprio così. Anzi, fa sempre impressione constatare il basso livello di autonomia degli organismi dirigenti confederali dai partiti e dai governi. Beninteso, non tutte le grandi scelte sindacali si spiegano così, ci mancherebbe altro, ma è praticamente impossibile fare la storia recente delle divisioni e delle ricomposizioni dei gruppi dirigenti confederali senza tenere conto dell’evoluzione del quadro politico.
Il decennio di conflitti tra la Cgil e la Cisl, con la Uil di solito schierata con la seconda, è iniziato grosso modo nel 2003, con le grandi mobilitazioni della Cgil in difesa dell’art. 18. Erano gli anni del secondo governo Berlusconi e della riforma liberista del mercato del lavoro, ma anche dei movimenti no global e contro la guerra. I DS erano stretti tra i movimenti, la critica della base e un Berlusconi saldamente in sella e avevano necessità di fare opposizione. Nessuno invitava la Cgil a fermarsi, mentre la Cisl, fedele alla sua impostazione corporativa e collaborazionista, iniziava a rafforzare i rapporti con il centrodestra. Bonanni e il Ministro Sacconi facevano praticamente squadra e alla fine del decennio al Ministero del Lavoro c’era il pieno di dirigenti e funzionari targati Cisl.
L’esperienza del governo Prodi (2006-2008) era stata troppo breve e precaria per poter modificare il quadro, anche se in quella fase la Cgil aveva ovviamente abbassato parecchio la conflittualità. Poi era tornato Berlusconi e quindi anche l’antiberlusconismo, compreso quello sindacale.
La svolta iniziava a prendere corpo lentamente, ma inesorabilmente, a partire dal primo governo delle larghe intese, che vedeva il Pd in maggioranza. Già ai tempi di Monti il tasso di conflittualità espresso dalla Cgil era scandalosamente basso. Per intenderci, basso non rispetto alle aspettative di qualche estremista, bensì rispetto a quello che succedeva nel resto d’Europa. Persino il sindacato democristiano belga era più combattivo! Da noi invece, neanche uno sciopero generale, nemmeno contro la scandalosa riforma delle pensioni, e la stessa manomissione dell’articolo 18 da parte della riforma Fornero passò in maniera piuttosto indolore. Infine, è arrivato il governo Letta e con esso anche l’accordo del 31 maggio.
Certo, non tutto si spiega con il quadro politico ed è anche vero che la segreteria Camusso, nata prima dei governi delle larghe intese, aveva sin dall’inizio la mission strategica della ricostruzione dell’unità confederale e del rientro nei ranghi dei riottosi, a partire dalla Fiom. Tuttavia, è lampante che il quadro politico e, in particolare, il posizionamento del Pd eserciti un condizionamento determinante sui gruppi dirigenti della Cgil e, in ultima analisi, inibisca la costruzione di una battaglia sociale contro le politiche d’austerità.
 
Una democrazia escludente
Ma arriviamo al merito dell’accordo del 31 maggio. A suo favore si è detto che finalmente, dopo il pubblico impiego, anche nel settore privato sia stata regolata la rappresentanza sindacale, cioè che in qualche maniera sia stato attuato l’articolo 39 della Costituzione. Già, ma qui sta anche il primo enorme problema, cioè il primo vulnus. Se i titolari dei diritti e delle libertà sindacali sono i lavoratori, tutti i lavoratori, come si fa a ritenere soddisfacente, da un punto di vista democratico e costituzionale, una soluzione che assegna la regolamentazione dell’esercizio di tali diritti e libertà non a una legge, bensì a un accordo tra Confindustria e alcune organizzazioni sindacali, sebbene maggioritarie?
Non a caso, infatti, diversi giuslavoristi, come ad esempio Piergiovanni Alleva (vedi il Manifesto del 2 giugno scorso), pur valutando positivamente l’accordo, ritengono che un intervento legislativo sia tuttora necessario. Peccato però che a questo punto, con l’accordo del 31 maggio vigente, la speranza di vedere prima o poi una legge sia nel migliore dei casi una pia illusione.
Il fatto che siano delle parti in causa a scrivere le regole del gioco produce di per sé una distorsione e se, poi, questo avviene in un quadro segnato dalla recessione e dalla prospettiva di firmare contratti a ribasso per i lavoratori, allora eccoci di fronte alla realtà di una democrazia sotto tutela ed escludente, dominata anzitutto dalla preoccupazione di non perdere il controllo. E così, si realizza l’apparente paradosso di una situazione dove i contratti nazionali continuano a perdere forza e importanza rispetto ai contratti aziendali, ma contestualmente le organizzazioni sindacali tendono ad accentuare il controllo centrale e burocratico, riducendo l’autonomia e la forza dei livelli aziendali, Rsu e lavoratori, e delle categorie.
L’accordo del 31 maggio disegna un sistema escludente e autoreferenziale. Anzitutto esclude a monte tutte le organizzazioni sindacali diverse da Cgil, Cisl e Uil o che comunque, in un secondo momento, non accetteranno la linea dettata dalle tre confederazioni. Cioè, se non condividi l’accordo del 31 maggio, sei fuori.
Vi è poi la cosiddetta “soglia anti-Cobas”, per dirla con le parole di Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24 Ore. Il sistema prevede la misurazione della rappresentatività facendo una media tra la percentuale degli iscritti al sindacato e la percentuale di voti ottenuti nelle elezioni RSU, su base nazionale e per comparto contrattuale. Se superi il 5% allora puoi sederti al tavolo delle trattativa per il contratto nazionale, altrimenti sei fuori.
In linea di massima è lo stesso sistema già vigente nel Pubblico Impiego, ma con qualche significativa differenza. Anzitutto, nel privato il datore di lavoro non ha alcun obbligo di fare la trattenuta della quota sindacale in busta paga per un lavoratore iscritto a un sindacato non firmatario di contratti nazionali, come di solito sono i sindacati di base. E quindi, la certificazione del numero degli iscritti da parte dell’Inps, così come previsto dall’accordo del 31 maggio, semplicemente non è possibile in molti casi. In secondo luogo, al fine del calcolo della percentuale di voti ottenuti alle elezioni RSU non valgono tutti i voti dei lavoratori, ma “esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”.
In conclusione, il sistema non soltanto riproduce nel privato l’esclusione de facto dei sindacati conflittuali e di base, che spesso sono molto radicati e rappresentativi in alcuni luoghi ma che difficilmente raggiungono il 5% su scala nazionale, ma è persino peggiorativo. In questo senso, lascia aperto moltissime preoccupazioni per quello che potrà succedere a livello aziendale, in tema di diritti e libertà sindacali, man mano che gli effetti dell’accordo ricadranno sui livelli inferiori.
 
Delegati sotto tutela
Sarebbe tuttavia un grande errore pensare che l’accordo prenda di mira soltanto le organizzazioni sindacali di base, che negli ultimi due decenni hanno dimostrato di poter organizzare o sostenere lotte straordinarie (la vertenza dell’ospedale San Raffaele di Milano è l’ultimo caso in ordine di tempo), ma che complessivamente non sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di fondo, cioè la rottura del monopolio di Cgil-Cisl-Uil e il rinnovamento democratico e conflittuale del movimento sindacale italiano. Insomma, che sono rimasti troppo spesso ostaggio dei propri limiti e delle proprie divisioni.
No, l’accordo del 31 maggio si preoccupa anzitutto e soprattutto di disciplinare e mettere sotto controllo le realtà aziendali e categoriali che eventualmente non dovessero attenersi alle indicazioni del centro. E non importa che siano Cobas, delegati della Cgil o della Cisl, gruppi autorganizzati di lavoratori eccetera, importa evitare che si possano organizzare focolai di resistenza e di conflitto, laddove il centro ha invece deciso che deve regnare la calma.
Lo so, a qualcuno questo giudizio può sembrare eccessivo e a sostegno della sua critica potrebbe citare il fatto che l’accordo del 31 maggio abolisce la vergogna del 33% garantito a Cgil, Cisl e Uil e prevede l’elezione con voto proporzionale dei delegati RSU. Verissimo, l’abolizione del 33% è una cosa buona e, aggiungerei, anche sacrosanta dopo 20 anni (sic), ma in fondo il 33% ha perso anche la sua utilità in presenza di un sistema di per sé escludente.
Che non ci sia, da parte delle segreterie di Cgil, Cisl e Uil, una grande voglia di rendere protagonisti i lavoratori e i delegati è poi dimostrato da altre due clausole contenute nell’accordo. La prima prevede che laddove non siano già costituite delle RSU elette, “il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo”. La seconda, che rappresenta un’autentica new entry, stabilisce una sorta di mandato imperativo per i delegati RSU. Cioè, “il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica”. Certo, si tratta della solita norma anti-Cobas, ma non solo, perché funzionerebbe egregiamente anche per un delegato eventualmente espulso dall’organizzazione, tanto per fare un esempio. In altre parole, una spada di Damocle e un monito perenne, per non dimenticare mai che alla fin della fiera devi rispondere all’organizzazione sindacale e non certo ai lavoratori che ti hanno eletto.
 
Il referendum che non c’è più
Chi decide sui contratti? Una domanda sempre decisiva, come è giusto che sia, poiché i contratti nazionali, una volta firmati, anche se soltanto da una parte minoritaria del sindacato, hanno efficacia erga omnes. Cioè, valgono per tutti i lavoratori e le lavoratrici del comparto contrattuale.
È quindi una questione di democrazia e di autonomia del sindacato dal padrone, perché la logica dei contratti separati consegna alla parte padronale la libertà di scegliersi il sindacato più accomodante e il contratto più corrispondente ai propri interessi o capricci.
Bene dunque che si abbia voluto porre fine alla pratica dei contratti separati, tanto cara al sindacalismo collaborazionista della Cisl di Bonanni. È stato quindi introdotto il principio che i contratti nazionali sono validi soltanto se firmati da organizzazioni sindacali che abbiano nel loro insieme un livello di rappresentatività di almeno il 50%+1 e se validati dai lavoratori. Ma qui iniziano i problemi, perché la parte decisiva (decisiva almeno per chi scrive), cioè la validazione da parte dei lavoratori, è di un’ambiguità disarmante e, soprattutto, è sparito del tutto il referendum.
L’accordo del 31 maggio parla, infatti, di “consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori”, “le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto”. Insomma, un po’ pochino, mi pare. Non solo è sparito il referendum, ma le modalità sono incerte e demandate alle categorie. E alla fine, come dice Alleva, “qualcuno potrebbe essere tentato di mettere su semplici assemblee senza un voto realmente certificato”.
 
Il mantra dell’esigibilità e il conflitto sanzionabile
Una parola sconosciuta ai più, compresi molti attivisti sindacali: esigibilità. Eppure, è una parola che oggi sembra un mantra e che dobbiamo imparare. Vuol dire che i contratti, cioè quanto scritto e previsto dal contratto, debba trovare effettiva applicazione e che le parti che firmano il contratto sono in questo senso vincolati. Ovviamente, perché l’esigibilità possa funzionare, occorre prevedere anche delle sanzioni per chi è inadempiente.
A questo punto tutti quanti avranno capito perché fino a poco tempo fa il tema dell’esigibilità non faceva parte del dibattito pubblico. A dir la verità, qualche sindacalista nel passato ne aveva parlato, ma i padroni non avevano mai accettato un regime sanzionatorio e così, dopo aver conquistato il contratto, dovevi conquistare anche l’applicazione del contratto. Oggi le cose sono cambiate, con i contratti non arriva più maggior salario e maggiori diritti, ma i contratti portano generalmente sacrifici, meno diritti e salario e più orario. E con le cose sono cambiate anche le opinioni dei padroni: ora vogliono l’esigibilità e le sanzioni, da applicarsi a sindacalisti e lavoratori disobbedienti.
Aveva iniziato Marchionne, che anche in questo caso ha fatto da apripista. Il contratto di Pomigliano prevede sanzioni anche contro i lavoratori e non solo contro i delegati e le organizzazioni sindacali. Ovviamente, aggiungerei, perché puoi buttare fuori dalla fabbrica la Fiom e i Cobas, ma non è detto che poi qualche operaio, magari neanche tesserato, non possa disobbedire ai sindacati complici.
Comunque, la storia di sanzionare il lavoratore se sciopera o protesta dev’essere sembrata un po’ eccessiva a tutti nel mondo sindacale e così, l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 28 giugno 2011 aveva accolto il principio dell’esigibilità, ma escluso che le sanzioni potessero essere applicate ai “singoli lavoratori”.
L’accordo del 31 maggio, che si richiama a quello del 28 giugno 2011, ritorna sull’argomento dell’esigibilità e formalizza la sua applicazione, ma curiosamente (o forse no) si dimentica di riaffermare l’esclusione dalle sanzioni dei singoli lavoratori.
D’ora in poi, vi sarà “la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa” e l’impegno “a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi”. Anche in questo caso, la definizione delle “clausole e/o procedure di raffreddamento” , cioè del regime sanzionatorio, è demandata alla contrattazione di categoria, ma sin d’ora si chiarisce che “le parti firmatarie della presente intesa si impegnano … affinché le rispettive strutture ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto concordato”. Insomma, messaggio chiaro e, a questo punto, non poteva essere diversamente.
 
La questione Fiom
Già, la Fiom. Al sindacato metalmeccanico e, in particolare, al suo segretario, Maurizio Landini, è piovuto addosso di tutto in termini di accuse, compresa quella terribile di “tradimento”. Infatti, all’indomani della firma dell’accordo del 31 maggio, Landini aveva espresso un giudizio positivo e questo, inutile e sbagliato negarlo, ha prodotto non poco disorientamento tra quanti e quante in questi anni avevano condiviso battaglie, lotte, difficoltà, gioie e speranze con i metalmeccanici della Fiom.
Capisco l’asprezza dei toni e conosco le leggi della competizione sindacale e politica, ma non condivido per nulla l’introduzione della categoria del tradimento in questo dibattito. E non per una questione di bon ton, ma per il semplice motivo che credo che questa categoria non spieghi assolutamente nulla e non sia utile per guardare avanti. Anzi quella categoria ha qualcosa di troppo rassicurante, permette di individuare facilmente i buoni e i cattivi e, soprattutto, consegna l’illusione che tutto si riduca a una semplice questione di posizionamento nel dibattito. Invece, purtroppo, le cose sono meno semplici.
Non mi sono piaciuti gli applausi acritici della Fiom e penso che il via libera all’accordo, di cui le dichiarazione pubbliche fanno parte, sia il prezzo che i metalmeccanici hanno dovuto pagare alla maggioranza Cgil, per tenersi aperti alcuni spazi nella categoria. Infatti, se leggiamo l’accordo dal punto di vista della Fiom, inteso come sindacato di categoria, anche la serie di rinvii alla contrattazione di categoria assume una valenza diversa, poiché facendo leva sui rapporti di forza tra i metalmeccanici, la Fiom può pensare legittimamente di avere ora qualche carta in più da giocare.
Ma se quanto detto ha un senso, allora dobbiamo aggiungere subito un’altra considerazione. Cioè, la Fiom ha fatto una scelta tattica che è frutto di una debolezza, di una difficoltà, di un arretramento. Beninteso, non sto parlando di arretramenti politico-ideologici-eccetera di qualche dirigente, bensì di rapporti di forza sociali e politici con i quali la Fiom, come tutti noi, si trova a fare i conti.
La Fiom ha combattuto in questi anni una battaglia controcorrente in una situazione sociale difficilissima. Tra gli iscritti dilagava la cassaintegrazione e le fabbriche chiudevano, non doveva sostenere soltanto il conflitto con Federmeccanica e Marchionne, ma anche con Fim e Uilm, mentre la stessa Cgil si è mostrata vieppiù ostile alla linea Fiom. In un certo senso è quasi un miracolo che la Fiom stia ancora in piedi.
C’era un'unica maniera per reggere questa situazione e conquistare una prospettiva: allargare il campo, generalizzare la lotta e il discorso. Penso che sia ciò che la Fiom ha effettivamente tentato di fare in questi anni, conquistandosi un ruolo, un’autorevolezza e un’interlocuzione ben oltre la categoria e il mero terreno sindacale. Ma alla fine non si è determinato un movimento generale in crescita e anche le tante attenzioni ricevute dalla politica non si sono mai tradotte in qualcosa di sostanziale. Forse l’immagine più chiara della situazione l’ha fornita la manifestazione nazionale del 18 maggio scorso: nonostante la difficile situazione, ancora una volta gli operai della Fiom hanno riempito la piazza, ma erano soli, attorno alla Fiom c’era poco o nulla, in termini sindacali e di movimento, e le numerose delegazioni politiche presenti hanno fatto soltanto passerella. Insomma, il 19 maggio era uguale al 17 maggio, cioè non era cambiato nulla da nessuna parte.
Questo credo sia il dato di realtà da cui partire. Certo, forse la Fiom poteva fare meglio in questi anni, forse c’erano alcune scelte da non fare e altre che invece andavano fatte. Forse anche altri avrebbero potuto fare meglio, di più o diversamente, invece di chiedere alla Fiom di fare, magari anche al posto loro. Tutto questo è importante, ma forse non decisivo, perché c’è una situazione più generale e alla lunga nessuno può reggere in solitudine lo scontro. Questo è l’insegnamento di fondo e su questo, forse, dovremmo ragionare.
 
Ebbene, se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui, allora avrete capito che penso che questo accordo sia altamente negativo e che renderà più difficile la vita dei lavoratori e degli attivisti sindacali che vogliono continuare a battersi per un salario dignitoso, i diritti e per una fuoriuscita dall’austerità. E ancora più difficile sarà la lotta per quei lavoratori, sempre di più, che sono esclusi strutturalmente da accordi del genere, perché precari, perché impiegati da cooperative che lavorano in appalto eccetera e pertanto privi dei più elementari diritti sindacali, come accade per esempio ai lavoratori della logistica. Tuttavia, il fatto che dall’alto continuino a piovere restringimenti di diritti e libertà, sui luoghi di lavoro e nella società, significa anche che non sono poi così tranquilli e sereni, che anzi sono inquieti al solo pensiero che ci possa essere una lotta, un’insubordinazione, un conflitto. Ricordiamocelo.
 
Luciano Muhlbauer
 
aggiornamento: il 6 giugno l’accordo è stato sottoscritto anche dalla confederazione sindacale di destra UGL
 
in allegato il testo dell’accordo del 31 maggio 2013
 

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La lotta paga! Un tempo queste parole si sentivano spesso, non per una questione ideologica, ma perché l’esperienza concreta e la vita insegnavano che era così. Poi arrivarono le sconfitte, gli arretramenti e anche le rese. I tempi stavano cambiando. Oggi moltissimi lavoratori, precari, studenti e disoccupati non ci credono più a quelle parole, perché non le hanno vissute. Anzi, in molti luoghi è andata persino persa la memoria del fatto che i diritti non sono delle gentili concessioni, ma il frutto di dure lotte.
Anche per questo è importante far conoscere le esperienze concrete che invece ci ricordano che la lotta paga, anzi, che in ultima analisi la lotta, cioè il mettersi in gioco in prima persona, collettivamente, è l’unica maniera possibile per ottenere un risultato, per sé stessi e per gli altri.
Vi ricordate degli otto operai di un appalto Inps che circa un mese fa occuparono per due giorni gli uffici della Direzione regionale dell’Inps a Milano? Ebbene sì, hanno vinto la loro battaglia e hanno conquistato il loro reintegro nel posto del lavoro. Sono stati bravissimi, gli faccio i miei complimenti.
Eppure, un mese fa non era facile immaginarsi una vittoria. Il mondo degli appalti, delle cooperative che vanno e vengono, è un mondo bastardo, dove le leggi sul lavoro, come lo Statuto dei Lavoratori, sono sistematicamente e istituzionalmente eluse, cioè non valgono. E la cosa peggiore è che quel mondo è ormai dappertutto, è entrato persino in enti pubblici come l’Inps, che sarebbe poi l’ente che deve controllare la regolarità contributiva delle aziende…
Un mese fa, durante l’occupazione degli uffici, ero rimasto molto colpito dalla reazione del direttore regionale dell’Inps. Mi aspettavo altro da un dirigente pubblico, visto che aveva di fronte otto lavoratori che da tempo lavoravano nelle sedi Inps, facendo i facchini. Cioè, non contestava le loro ragioni, quando gli raccontavano che erano stati licenziati perché avevano denunciato delle irregolarità e perché si erano iscritti a un sindacato. No, semplicemente aveva risposto come avrebbe potuto rispondere un direttore qualsiasi di un centro commerciale qualsiasi: “va bene, ma io cosa c’entro?”, “non siete dipendenti dell’Inps, ma di un’altra azienda”. Già, è questa la “meraviglia” del sistema degli appalti e succede persino all’Inps (sic).
Ma gli otto lavoratori non avevano ceduto, avevano insistito. L’Inps ha dovuto fare qualcosa e anche Questura, Prefettura e Direzione territoriale del lavoro sono rimasti coinvolti. E alla fine, hanno vinto la battaglia.
Fa bene leggere le loro parole di gioia (vedi i comunicati riprodotti in calce), ma soprattutto è bene far conoscere questa storia. È una storia piccola, di otto lavoratori di un appalto di facchinaggio, ma è una storia estremamente preziosa, perché in realtà, parla di tutti noi.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Il comunicato dei lavoratori e quello del sindacato ADL:
 
Noi 8 lavoratori del facchinaggio in appalto INPS REGIONE LOMBARDIA eravamo stati esclusi nel cambio appalto del 14 maggio 2013 dal nostro legittimo posto di lavoro, perché sindacalizzati e perciò scomodi in appalti gestiti senza nessuna correttezza, giustizia e criterio.
Oggi 18 giugno 2013, dopo una lotta molto dura, ABBIAMO RICONQUISTATO CON LA LOTTA IL NOSTRO LAVORO. E tutti e 8 siamo stati riassunti a tempo indeterminato e full time.
Ringraziamo i compagni e le compagne che ci sono state vicino in questa lotta e ci fa molto piacere citarli: Rosa Piro, Luciano Muhlbauer, Massimo Gatti, Angelo Pedrini, Luigia Pasi, Stella, il Ganazzoli, Vittorio, Nati, più altri devoti a San Precario, Matteo ed altri della F.A.I., Beppe, Cuz ed altri SoS Fornace, Matteo ed altri del Boccaccio ed il nostro funzionario sindacale Giuseppe Tampanella.
La nostra LOTTA è una lotta di tutti e tutte e ci auguriamo che la vittoria sia di stimolo per chi tentenna e subisce e per chi combatte a testa alta per i propri diritti e dignità.
Questa lotta a noi lavoratori ci ha insegnato che bisogna costruire un tavolo permanete di sostegno a tutti coloro che rivendicano i loro diritti, senza bisogno di bandiere ma con la consapevolezza che la forza è data dal metodo e dalla solidarietà.
Oggi festeggiamo ma da domani saremo a sostenere i compagni e le compagne della CRESPI per cui la ditta ha aperto le procedure di mobilità dopo anni di sperperi e cattiva gestione.
 
Paolo Denini, delegato sindacale ADL Milano e Provincia, e tutti i lavoratori
 
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Ieri 18.06.2013 presso la DTL (Direzione territoriale del lavoro) di Milano sono state firmate le conciliazioni per i facchini dell'appalto INPS Regione Lombardia: tutti reintegrati sul proprio posto di lavoro a tempo indeterminato. La lunga lotta portata avanti dai lavoratori organizzati con il sindacato ha pagato!
Iniziata a ottobre 2012 con la denuncia di illeciti retributivi e contributivi, oltre che la mancanza di genuinità e correttezza nella gestione dell'appalto facchinaggio interno all'INPS Lombardia, è stata portata avanti con determinazione anche quando con la scusa del cambio appalto gli stessi lavoratori si sono ritrovati licenziati e costretti ad occupare gli uffici del direttore generale INPS Giuliano Quattrone.
L'azione del 23/24 maggio #OccupyINPS che ha visto gli 8 lavoratori licenziati ingiustamente restare per due giorni negli uffici della direzione regionale Inps ed uscire solo dopo aver avuto certezza di una conclusione positiva della loro situazione, è stata la più importante. Non solo per la radicalità espressa dai facchini, ma in assoluto per la
rete dinamica di realtà sindacali, collettive e (non ultime) singole persone che hanno dato la propria solidarietà attiva alla lotta.
I lavoratori e il proprio sindacato ADL ringraziano tutti coloro che mettendosi a disposizione con le proprie forze, specificità, sincero spirito unitario, hanno dimostrato quali potenzialità ci sia in chi lotta al di fuori delle dinamiche di mera propaganda e dalle logiche di sterili comunicati di sostegno virtuale, contribuendo in modo decisivo all'esito della vertenza.
Grazie Compagn* uniti si vince! non perdiamoci di vista ;)
 
Beppe Tampanella ADL Milano e Provincia
 
 
In Italia c’è un numero crescente e sempre più significativo di lavoratori e lavoratrici che sono de facto esclusi dal sistema di diritti, regole e tutele previsto dalla legislazione sul lavoro. Per loro l’italianissimo Statuto dei Lavoratori ha la stessa valenza del codice della strada della Nuova Zelanda. Sulla carta vale anche per loro il diritto costituzionale di sciopero e di libera associazione sindacale, ma guai a esercitarlo, perché poi arriva il licenziamento e, se va male, pure le botte della polizia. Ed è tutto in regola, tutto legale.
Si tratta di lavoratori in nero o precari o, in misura crescente, dipendenti da imprese e cooperative che lavorano in regime di appalto, subappalto e subsubappalto. È una parte del mondo del lavoro in continua espansione, dove decenni di conquiste sociali sono state spazzate via e dove vigono livelli salariali inferiori e spesso infami (ovvio, perché in ultima analisi il senso del tutto è proprio questo). Si tratta di una piaga che invade e pervade ormai tutta l’economia, dal privato al pubblico, e tende ad essere persino dominante in alcuni settori strategici, come nella logistica e nella movimentazione merci.
Non è un caso che in questi anni alcune delle lotte più dure si stiano dando nella logistica. Lì, come ti muovi, scatta immediatamente e pesantemente la repressione. Infatti, il settore è troppo importante e le aziende coinvolte troppo potenti. Già, perché quei lavoratori, privi dei diritti più elementari, pur dipendendo contrattualmente da imprese e cooperative sconosciute, di fatto lavorano nella movimentazione merci di autentici giganti, come l’Ikea, LegaCoop, il Gigante, la Granarolo eccetera.
Vi ricordate, per esempio, del brutale intervento di polizia di un anno fa contro i facchini in sciopero a Basiano, nel milanese? Comunque, i fatti sono molti e testimoniano di un nascente movimento di lotta nel settore, che nel frattempo ha realizzato anche due scioperi nazionali, grazie al sostegno di alcuni sindacati di base (SiCobas, Adl Cobas, Conf. Cobas Lav. Privato).
La tensione più alta è stata raggiunta finora in Emilia-Romagna, regione che ospita molti snodi logistici, con la lotta ai magazzini dell’Ikea di Piacenza e gli scioperi e i blocchi a Bologna. In quelle occasioni, oltre gli ormai consueti interventi delle forze dell’ordine, c’è stato anche un salto di qualità nel tentativo di limitare l’esercizio dei diritti sindacali: a marzo il Questore di Piacenza ha dato un foglio di via a un dirigente sindacale del SiCobas, Aldo Milani, e poco tempo dopo, in seguito agli scioperi alla Granarolo e alla LegaCoop di Bologna, è intervenuta persino la Commissione di Garanzia Sciopero, decretando che le norme restrittive della legge 146/90 vanno d’ora in avanti applicate anche nella logistica.
Ma poi, appunto, lo strumento principale di repressione dei lavoratori rimane sempre il licenziamento. E così, per far capire a tutti che bisogna stare zitti e buoni e che è vietato scioperare, sono stati licenziati 51 operai che lavoravano per la movimentazione merci della Granarolo di Bologna. Su questa vicenda si e sviluppata una battaglia generale e il 29 giugno scorso c’è stata anche una giornata di mobilitazione davanti alla Granarolo, dove sono state decise nuove mobilitazioni e scioperi ed è stato lanciato un appello sul piano nazionale per una campagna di boicottaggio dei prodotti Granarolo (qui il resoconto dell’assemblea del 29).
 
Ebbene, io penso che quei lavoratori non vadano lasciati da soli, che vada sostenuta la loro mobilitazione, che peraltro non è per la luna, ma molto più banalmente per il rispetto dei diritti più elementari, come un salario decente, il rispetto dei contratti (a proposito di “esigibilità”…), il posto di lavoro. Questo significa concretamente sostenere la campagna per la riassunzione dei 41 licenziati a Bologna. E uno strumento immediato c’è: sospendiamo fino al reintegro dei 51 l’acquisto dei prodotti Granarolo (i prodotti sono tanti e per sapere quali sono basta consultare la lista).
Per chi sta a Milano, segnalo inoltre un presidio a sostegno della campagna di boicottaggio, organizzato dal Csa Vittoria e dal SiCobas, per sabato 6 luglio, alle ore 16.00, all’Ipercoop di viale Umbria.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Mentre l’attenzione generale è rivolta a congressi di partito e processi eccellenti, a scandali kazaki e padani (dove il vero scandalo sta nel fatto che Alfano e Calderoli stiano tuttora al loro posto), ci sono alcuni dirompenti provvedimenti che avanzano silenziosi e imperterriti, incuranti del pantano politico. Di cosa stiamo parlando? Semplice, dell’unica ricetta, a parte l’austerità, di cui le classi dirigenti lombarda, italiana ed europea sembrano disporre in questi tempi di crisi, cioè precarietà, precarietà e ancora precarietà.
E nulla sembra poter fermare questo mantra bipartisan, né il fatto che i lunghi anni di applicazione di questa ricetta, in Italia e in Europa, abbiano dimostrato la sua totale inefficacia rispetto agli obiettivi dichiarati (occupazione, competitività, ripresa), né le periodiche grida di allarme, ipocritamente altrettanto bipartisan, di fronte alla pubblicazione di dati sempre più allarmanti, come quelli recentissimi dell’Ocse, che ci dicono che il 53% dei giovani sotto i 25 anni che lavorano, lo fanno ormai con un contratto precario. No, tutto ciò non ha alcuna importanza e il coro continua a ripetere: più flessibilità (del lavoratore, si intende), meno diritti, meno salario.
Ma, a questo punto, vediamo cosa succede concretamente in questa estate. In realtà, stiamo parlando di due discussioni e due percorsi diversi, ma talmente intrecciati tra di loro che finiscono per alimentarsi a vicenda: il cosiddetto decreto lavoro del Governo Letta-Alfano (Decreto Legge n. 76 del 28 giugno 2013) e la discussione sui contratti flessibili in vista di Expo 2015. Ambedue, a un solo anno di distanza dalla riforma Fornero, ri-affrontano il tema dei contratti di lavoro a termine e ambedue spingono nella medesima direzione, cioè verso l’allargamento della sfera dei contratti precari, a discapito di quella del contratto a tempo indeterminato.
Insomma, non stiamo parlando di un tema qualsiasi, ma del tema centrale e strategico in materia di mercato del lavoro, di diritti del e nel lavoro e di livelli e sicurezza della retribuzione. Inoltre, va sempre ricordato che il nostro ordinamento continua a definire il “contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato” come forma tipica, considerando dunque quella a tempo determinato come atipica. Ecco perché, dal pacchetto Treu in poi, cioè dal lontano 1997, tutta la partita si è sempre giocata sul questo terreno.
Ma andiamo con ordine.
 
Il Decreto Legge n. 76/2013
Come ogni decreto legge, anche il n. 76 necessita di essere convertito in legge. E ciò deve avvenire entro il 27 agosto, con l’approvazione da parte di ambedue i rami del Parlamento. Vale a dire, tutta la discussione avverrà tra fine luglio e fine agosto, come in tutti i cult della serie “come smantellare i diritti dei lavoratori”…
A proposito di questo decreto si era parlato sui media anzitutto per l’aspetto degli incentivi, ma molto poco per quello dei contratti a tempo determinato. Anche la lettera aperta al Segretario Pd Epifani da parte del Prof. Piergiovanni Alleva era stata sostanzialmente ignorata dai media, sebbene il giuslavorista usasse toni particolarmente forti e allarmanti, definendo il decreto lavoro il “più micidiale attacco mai portato ai diritti dei lavoratori” e accusando il Governo Letta di “ipocrisia”.
In estrema sintesi e senza perderci in troppi tecnicismi, il nodo della questione consiste nella questione della “acausalità”, della durata dei contratti e degli intervalli tra un contratto e l’altro. Cioè, siccome per il nostro ordinamento il contratto a tempo determinato è appunto atipico, la legge (Dlgs n. 368 del 6 settembre 2001 e successive modificazioni) prevede che il ricorso a questo debba essere motivato da cause “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”. Ovviamente, nella realtà di tutti i giorni queste cause vengono spesso aggirate e negli anni si sono stratificate delle eccezioni normative a queste cause. Per esempio, l’attuale regime (così come modificato dalla Riforma Fornero del 2012) prevede che in caso di “primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi” possa essere derogato al principio della causalità. Inoltre, la norma attuale prevede che ci debba essere un intervallo, una pausa, tra la fine di un contratto a termine e la riassunzione dello stesso lavoratore con contratto a termine da parte dello stesso datore di lavoro: 60 giorni in caso di contratti da 6 mesi e 90 in caso di contratti di durato superiore (termini però derogabili in alcune situazioni specifiche).
Ebbene, il DL n. 76/2013 interviene anzitutto sulla durata dei contratti “acausali”, mantenendo ferma in linea di principio la durata dei 12 mesi, ma prevedendo poi un micidiale meccanismo di deroga, praticamente senza confini e affidato alla contrattazione tra le parti sociali, persino a livello aziendale! Per capirci, di fatto viene esteso anche a questo campo la “contrattazione di prossimità”, cioè quel famigerato meccanismo previsto dall’art. 8 del DL 138/2011, voluto e imposto a suo tempo dall’allora Ministro Sacconi, d’accordo con la Cisl di Bonanni. E immaginatevi che cosa potrà succedere nella realtà reale, in un confronto a livello aziendale tra Rsu (o Rsa) e padrone, in piena crisi…. Provate a indovinare chi avrà la meglio nel 90% dei casi…
Il DL 76 interviene poi sugli intervalli tra un contratto e l’altro, riducendoli a 10 giorni nel caso di contratto da 6 mesi e a 20 giorni negli altri casi. Tuttavia, anche questi limiti sono liberamente derogabili da accordi tra le parti, compresi quelli aziendali. Cioè, la pause potrebbero anche essere azzerate.
 
Expo 2015
A guardare bene, in questo caso siamo di fronte a un vero e proprio paradosso. La richiesta di avere deroghe e “più flessibilità” in materia di contratti di lavoro era partita da Milano, dov’è localizzato l’evento, ed era stata motivata con la temporaneità della nuova occupazione generata dall’evento. Tuttavia, la discussione al riguarda si è svolta e si svolgerà a Roma…  
Inizialmente il Presidente di Confindustria e il Pdl, attraverso il solito Sacconi, ora Presidente della Commissione Lavoro del Senato, volevano addirittura inserire tali richieste nel DL 76, mediante alcuni emendamenti che avrebbero accentuato ulteriormente gli aspetti che abbiamo sopra esposto (reiterazione di contratti “acausali” per 36 mesi, apprendistato corto ecc.), rendendo così le “eccezioni” milanesi immediatamente generali.
Questo era però un po’ troppo anche per il Pd delle larghe intese e per una Cgil che a suo tempo aveva ufficialmente osteggiato la logica dell’articolo 8 di Sacconi, mentre ora di fatto l’ha accettata nelle ipotesi contenute nel DL 76. E poi, anche la Cisl aveva brontolato.
Insomma, alla fine non ci saranno emendamenti targati Expo al DL 76, ma in cambio è stato avviato un tavolo nazionale specifico tra le parti. La road map è questa: appuntamenti intermedi con il Ministro il 30 luglio e il 29 agosto, chiusura del tavolo entro il 15 settembre. Se ci sarà un accordo tra le parti bene, altrimenti interverrà il Governo.
Nessuno ha la sfera di cristallo e non sappiamo ovviamente come vada finire questo tavolo, ma è evidente che la conclusione non potrà essere migliorativa rispetto al DL 76 e che si tratterà soltanto di capire di quanto sarà peggiorativa e, soprattutto, quale sarà l’estensione geografica e temporale delle ulteriori “deroghe”.
 
In conclusione, in armonia con le indicazioni della Bce e con gli interessi del padronato nostrano, si sta realizzando un ulteriore e pesantissimo assalto al contratto a tempo indeterminato. E la questione non è astratta o ideologica, ma estremamente concreta e pratica. Infatti, non si capisce proprio che beneficio possa esserci per l’occupazione, quando si allargano talmente tanto i confini del contratto a tempo determinato, da renderlo utilizzabile liberamente anche in casi di esigenze produttive continuative. In altre parole, l’impresa assumerà sempre il medesimo numero di lavoratori (nella misura in cui assume, ovviamente), ma lo farà sempre di più con contratti a termine, invece che con contratti a tempo indeterminato.
Insomma, rendendo normale e tipico il contratto precario, non si incide sui livelli occupazionali, ma si danneggia il lavoratore e la lavoratrice, favorendo esclusivamente la parte padronale. Infatti, quando vieni strutturalmente licenziato/riassunto ogni X mesi, tutti i tuoi diritti e tutele previsti dalla normativa vigente (Statuto Lavoratori, art. 18, sicurezza sul lavoro, diritto di sciopero o, più banalmente, la possibilità di protestare quando non ti pagano tutte le ore lavorate…) non sono più esigibili. Cioè, tu puoi ovviamente esigerli, ma lui può non riassumerti….
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Appello pubblicato su il Manifesto il 3 agosto 2013
 
L’accordo firmato il 23 luglio 2013 tra Expo 2015 Spa e i sindacati confederali e di categoria è stato salutato dalla voce dei firmatari e dalla stampa come esperimento pilota a promozione del lavoro giovanile, un prototipo garante dei diritti dei neoassunti. Tolte le paillettes e i lustrini, questa lettura cade e si svela l’anima profonda dell’accordo: violazioni delle norme vigenti, arretramento dei diritti e svuotamento di tipologie contrattuali sono la componente principale dell’accordo, mosso dalla convinzione che la deregolamentazione del lavoro sia la strada maestra per favorire la ripresa economica e la formazione di nuovi posti di lavoro.
Prendiamo il ricorso massiccio all’apprendistato: questa tipologia contrattuale viene scelta non tanto per favorire la formazione e la creazione di nuove professionalità, ma per regolarizzare chi lavora con un inquadramento inferiore, quindi con una retribuzione minore e con uno sgravio contributivo pressoché totale per l’azienda. Di solito l’apprendistato avviene in luoghi di lavoro stabili, per cui è probabile la trasformazione a tempo indeterminato. I profili professionali qui previsti per questa tipologia contrattuale (Operatore Grande Evento, Specialista Grande Evento, Tecnico Sistemi di gestione Grande Evento) sono legati alla realizzazione di ulteriori grandi eventi per cui le possibilità di un’assunzione stabile sono altamente improbabili. In sostanza siamo di fronte ad uno svilimento dell’istituto dell’apprendistato stesso, malgrado l’elogio di quest’ultimo che in tempi recenti si è ripetuto nel dibattito politico.
Un altro punto enfatizzato nei giorni scorsi riguarda la novità della casuale che giustificherebbe il ricorso al contratto di lavoro e tempo determinato e alla somministrazione del lavoro a termine, che dovrebbe riguardare l’80% dell’organico complessivo. Si tratta di una operazione strumentale, fatta per promuovere questa modifica in chiave generale e in altri contesti, priva di utilità concreta visto che il D.P.R. 7 ottobre 1963, n.1525, attuativo della legge 230/62 sui contratti a termine, già prevedeva al punto 45 la possibilità di ricorrere a contratti a termine per Fiere ed Esposizioni, categoria nella quale Expo 2015 ricade.
Anche lo stage, che prevalentemente viene dedicato all’apprendimento, appare qui come una delle tante forme di lavoro mascherato, con un profilo formativo del tutto imprecisato, di fatto retribuito con 516 euro mensili, naturalmente presentati come rimborso spese, più un buono pasto giornaliero di 5,29 euro.
Infine è previsto un utilizzo massiccio del volontariato (18.500 unità) del tutto gratuito (salvo eventuali rimborsi spese) quale «espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo». Il compito dei volontari, però, non è quello di assistere persone in difficoltà, ma di fornire un normale servizio di accoglienza per i visitatori della mostra. Il nome esatto in questo caso è lavoro gratuito: esempio plateale di un «agire comunicativo-relazionale» indispensabile al funzionamento dei grandi eventi ma del tutto svalutato. Riteniamo che un simile accordo rappresenti un pericoloso precedente che contrappone il lavoro ai diritti. Come le grandi opere depauperano il territorio, così il lavoro gratuito e l’iper precarizzazione dei contratti frantumano il futuro delle nuove generazioni e demoliscono conquiste ottenute con anni di lotta.
Non a caso, il ministro del Lavoro ha sfruttato l’occasione per auspicare l’abolizione della causalità dei contratti a termine, per chiedere la rapida conversione del decreto Letta-Giovannini e per premere verso un secondo decreto nel mese di settembre. Chiediamo che venga respinta l’idea – già avanzata da governo e parti sociali – di una generalizzazione, tramite contrattazione o addirittura per via legislativa, del modello Expo ad altri contesti che sarebbe un ulteriore colpo al diritto del lavoro nel nostro Paese. La moltiplicazione di nuovi plotoni di precari specializzati e di vittime del lavoro gratuito è esattamente ciò di cui il nostro Paese non ha bisogno.
 
Piergiovanni Alleva, Giuliana Beltrame, Roberto Ciccarelli, Giuseppe De Marzo, Andrea Fumagalli, Alfonso Gianni, Giovanni Giovannelli, Marcello Guerra, Roberto Maggioni, Enzo Martino, Sandro Medici, Luciano Muhlbauer, Roberto Musacchio, Monica Pasquino, Emanuele Patti, Livio Pepino, Marco Revelli, Umberto Romagnoli, Luca Trada, Guido Viale
 
 
di lucmu (del 09/09/2013, in Lavoro, linkato 1150 volte)
Gli operai del presidio della Jabil di Cassina de’ Pecchi hanno rioccupato la fabbrica. Lo hanno annunciato stamattina con uno stringatissimo comunicato, in cui denunciano l’incredibile atteggiamento della Nokia Siemens Networks (NSN) che di fatto impedisce che alla ex Jabil si ricominci a lavorare.
I lavoratori e le lavoratrici stanno presidiando lo stabilimento da ormai due anni, non hanno mai smesso di lottare per il lavoro, hanno difeso con i loro corpi i macchinari (vedi tentato blitz del 27 luglio dell’anno scorso) e si sono attivati in mille modi per contribuire alla costruzione di soluzioni concrete. E prima dell’estate una soluzione sembrava effettivamente vicina, visto che si era fatto avanti un imprenditore intenzionato a far rivivere quello stabilimento. Anche il Comune di Cassina e quelli limitrofi sostenevano la soluzione e, appunto, c’erano pure i macchinari, difesi e ri-conquistati dagli operai e dalle operaie.
Ma le cose andavano per le lunghe, un po’ perché le istituzioni, cioè Ministero e Regione Lombardia, brillavano per pochezza di impegno e, soprattutto, perché la NSN trascinava i tempi. E senza la Nokia Siemens non si può chiudere, essendo lei la proprietaria dell’area e dei capannoni (Jabil era un’esternalizzazione della NSN). E così, approfittando della crisi politica esplosa al Comune di Cassina in seguito alla recente bocciatura del Pgt, ha di fatto esplicitato il suo boicottaggio di una soluzione.
Tutto ciò è incredibile e offensivo, visto che la transnazionale non solo sta di fatto chiudendo i suoi stabilimenti italiani, a partire da quello sempre di Cassina, ma impedisce persino che possa riprendere il lavoro laddove aveva già fatto terra bruciata.
 
Esprimo la mia completa solidarietà agli operai e alle operaie che oggi hanno ripreso il controllo dello stabilimento, al fine di salvaguardare l’integrità dei macchinari e lanciare un chiaro segnale a tutti quanti, compresi Ministero e Regione, affinché si chiuda in tempi brevi un accordo che possa far riprendere il lavoro alla ex-Jabil.
 
Oggi lo stabilimento è occupato e i lavoratori sono in assemblea. Quindi sapremo nel corso della giornata o al massimo domani come andrà avanti la mobilitazione. Comunque, una cosa è certissima: la mobilitazione va avanti finché non si trova una soluzione positiva.
Pertanto, l’invito a tutti e tutte è quello di seguire le notizie che vengono dalla ex Jabil, al fine di poter dare il nostro contributo solidale alla mobilitazione quando ci sarà bisogno.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Il comunicato degli operai:
 
Oggi 8 Settembre 2013 gli operai Jabil di Cassina de Pecchi hanno rioccupato la fabbrica.
Nokia aveva venduto gli operai di Cassina de Pecchi alla Jabil per poterli licenziare facilmente.
Nokia aveva fatto i conti senza gli operai.
Nokia ha alzato il tiro sulle condizioni per riportare gli operai in fabbrica.
BASTA
Gli operai hanno occupato la fabbrica e sono riuniti in assemblea permanente dentro i reparti che avevano lasciato quando la trattativa con Nokia sembrava a buon punto.
Nokia ora ha cambiato idea o ha sempre bluffato.
Gli operai della Jabil in presidio permanente fanno sul serio.
 
Gli operai Jabil in presidio permanente
 
 
La vicenda della Hydronic Lift di Pero (MI) ha conquistato le prime pagine di giornali e tv nell’ultima settimana di agosto, perché si trattava di uno di quegli ignobili casi estivi, dove l’imprenditore aveva deciso di chiudere l’azienda e licenziare il personale, senza preavviso e mentre i lavoratori erano in ferie.
Infatti, i 19 operai della Hydronic Lift di Pero, che produce componenti idraulici per ascensori, si erano salutati il 2 agosto, dandosi appuntamento al rientro al lavoro. D’altronde, non vi erano particolari motivi per preoccuparsi, visto che la Hydronic il suo prodotto lo vendeva e aveva mercato. E poi, l’azienda non aveva mai parlato di chiusure ed esuberi. Eppure, mentre i lavoratori erano in ferie, proprio nella settimana di ferragosto, sono arrivate a destinazione le lettere, con le quali l’azienda li informava di aver avviato la procedura di cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività. Quindi, quando i lavoratori si sono presentati per la ripresa del lavoro, cioè lunedì 26 agosto, hanno trovato il cancello dell’azienda chiuso con catene e lucchetti. Da allora i lavoratori stanno presidiando lo stabilimento giorno e notte.
Poi è arrivato il 10 settembre quando, dopo un incontro con l’azienda all’Associazione industriali di Saronno, dove semplicemente è stata ribadita la chiusura senza fornire motivazioni degne di questo nome, gli operai hanno rimosso catene e lucchetti e sono entrati nello stabilimento per verificare la situazione. Ed è stato così che hanno scoperto che non solo erano stati licenziati mentre erano in ferie, ma anche che la proprietà aveva svuotato la fabbrica! Via tutto, sia i pezzi finiti, che i macchinari.
Tuttavia, al di là del metodo meschino, che la dice lunga sulla statura morale di una certa imprenditoria nostrana, rimane la domanda del perché di questa chiusura e del licenziamento dei 19 operai. Già, perché la Hydronic Lift non è sparita e continua a vendere il suo prodotto. Infatti, il personale amministrativo di Pero è stato trasferito alla sede di Gallarate, mentre la produzione tolta a Pero è stata girata ad altre aziende, alcune di fatto controllate dalla Hydronic, altre terziste. 
Insomma, per farla breve, visto che la chiusura e i licenziamenti non sono motivati dalla crisi o dal mercato che non tira più ecc., la vera ragione sembra essere piuttosto la circostanza che gli operai dello stabilimento di Pero sono tutti sindacalizzati e per giunta con la Fiom. Cioè, qualcuno avrà pensato bene di approfittare della generale crisi occupazionale –nonché delle ferie estive- per liberarsi del fastidio di avere in azienda operai troppo sindacalizzati.
E tutto questo, come è evidente, rende non solo ancora più inaccettabile i licenziamenti, ma dimostra soprattutto che una soluzione lavorativa per i 19 ci può essere.
L’azienda non vuole sentire ragioni e le istituzioni che contano, dal Ministero e alla Regione, per ora fanno finta di non vedere la realtà che si cela dietro la vicenda di Pero. Ma gli operai continuano il presidio, non accettano giustamente questo incredibile e indecente stato delle cose.
Ecco perché c’è bisogno di solidarietà, di non lasciarli da soli e di non lasciare che cali il silenzio su questa porcata. E per questo è stata organizzata una serata di solidarietà ai cancelli della Hydronic Lift di Pero per questo sabato. Eccovi le coordinate:
 
Sabato 14 Settembre – ore 20.00
davanti ai cancelli della Hydronic Lift
Via Vespucci n.10 – Pero (MI)
 
Concerto a sostegno dei lavoratori in lotta dei Ciapa No + Special Guest
Birra e Salamelle per contribuire alla cassa di resistenza
 
 
Fate girare per favore e, se potete, fateci un salto!
 
Luciano Muhlbauer
 
in allegato la locandina dell’iniziativa
 

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di lucmu (del 22/11/2013, in Lavoro, linkato 1702 volte)
C’è una costante nelle manovre finanziarie di questi anni di crisi e austerity: il tiro al bersaglio contro i dipendenti pubblici. E, ovviamente, non fa eccezione neanche questo 2013, anzi. E così, il blocco della contrattazione e degli stipendi viene prorogato fino alla fine del 2014, quello dell’indennità di vacanza contrattuale addirittura fino al 2017 (a buon intenditor poche parole…) e arriva pure un taglio secco e lineare delle ore di lavoro straordinario.
Inoltre, nuove nubi si stanno addensando sulle teste dei lavoratori pubblici in vista della prossima e pesante puntata della spending review, come conferma lo stesso Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, l’ex dirigente del Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. Nel suo programma di lavoro del 12 novembre scorso rilancia, infatti, il tema della mobilità nel pubblico impiego “compresa l’esplorazione di canali di uscita” e nell’intervista pubblicata il 21 ottobre dal Corriere della Sera ribadisce il concetto, affermando “che certe misure strutturali che potrebbero essere raccomandate potrebbero portare all’emersione di esuberi”. Insomma, a parte il linguaggio contorto e i condizionali, il messaggio suona abbastanza chiaro.
Certo, quello dello sparare sul dipendente pubblico è un “gioco” abbastanza facile e comodo. Anzitutto, considerati i grandi numeri sui cui si interviene, è garantito un risultato immediato in termini di voci di bilancio. In altre parole, è un po’ come andare a fare il bancomat.
In secondo luogo, le reazioni sindacali sono sempre assai timide e condizionate dal tradizionale collateralismo che caratterizza importanti settori sindacali.
Infine, difficilmente si rischiano delle rivolte da parte dell’opinione pubblica, considerato che l’immagine vetusta dello statale imboscato-improduttivo-e-magari-pure-assenteista è ahinoi ancora molto diffusa, sebbene la realtà del pubblico impiego racconti nella stragrande maggioranza dei casi una storia ben diversa. Ma a troppi fa comodo continuare ad alimentare questa mito negativo, magari nella più moderna versione della contrapposizione tra garantiti e non-garantiti. E da questo punto di vista si salvano davvero in pochi, perché il fronte dei fustigatori dei garantiti è ampio e trasversale, da Brunetta a Monti e Fornero, da Renzi a Grillo.
Comunque, torniamo alla cruda realtà dei fatti, cioè agli effetti provocati dai continui e reiterati tagli nel pubblico impiego (personale amministrativo e tecnico dello Stato centrale, delle Regioni e degli Enti locali, personale Sanità, Scuola, Università, Vigili del Fuoco, Forze dell’Ordine ecc.), in termini di salario, posti di lavoro e funzionamento dei servizi.
 
Prima di tutto, c’è la questione salariale, che sta ormai mettendo in difficoltà non pochi lavoratori e lavoratrici, specie in caso di nuclei familiari monoreddito. Il blocco della contrattazione e dello stipendio (inteso complessivamente: stipendio base + integrativo) è ormai in vigore per legge sin dal 2010. Cioè, considerata l’ultima proroga in ordine di tempo, sono 5 anni senza aumenti monetari. Tradotto in numeri, in base ai calcoli della Corte dei Conti, pubblicati da il Sole 24 Ore, questo significa una perdita del potere d’acquisto nella misura del 10,5% a testa. Per fare un esempio concreto, un lavoratore con uno stipendio annuo lordo di 27.870 euro, perde 4.069 euro nel periodo 2010-2016! E tutto questo, peraltro, in un periodo in cui tariffe, tributi e imposte sono aumentati in misura considerevole per i redditi medio-bassi.
Ma non è tutto, perché in una serie di casi il dipendente pubblico ha perso anche più del 10,5%. Anzitutto, a causa dei possibili effetti delle ristrettezze di bilancio sulla contrattazione decentrata integrativa nei singoli enti e nelle varie aziende, poiché la legge dice che lo stipendio non può essere superiore a quello del 2010, ma non dice che non possa essere inferiore. E così, può succedere che il fondo destinato alla contrattazione decentrata diminuisca e che quindi si riduca anche il salario accessorio erogato.
Inoltre, la spending review del governo Monti di un anno fa aveva stabilito che in un tutte le pubbliche amministrazioni il valore massimo dei buoni pasto (ticket) non potesse superare 7 euro. Ebbene, in diverse realtà lavorative si faticava ad arrivare a 7, ma in altre si andava oltre. Così era successo, per esempio, nell’amministrazione regionale lombarda, dove alcuni aumenti salariali venivano riversati sul valore dei buoni pasto, che quindi erano arrivati all’equivalente di 12 euro al giorno. Tanto, visti i tempi che correvano, ormai il ticket veniva usato sempre di meno per la pausa pranzo e sempre di più per fare la spesa nel super. Ed ecco perché il taglio secco di 5 euro netti al giorno si è fatto sentire piuttosto brutalmente per chi ha una busta paga che viaggia tra 1.150 e 1.400 euro, a seconda dell’inquadramento.
 
In secondo luogo, c’è la questione occupazionale e quella della qualità dei posti di lavoro e, dunque, anche dei servizi erogati. E cominciamo subito a sfatare quel mito che vorrebbe che in Italia, rispetto al resto dell’Europa, ci fosse un numero abnorme di dipendenti pubblici e che questi costassero al fisco un’enormità spropositata. In base a uno studio della Bocconi del 2012 in Italia i dipendenti pubblici sono 3,25 milioni e costituiscono il 14.3% della forza lavoro totale. In Inghilterra, patria europea del neoliberismo, sono invece 6 milioni e il 20% della forza lavoro. In Francia, paese tra i più statalisti del continente, i numeri sono 7,5 milioni e 26,7%. Giusto per la cronaca, in Germania sono 9,2 milioni e il 10,4%. Per quanto riguarda invece il costo, cioè il rapporto stipendi pubblici/Pil, noi siamo al 11%, cioè più o meno a livello inglese (10,9%) e un po’ sotto la Francia (13,4%).
Detto questo, risulta quindi evidente che il vero problema stia nell’organizzazione, nell’efficacia e nell’efficienza delle macchine pubbliche. E da questo punto di vista, le politiche di riduzione del personale praticate in questi anni sono state più che altro dannose e la stessa Corte dei Conte ha espresso qualche preoccupazione: “occorre evitare che la riduzione del numero dei dipendenti determini il degrado nella qualità dei servizi erogati alla collettività”.
Infatti, i continui blocchi dei turn-over (cioè la non sostituzione del personale andato in pensione) non solo possono provocare dei vuoti funzionali, ma abbinati agli effetti deleteri dell’innalzamento dell’età pensionabile stabilito dalla riforma Fornero, comportano anche un progressivo e negativo invecchiamento del personale.
Inoltre, i reiterati blocchi delle assunzioni (di personale a tempo indeterminato, si intende…), iniziati molti anni fa, hanno trasformato le pubbliche amministrazioni nel primo produttore di lavoro precario del paese, dalla scuola agli ospedali, dai vigili del fuoco ai comuni. Oggi la situazione è talmente grave e diffusa che non c’è nemmeno chiarezza sui numeri: secondo l’Aran i precari sono 317mila, secondo la Cgia di Mestre un milione… (vedi articolo di L’Espresso). E a tutto questo andrebbero aggiunti i servizi pubblici privatizzati, esternalizzati e dati in appalto, spesso a delle imprese o cooperative a cui interessa soltanto comprimere i salari e non certo la qualità del servizio erogato.
 
Insomma, investire nei lavoratori pubblici, stabilizzando i posti di lavoro e garantendo uno stipendio dignitoso, potrebbe essere un ottimo affare per la cittadinanza e un’occasione per riqualificare i servizi erogati. A patto, ovviamente, che si ragioni anche sull’organizzazione del lavoro, sull’uso intelligente e razionale degli strumenti tecnologi e informatici ecc. Insomma, tutte quelle cose che non decidono i lavoratori e le lavoratrici, ma coloro che sono preposti a guidare la macchina, cioè i dirigenti.
E qui arriviamo al punto dolente, anzi, al vero e proprio scandalo. Già, perché mentre il dipendente pubblico italiano riceve uno stipendio (bloccato) tra i più bassi d’Europa, i dirigenti e manager pubblici vivono invece in una realtà opposta, visto che risultano essere tra i più pagati in Europa. E non lo dice qualche “antagonista”, lo dice l’Ocse.
Comunque, non occorre scomodare le istituzioni internazionali, basta guardare sotto casa, tipo alla Regione Lombardia. Formigoni e i suoi fasti non ci sono più, ora c’è Maroni, ma per il resto non è cambiato niente. E così, mentre ai 2.800 dipendenti regionali si dice che non ci sono soldi per chiudere un contratto decentrato decoroso, ben altra musica viene suonata per i dirigenti o, meglio, per una parte di loro. Infatti, per le retribuzioni dirigenziali la Regione ha trovato 20 milioni di euro aggiuntivi per il solo 2013 e ben 54 dirigenti beneficeranno di un aumento netto della retribuzione.
 
Ebbene, arrivati a questo punto, non rimane che un’ultima domanda: ma se questa è la situazione perché i lavoratori pubblici italiani non sono in piazza, perché non protestano, perché non scioperano in massa? Perché c’è questo silenzio irreale?
Risposte banali e semplicistiche non servono, perché non aiutano a risolvere il problema. Infatti, è vero che c’è un insieme di cause. C’è un contesto generale difficile, la rassegnazione è diffusa, anche se a volte viene interrotta da scatti di ira e rabbia, e non si crede più che la lotta paghi, non ci si fida più di sindacati e partiti o della stessa azione collettiva eccetera. Ed è anche vero che c’è il timore di perdere il poco che si ha e l’illusione di essere per definizione diversi dal Portogallo, dove da un giorno all’altro hanno cancellato le tredicesime, o dalla Grecia, dove stanno licenziando migliaia di dipendenti pubblici.
Tutto vero, eppure c’è qualcosa che stona terribilmente in questo quadro, perché siamo l’unico paese europeo investito dalle politiche d’austerità, dove non ci siano stati degli scioperi generali veri, dei conflitti e delle vertenze nazionali autentici. Certo, ci sono state e ci sono lotte importantissime in alcuni settori o territori, come quella straordinaria dei tranvieri genovesi che oggi sono al quarto giorno consecutivo di sciopero contro i progetti di privatizzazione dell’azienda municipalizzata, ma quello che continua a mancare è una piattaforma, una volontà e una battaglia complessiva, nazionale e generale.
No, il problema è che qui abbiamo la nostra solita anomalia italiana, che si chiama collateralismo con governi e partiti da parte delle maggiori organizzazioni sindacali e che sta soffocando sul nascere ogni iniziativa.
Proseguire su questa strada ci porta però inevitabilmente in un buco nero, perché non occorre certo essere degli indovini per capire che in assenza di reazioni anche qui da noi il conto sarà sempre più salato. In fondo, basterebbe ascoltare con un po’ di attenzione Cottarelli e il Governo, con i loro progetti di privatizzazioni e con la revisione di spesa, cioè di tagli, nell’ordine di 32 miliardi di euro.
 
A proposito, quasi dimenticavo. Quando ci si batte e si lotta si può ovviamente perdere, ma capita anche che si vinca, che si ottengano dei risultati. Così è andata a Madrid, dove alcuni giorni fa gli spazzini e i giardinieri hanno vinto la loro durissima lotta. Il Comune aveva tagliato i fondi per i servizi di pulizia e le aziende appaltatrici volevano dunque licenziare ben 1.134 dipendenti. Dopo 12 giorni di sciopero ad oltranza è arrivata la retromarcia: nessuno verrà licenziato.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
L'hanno fatto in tempi da record, senza dire nulla a nessuno e sotto la potente spinta del timore che una legge sulla rappresentanza sindacale si potesse materializzare nel prossimo futuro, invadendo un campo che evidentemente considerano cosa loro. E così, dopo soli sette mesi dalla firma del protocollo d’intesa e con somma noncuranza per le implicazioni della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fiom-Fiat del luglio scorso, il 10 gennaio i vertici di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno firmato il “Testo Unico sulla Rappresentanza”.
Mai come in questo caso metodo e merito si danno la mano ed è più che sintomatico che la diplomazia segreta delle segreterie, che ha escluso dalla discussione non soltanto i diretti interessati, cioè i lavoratori e le lavoratrici, ma persino intere categorie aderenti alle confederazioni, come la Fiom (vedi dichiarazione di Landini), sia stata applicata a una materia -la rappresentanza dei lavoratori, i diritti e le libertà sindacali- che invece richiederebbe l’esatto opposto, cioè il massimo di trasparenza e partecipazione.
Come meravigliarsi dunque che proprio nei giorni in cui la Consulta pubblica le motivazioni della sentenza che ha fatto a pezzi il Porcellum, ribadendo anzitutto il principio costituzionale che la sovranità appartiene al corpo elettorale e non ai partiti, a poca distanza venga formalizzato invece un sistema di regole che sequestra la democrazia sui luoghi di lavoro, togliendo la titolarità ai lavoratori e alle lavoratrici, per assegnarla alle organizzazioni sindacali confederali.
Per carità, non che le cose andassero bene fino ad oggi, anzi. Per esempio, nel settore privato è tuttora in vigore, sebbene ormai talmente in crisi di legittimità da venir archiviato dal nuovo accordo, la sconcezza del 33% di posti riservati a Cgil-Cisl-Uil nelle Rsu. Ed è proprio per questo che ci vuole una legge che regoli la rappresentanza sui luoghi di lavoro, per sottrarre la materia alle parti in causa che inevitabilmente finiscono per scrivere delle regole a proprio uso e consumo, cioè esattamente quello che è successo con l’accordo del 10 gennaio (per il testo integrale dell’accordo vedi allegato).
Esagero? Non credo proprio e per dimostrarlo è sufficiente leggere il testo dell’accordo, cosa che vi invito a fare, anche se può essere un po’ faticoso. Qui mi limito a ricordarne le parti salienti, mentre per alcune valutazioni più generali rinvio al mio articolo sul protocollo d’intesa del 31 maggio scorso (vedi Le larghe intese sindacali sequestrano la democrazia), del quale l’accordo costituisce figlio legittimo e applicazione concreta.
Ebbene, l’accordo stabilisce anzitutto e soprattutto il principio che la rappresentanza dei lavoratori e i diritti e le liberta sindacali vengono riconosciuti dalle aziende soltanto nella misura in cui corrispondono a quanto pattuito con Cgil, Cisl e Uil. Le altre associazioni sindacali formalmente costituite potranno esistere in questo sistema soltanto se accettano “espressamente, formalmente e integralmente” i contenuti dell’accordo.
Ma non è soltanto un sistema esclusivo ed escludente, ma anche blindato dall’alto, poiché limita fortemente l’autonomia dei delegati eletti dai lavoratori e delle stesse categorie rispetto ai vertici confederali. Infatti, l’obiettivo della blindatura non sono tanto e soltanto le organizzazioni sindacali di base e conflittuali, ma qualsiasi espressione di autonomia e conflitto, che sia a livello aziendale, territoriale o categoriale, esterno o interno a Cgil, Cisl e Uil.
Ma facciamo prima ad andare per punti. Primo, se in un’azienda dei lavoratori intendono presentare alle elezioni Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) una lista, questa deve essere espressione di un’organizzazione sindacale che ha accettato in toto le regole dell’accordo. Altrimenti, se non sei d’accordo, non hai diritto di presentare liste (e di avere i diritti sindacali).
Secondo, un’organizzazione sindacale può anche decidere di rimanere fuori dalle Rsu, ma anche questo comporta complicazioni di natura formale, perché l’accordo stabilisce che le aziende accetteranno deleghe soltanto a favore di organizzazioni sindacali che “aderiscano e si obblighino a rispettare integralmente i contenuti del presente Accordo”.
Terzo, una volta eletto il delegato dei lavoratori ha una sorta di vincolo di mandato, cioè non può cambiare “appartenenza sindacale”, altrimenti decade dalla Rsu e viene sostituito (occhio quindi a polemizzare troppo con la linea del tuo sindacato…).
Quarto, i contratti firmati sono “efficaci ed esigibili” e quindi sono previste “disposizioni volte a prevenire e sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura”. Le sanzioni possono essere di tipo pecuniario e/o comportare la sospensione dei diritti sindacali.
Insomma, dissentire da quanto stabilito dai vertici di Cgil, Cisl e Uil e fare conflitto diventa un esercizio alquanto complesso e pericoloso.
Ovviamente, vengono blindate maggiormente anche le categorie rispetto alle confederazioni (e qui il pensiero non può che andare alle recenti vicende in Fiat). La cosa funziona così: siccome il regime sanzionatorio per garantire l’esigibilità va definito in sede di contratto nazionale di categoria e può succedere che non si trovi facilmente un accordo in tempi utili (pensiamo per esempio ai metalmeccanici), eccovi dunque una sorta di tribunale speciale che comunque garantisce da subito che vengano sanzionate le “azioni di contrasto di ogni natura” anche in assenza di regole a livello di categoria. Cioè, viene istituito un collegio di conciliazione e arbitrato a livello confederale.
Infine, è necessario aggiungere che non è prevista l’obbligatorietà del referendum per validare i contratti siglati, ma soltanto una non meglio precisata “consultazione certificata”, e che sarà possibile firmare contratti aziendali in deroga ai contratti nazionali.
Insomma, se non vi siete stancati prima e avete letto fino a qui vi sarà sicuramente suonato qualche campanello, tipo “ma questo cosa non è roba simile ai contratti introdotti da Marchionne negli stabilimenti Fiat?”. Già, appunto.
È un pessimo accordo dunque, anzitutto perché stabilisce che i diritti e le libertà sindacali non appartengono ai lavoratori, ma a Cgil, Cisl e Uil, con la benedizione padronale di Confindustria. Ed è un pessimo accordo perché è dominato dalla paura delle segreterie di Cgil, Cisl e Uil di “perdere il controllo” in un momento di crisi e difficoltà. E così, invece di fare il sindacato e cercare il consenso dei lavoratori, si decide di farsi legittimare dalla controparte e di fare il poliziotto.
Vediamo come va a finire e se questo accordo reggerà così com’è, anche se c’è poco da essere ottimisti. Infatti, a parte lo scontato e sacrosanto dissenso delle organizzazioni sindacali di base, dall’interno di Cgil, Cisl e Uil provengono per ora pochissime voci. Anzi, per essere precisi per ora abbiamo sentito soltanto le proteste della Fiom e della Rete 28 Aprile. Forse un po’ poco.
Da parte mia, comunque sia, ritengo che questo porcellum sindacale meriti più di una battaglia, non solo sindacale, ma anche culturale e politica, perché qui non stiamo parlando semplicemente di cose sindacali, ma di democrazia e di conflitto. Ed è più che mai impellente l’esigenza di una legge sulla rappresentanza sindacale che ridia ai lavoratori ciò che è dei lavoratori.
 
Luciano Muhlbauer
 
in allegato il testo integrale del Testo Unico sulla Rappresentanza, firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 10 gennaio 2014
 

Scarica Allegato
 
Fabio Zerbini, attivista del sindacato di base S.I.Cobas, ieri pomeriggio è stato aggredito e malmenato. Secondo il comunicato del suo sindacato, che potete leggere più sotto, si è trattato di un vero e proprio agguato, in zona Affori a Milano, e il pestaggio è stato accompagnato dalla minaccia di fargli fare una brutta fine nel caso non la smettesse di seguire le lotte operaie.
Esprimo a Fabio la mia solidarietà e gli auguro di rimettersi prestissimo.
È importante non far passare sotto silenzio la vicenda o sottovalutarla, perché dare oggi l’impressione che gli attivisti e dirigenti del S.I.Cobas non siano accompagnati dalla solidarietà, autorizza magari certa gente a pensare che si possa riproporre il “metodo”.
Infatti, Fabio e il S.I.Cobas sono particolarmente attivi nel sostegno e nell’organizzazione sindacale delle vertenze nella logistica, che vedono protagonisti gli operai facchini. Il mondo degli appalti e degli subappalti della logistica e della movimentazione merci è un mondo dove per i lavoratori ci sono pochissime tutele, dove le poche regole esistenti vengono sistematicamente aggirate e dove, dunque, il diritto di scioperare ed organizzarti è una cosa che devi conquistarti giorno per giorno, con lotte anche molto dure, come ha insegnato l’esperienza recente. È un mondo dove per le organizzazioni malavitose è relativamente facile inserirsi e, infatti, diverse volte è successo e succede.
Le vertenze nella logistica sono segnate da repressioni poliziesche anche molto pesanti (vi ricordate Basiano, per stare in zona Milano?), da vicende giudiziarie e interventi mirati contro dirigenti sindacali (il caso di Aldo Milani, per fare solo un esempio) e, ovviamente, anche da fatti violenti in pieno stile mafioso, come è successo ieri a Fabio Zerbini.
Quello della logistica e degli appalti è un mondo dove fare sindacato non è un impegno comodo, ma pericoloso. E non è nemmeno facile far parlare di te, delle tue ragioni, perché i media tendono a ignorare la realtà di quel mondo. Chissà, forse perché gli interessi in gioco sono forti e perché la maggior parte degli operai sono migranti?
Comunque sia, per questo è maledettamente importante essere solidali e non lasciare da solo nessuno e nessuna.
Vi propongo dunque di diffondere  la notizia dell’aggressione e la vostra/nostra solidarietà e di sostenere le eventuali iniziative che verranno organizzate dal S.I.Cobas.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Il comunicato del S.I.Cobas del 15.01.2014:
 
Un agguato in stile mafioso ad un compagno dirigente del S.I. Cobas
 
Ieri pomeriggio il compagno Fabio Zerbini è stato attirato in una specie d'imboscata e pestato a sangue. Con la scusa di un incontro per risarcire i danni di un incidente automobilistico (uno specchietto rotto) avvenuto a fine dicembre, è stato attirato in zona Affori.
Appena sceso dall'auto, è stato assalito a tradimento e pestato a sangue.
Gli aggressori si sono quindi allontanati promettendogli una brutta fine se si occuperà ancora dell'organizzazione delle lotte operaie.
Questo pestaggio è la continuazione della strategia repressiva che combina l'intervento delle forze del disordine, con quelle dell'ordine di mafia, n'drangheta e camorra di cui hanno fatto le spese i nostri militanti sindacali , con minacce, processi, pestaggi, incendi d'auto ecc...
Più lo scontro politico si accentua, più si intrecceranno queste azioni atte ad intimidire la lotta dei lavoratori della logistica, ma solo l'estensione di questa, l'organizzazione di essa e dei COBAS potrà garantire una maggior difesa agli attacchi posti in atto dal padronato e dai loro sgherri, contro i sindacalisti attivi.
 
Non ci faremo intimidire!
 
Un caloroso saluto e una pronta guarigione va a Fabio, uno dei nostri compagni più in vista nelle lotte portate avanti tra gli operai della logistica.
 
Il S.I. COBAS nazionale
 
Aggiornamento del 16 gennaio: in seguito all'aggressione contro Fabio Zerbini, il S.I.Cobas ha deciso di convocare un'assemblea nazionale, "aperta a tutti i sostenitori della lotta degli operai", per domenica 19 gennaio, alle ore 11.00, presso il Csa Vittoria (via Friuli ang. via Muratori, Milano).
 
 
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