Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
di lucmu (del 26/07/2010, in Politica, linkato 1206 volte)
Le forze dell’ordine, nell’ambito dell’inchiesta condotta dal Pm Frank Di Maio, hanno sequestrato due discoteche milanesi (Hollywood e The Club), indagato 19 persone ed effettuato cinque arresti, tra cui due funzionari del Comune di Milano. I reati contestati vanno dal giro di coca in appositi spazi all’interno dei locali, destinati a vip e imprenditori, fino alla corruzione (licenze facili, assenza di controlli) da parte dei funzionari pubblici.
Insomma, il Sindaco e il suo vice, se da una parte impongono il coprifuoco ai locali delle periferie, se la prendono con i giovani che si bevono una birra all’aperto e chiedono lo scalpo dei centri sociali o finanche di qualche circolo Arci, dall’altra sembrano invece assolutamente disinteressati rispetto a quello che succede nelle discoteche di tendenza e, soprattutto, negli uffici comunali che dovrebbero fare i controlli.
 
Qui di seguito il nostro comunicato stampa:
 
IL SINDACO È COLPEVOLE DI NEGLIGENZA
 
Il meno che si possa dire è che il Sindaco e la sua Giunta sono colpevoli di negligenza. C’è infatti da chiedersi cosa abbiano fatto gli amministratori milanesi negli ultimi 12 mesi per garantire il ripristino di un minimo di trasparenza e legalità.
Infatti, era esattamente un anno fa, nel luglio del 2009 per la precisione, quando diversi funzionari del Comune, compreso l’allora Comandante della Polizia Locale, Bezzon, poi dimessosi, finirono indagati per un giro di tangenti finalizzato a favorire alcune discoteche di tendenza, facilitando il rilascio delle licenze ed evitando i successivi controlli.
Gli odierni arresti ed indagini sembrano una fotocopia di allora, con l’unica aggiunta del giro di droga in alcune discoteche. Persino uno degli arrestati di oggi, Rodolfo Citterio, presidente del Sindacato dei locali da ballo (Silb) e componente della Commissione comunale di vigilanza, è un nome noto dell’anno scorso, visto che era già stato inquisito allora, peraltro per gli stessi reati.
Insomma, sembra sia passato un giorno e non un anno da quel luglio del 2009. E nel frattempo che cosa hanno fatto Sindaco, Vicesindaco e assessori competenti?
Riteniamo sia doveroso che qualcuno fornisca una spiegazione di questo negligente immobilismo e, soprattutto, che tragga le necessarie conseguenze.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Se non intervengono fatti nuovi, nel giro di due-tre mesi alla Maflow di Trezzano s/N (MI) oltre 250 lavoratori e lavoratrici finiranno sul lastrico, senza più posto di lavoro, disoccupati. Ecco perché oggi non è più tempo di chiacchiere, ma di fatti concreti.
E lo diciamo al governo regionale e, in particolare, all’Assessore al Lavoro, Rossoni (Pdl), che stamattina ha ricevuto una delegazione di lavoratori della Maflow, e all’Assessore all’Industria, nonché Vicepresidente regionale, Gibelli (Lega), che invece non ha partecipato all’incontro.
Ci permettiamo di dirlo perché non è certo la prima volta che si parla di Maflow in Regione Lombardia, anzi. L’assessore Rossoni aveva incontrato diverse volte lavoratori e sindacati, prendendo anche degli impegni, come quello, dell’8 marzo scorso, di intervenire non soltanto sull’allora Ministro Scajola, ma persino sul Commissario europeo all’industria,Tajani.
Ma belle parole e solenni impegni erano arrivati anche da un importante esponente della Lega, Salvini, che chiamò persino al boicottaggio della Bmw, visto che la Maflow di Trezzano è in crisi a causa del taglio delle commesse da parte della società tedesca, in seguito alle pressioni politiche da parte del governo Merkel.
Peccato però che alle parole di Salvini non siano mai seguiti i fatti e che i componenti della Giunta regionale, compreso il Presidente, continuino a girare tranquillamente con le autoblu fornite proprio dalla Bmw. Anzi, in occasione della question time del 3 febbraio scorso, quando noi sollevammo il problema dei rapporti privilegiati con la Bmw, il rappresentante della Giunta ci ripose con un imbarazzante silenzio.
Comunque sia, ora siamo arrivati al dunque. Dopo un anno di amministrazione straordinaria tutto il gruppo Maflow, presente in diversi paesi, è stato messo all’asta e ora sta per essere venduto alla società polacca Boryszew S.A.. Secondo le previsioni dei commissari straordinari, la procedura di vendita di concluderà entro la fine del mese di settembre.
Ebbene, sui 330 lavoratori e lavoratrici dello stabilimento di Trezzano, in gran parte lontanissimi dall’età pensionabile, l’acquirente polacco è disposto a tenerne soltanto 58, garantendone il posto di lavoro per due anni. Poi si vedrà.
Insomma, un livello occupazionale bassissimo e un piano industriale alquanto fumoso.
In altre parole, se non c’è un’attivazione reale delle istituzioni, rimaste finora alla finestra, tesa a favorire il rientro di almeno una parte delle commesse della Bmw, marciamo diritti verso un disastro occupazionale.
E questo, per quanto riguarda Regione Lombardia, significa non disertare gli incontri che si tengono al Ministero dello Sviluppo Economico, com’è avvenuto martedì scorso, e soprattutto utilizzare finalmente i ben consolidati rapporti con Bmw Italia.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare la comunicazione ufficiale relativa alla vendita alla Boryszew S.A., inviata il 20 luglio scorso dai Commissari straordinari alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici degli stabilimenti Maflow di Trezzano s/N e di Ascoli Piceno
 

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Pochi giorni fa la Corte d’Appello di Genova ha pubblicato le motivazioni della sentenza del 18 maggio scorso, con la quale, in sede di giudizio di secondo grado, sono stati condannati diversi alti funzionari delle forze dell’ordine per le violenze commesse alla scuola Diaz, a Genova, il 21 luglio del 2001.
Cliccando sull’icona in fondo a questo testo puoi scaricare la versione integrale delle motivazioni. È un documento corposo, lungo ben 313 pagine, ma vale la pena darci un’occhiata, poiché ribadisce con forza anche in sede giudiziaria quello che in fondo sappiamo da sempre. Cioè, che l’infame massacro della Diaz era conseguenza diretta degli ordini ricevuti da Roma.
Consiglio, in particolare, la lettura di un passaggio che trovate a pagina 299 e che suona così:
 
La Corte, nella valutazione complessiva dei fatti, ritiene di non obliterare la circostanza, emersa chiaramente in causa fin dalle prime emergenze e confermata nell’ulteriore corso processuale, secondo la quale l’origine di tutta la vicenda è individuabile nella esplicita richiesta da parte del Capo della Polizia di riscattare l’immagine del corpo e di procedere a tal fine ad arresti, richiesta concretamente rafforzata dall’invio da Roma a Genova di alte personalità di sua fiducia ai vertici della Polizia che di fatto hanno scalzato i funzionari genovesi dalla gestione dell’ordine pubblico. Certo tale pressione psicologica non giustifica in nulla la commissione dei reati né l’eventuale malinteso spirito di corpo che ha caratterizzato anche successivamente la scarsa collaborazione con l’ufficio di Procura (riconosciuta anche dal Tribunale), ma consente, nell’ambito dell’ampio divario fra le misure edittali della pena, di optare per la quantificazione della pena base nel minimo.”
 
Detto in italiano più corrente: l’ordine venne dall’allora Capo della Polizia, Gianni De Gennaro, e successivamente ci furono pure depistaggi e insabbiamenti. Insomma,  esattamente quello che il movimento sostiene da nove anni, ma che i vari Governi succedutisi da allora anni hanno sempre negato, garantendo anzi protezioni e promozioni ai responsabili delle violenze.
Buona lettura!
 
clicca sull’icona qui sotto per scaricare la motivazione e il dispositivo (1,6 Mb):
 

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I ladri di acqua preferiscono agire nell’ombra. E così, Formigoni avrà pensato che il 5 di agosto, quando incombono le vacanze, potesse essere un ottimo giorno per un colpo di mano, infinocchiando così in un sol colpo sia i suoi cocciuti concittadini, che i recalcitranti Comuni, ambedue colpevoli di non amare abbastanza quella privatizzazione dell’acqua pubblica, che invece piace tanto ai suoi sodali.
Ma la notizia era trapelata anzitempo, come spesso accade ai segreti di Pulcinella, le proteste iniziano a farsi sentire e, a questo punto, bisogna attendere la riunione della Giunta regionale di domani per capire cosa succederà.
Da parte nostra, chiediamo al Presidente Formigoni e alla Lega non solo di rinunciare al blitz agostano, ma anche di astenersi successivamente da ogni iniziativa legislativa tesa ad imporre la privatizzazione dell’acqua e ad espropriare le comunità locali delle loro legittime prerogative, prima che si tenga il referendum contro il decreto Ronchi.
Insomma, si ritiri il progetto e che decidano i cittadini se l’acqua deve rimanere pubblica o diventare un business per alcune grandi società private. Riteniamo questa l’unica soluzione sensata e rispettosa della cittadinanza, anche e soprattutto alla luce dei precedenti.
Infatti, la Giunta Formigoni aveva già tentato di imporre ai Comuni la privatizzazione dell’acqua, per mezzo di un apposita norma, inserita nella legge regionale n. 18 del 28 luglio 2006.
Contro quella norma, una sorta di decreto Ronchi ante litteram, si sviluppò una forte opposizione, soprattutto sul territorio, visto che allora in Consiglio non eravamo in tanti a farla e il Pd era piuttosto tiepido. In particolare, oltre 140 Comuni presero l’iniziativa per un referendum regionale abrogativo.
Il centrodestra, così forte ed egemone in Lombardia, aveva però una paura matta di quel referendum e pur di non doverlo affrontare, prima lo fece slittare dal 2008 al 2009 e, infine, fece retromarcia: il 27 gennaio 2009 il Consiglio regionale votò all’unanimità l’abrogazione della contestata norma.
Una paura giustificata, peraltro, considerato anche il gran numero di firme raccolte di recente in Lombardia per il referendum sull’abrogazione del decreto Ronchi: ben 237mila su un totale nazionale di 1,4 milioni.
In altre parole, Formigoni agisce come un ladro e si inventa l’incredibile esautorazione dei Comuni, per passare le competenze in materia di gestione dell’acqua alle Provincie, perché sa di essere in minoranza tra i lombardi.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
Oggi, mercoledì 4 agosto, dalle ore 17.00, presidio davanti al Pirellone contro la privatizzazione dell’acqua, convocato dal Coordinamento regionale lombardo dei Comitati per l’acqua pubblica. Se sei a Milano, partecipa!
 
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Oggi Formigoni è stato costretto a tirare il freno a mano. Voleva accelerare, invece ha dovuto decelerare. E così, l’odierna seduta della Giunta regionale non ha approvato alcun progetto di legge, ma ascoltato una semplice informativa.
Anzi, Formigoni dichiara pure che non ha “mai pensato” di privatizzare l’acqua pubblica, proponendo lo stesso gioco di parole in cui si era esercitato appena qualche ora prima anche Podestà.
Evidentemente sia l’Anci, che i comitati e noi, ci siamo sognati quella bozza di articolato di legge regionale, su carta intestata dell’assessorato regionale, che avrebbe dovuto andare in discussione nella seduta della Giunta di oggi (che per sicurezza alleghiamo in fondo al testo).
Quella bozza di legge dice che i Comuni vengono esautorati, salvo Milano, e che le competenze in materia passano alle Provincie. Prevede anche che il servizio di erogazione dell’acqua venga aperto ai privati, mediante le gare obbligatorie. Infine, all'articolo 51 preannuncia di fatto anche l'aumento delle tariffe.
In italiano questo si chiama privatizzazione. Quindi, se Formigoni ha cambiato idea, grazie alle proteste di Anci, comitati e opposizioni, beninteso, allora semplicemente rinunci a ogni tentativo di voler anticipare con i fatti compiuti il referendum. Insomma, lasci che decidano liberamente i cittadini.
Ma siccome non ci fidiamo, visti anche i precedenti, riteniamo necessario che non si abbassi la guardia e che si prepari la mobilitazione per l’autunno prossimo.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto, puoi scaricare il testo integrale della bozza di legge regionale (4 Mb)
 

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di lucmu (del 10/08/2010, in Lavoro, linkato 1369 volte)
Il giudice del lavoro ha dato ragione ai lavoratori, disponendo il reintegro immediato al lavoro dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, di cui due delegati sindacali della Fiom, licenziati da Marchionne a metà luglio.
Un mese fa fu tutto un coro, dalla Marcegaglia al Ministro Sacconi, passando per i balbettii di sindacalisti collaborazionisti e oppositori confusi, per dare manforte all’incredibile teorema di Marchionne, che accusava i tre operai di sabotaggio.
In realtà, non avevano fatto altro che partecipare a uno sciopero e, come sempre accade durante gli scioperi, capita anche che qualche carrello robotizzato venga disattivato. Lo prevedono peraltro le misure di sicurezza.
Insomma, il loro licenziamento si configurava come rappresaglia ed eravamo, dunque, di fronte al più classico dei licenziamenti politici. E ora lo ha confermato anche il giudice, condannando la Fiat per comportamento antisindacale.
I tre operai -Antonio Lamorte, Giovanni Barozzino e Marco Pignatelli- tornano dunque al loro posto di lavoro, dal quale erano stati cacciati illegittimamente, e il tribunale ha detto che gli operai stavano nella legge, mentre Marchionne stava fuori dalla legge.
Bene. Che tutti prendano nota!
Tuttavia, questo non significa affatto che ora la Fiat cambierà linea o che lo faccia il Governo, che aveva già annunciato, per bocca del solito Sacconi, di voler eliminare lo Statuto dei Lavoratori, per sostituirlo con uno “statuto dei lavori”. E, supponiamo, non cambierà idea nemmeno Bonanni, il miglior amico di Marchionne e del Governo.
Anzi, andranno avanti come prima e più di prima. E quindi anche noi dovremo andare avanti, come e più di prima, a partire dalla manifestazione nazionale del 16 ottobre, proposta dalla Fiom.
 
cliccando sull’icona qui sotto, puoi scaricare il testo integrale della sentenza del tribunale di Melfi
 

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Il fiume Indo nasce nel Tibet, poi attraversa le bellissime terre del Ladakh e del Kashmir indiani e, infine, si getta in mare dopo aver attraversato le provincie pakistane del Punjab e del Sind. Ha dato il nome a tutto il subcontinente indiano e, come tutti i grandi corsi d’acqua, fu culla di civiltà ed è fonte di vita nelle terre che bagna. Ma in queste settimane, grazie anche al trattamento che noi umani riserviamo all’ambiente, l’Indo si è trasformato in strumento di morte e distruzione.
In questo momento, in Pakistan, una porzione di terra equivalente all’Italia continentale è sommersa dall’acqua, quasi duemila persone risultano morte e 20 milioni sono sfollate, di cui almeno due milioni non hanno più una casa.
Un disastro immane, in una terra da sempre martoriata. Un paese nato dalla spartizione violenta dell’India, la Partition con i suoi massacri tra indù e musulmani, ostaggio sin dalla sua formazione della debolezza delle istituzioni civili e dello strapotere delle forze armate, peraltro coccolate sul piano internazionale dagli Usa, e oggi flagellato dalla guerra tra esercito e quei gruppi armati del jihadismo che proprio la dittatura militare e i consiglieri a stelle e strisce avevano allevato e coltivato. E come se non bastasse, negli ultimi anni il Pakistan è stato colpito da diversi terremoti, di cui quello più rovinoso, del 2005, aveva provocato oltre 70mila morti.
Insomma, ce ne sarebbero di ragioni, umanitarie o politiche o quello che volete, per mobilitare solidarietà e fondi verso gli uomini e le donne del Pakistan, anche per evitare che il disastro presente prepari altri disastri futuri. Invece niente, o quasi. Non ci sono nemmeno ancora i soldi necessari per far fronte alla prima emergenza, come ha denunciato in questi giorni il segretario generale dell’Onu. Figuriamoci quelli che serviranno per la ricostruzione!
È proprio come scrive Marina Forti su il Manifesto di oggi: “la catastrofe che si è abbattuta sul Pakistan non commuove nessuno”. Peraltro, e a riprova della pochezza della classe dirigente pakistana (e dei suoi sponsor internazionali), non si era commosso più di tanto nemmeno il Presidente del Pakistan, Zardari, che continuava tranquillamente il suo giro in Europa, mentre il suo paese stava annegando (a questo proposito, se sai l’inglese, ti segnaliamo le sintetiche considerazioni di Tariq Ali del 10 agosto scorso: At the Manor of the White Queen).
Per quanto ci riguarda, pensiamo sia sbagliato, misero e colpevole fare finta di niente, come hanno già iniziato a fare i grandi media mainstream, o sostenere, anche con il nostro silenzio, la stomachevole ipocrisia dei nostri governi, prontissimi alle guerre al terrore in terre lontane, ma assenti e menefreghisti di fronte all’odierno dramma.
Ci uniamo quindi, con la nostra piccola voce, a quanti e quante chiedono di non lasciare da soli gli uomini e le donne del Pakistan.
E ti segnaliamo anche la possibilità di contribuire con un gesto di solidarietà diretta. Ovviamente, dal momento che non ci piacciono né i militari, né gli integralisti che predicano con la spada, ti consigliamo il conto aperto dalla Federazione dei Sindacati Uniti del Pakistan, suggerito dall’Usb (Unione Sindacale di Base), l’unico sindacato italiano che allo stato si è mosso sull’argomento. Oppure, se vuoi fare riferimento a qualche organizzazione non governativa presente in loco, come Medici senza Frontiere, ti invitiamo soltanto a valutare la serietà e l’indipendenza dell’Ong. Anzi, se hai suggerimenti a questo proposito, ti siamo grati se li lasci qui sul blog.
 
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di lucmu (del 27/08/2010, in Lavoro, linkato 1110 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 27 agosto 2010
 
Un pregio questo profondo agosto l’ha avuto, con i suoi meeting e i suoi dibattiti. Ha aiutato a fare un po’ di chiarezza, ad esplicitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, di che cosa stiamo parlando, quando diciamo Pomigliano, Melfi o Fiat.
Non a caso, infatti, nessuno parla più di fannulloni, assenteismo o finti malati, come invece si faceva senza ritegno ai tempi del referendum di Pomigliano. E assume senso compiuto anche quell’irriducibile opposizione della Fiat al reintegro “nel proprio posto di lavoro” –e non nella saletta sindacale- dei tre operai di Melfi.
No, tutte queste cazzate, ci si permetta il termine, sono state spazzate via dai dotti discorsi di Ministri, capi confidustriali e amministratori delegati. Dobbiamo essere grati, in particolare, al Ministro Tremonti e all’Ad Marchionne, per avere autorevolmente attestato che le cose stanno esattamente come pensavamo che stessero.
Il primo, tra Rimini e Bergamo, ha in sostanza detto che viviamo in un mondo difficile, che siamo noi che dobbiamo adeguarci a questo e non questo noi e che, quindi, certi lussi non possiamo più permetterceli. Si riferiva soprattutto a due “lussi”: i diritti e la sicurezza sui luoghi di lavoro, comprese “robe come la 626”.
Il secondo, nel suo intervento di ieri a Rimini, non ha nemmeno fatto finta di citare l’assenteismo e si è dedicato invece a un discorso più generale. Secondo lui, ci vuole un nuovo patto sociale, un nuovo modello e questo significa, ovviamente, che bisogna buttare a mare quello vecchio. Ed è quello che sta avvenendo ora in Fiat: “la contrapposizione tra due modelli”.
Marchionne non perde tempo a spiegare in dettaglio questo nuovo modello, vi allude soltanto, parlando di “responsabilità e i sacrifici” e di competizione nel mondo. In cambio, però, è molto chiaro nell’individuare il modello da distruggere: “Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, tra ‘padroni’ e ‘operai’… Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo la guerra in famiglia.”.
Potremmo fermarci qui con le citazioni di Marchionne, se non fosse che è stato anche protagonista di due cadute di stile, sebbene la platea ciellina non ci abbia fatto caso. Con la prima, ha attaccato gratuitamente i tre licenziati politici di Melfi, rinfacciandogli che “la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”.
Con la seconda, invece, si è esercitato in una clamorosa, ma significativa omissione. E così, dopo aver rivendicato con forza il progetto “Fabbrica Italia” e affermato che “rispettare un accordo è un principio sacrosanto di civiltà”, si è completamente dimenticato di accennare al caso delle produzioni assegnate quattro mesi a Mirafiori, poi sparite e, infine, riapparse in Serbia.
Ma che ci vuoi fare, dall’altra parte non si è nemmeno ricordato della parolina “cassa integrazione”, che a breve arriverà anche per gli operai di Melfi.
Comunque, inutile scandalizzarci per qualche scorrettezza o bugia. Questo non è un gioco pulito, è un gioco pesante e non si prevedono prigionieri. Ma in cambio è trasparente. Non si tratta di avere meno assenteismo, più produttività eccetera. Tutto questo si potrebbe ottenere anche nel quadro normativo e contrattuale esistente (peraltro tutt’altro che generoso con i lavoratori). No, il problema non è quantitativo, è qualitativo. Ed è generale.
Sacconi, Tremonti e Marchionne dicono e vogliono la stessa cosa, non cose diverse. E non sono nemmeno cose tanto nuove. Quasi nessuno si ricorda ormai, ma nel lontano ottobre 2001 l’allora Ministro del Welfare, il leghista Roberto Maroni, presentò il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Riga in più, riga in meno, c’era già tutto scritto, compreso l’obiettivo di abrogare lo Statuto dei Lavoratori, cioè il pacchetto fondamentale dei diritti, per sostituirlo con lo “Statuto dei Lavori”.
L’anno scorso a Milano l’81,6% dei nuovi contratti di lavoro stipulati aveva carattere precario. Evidentemente vogliono il 100%, dappertutto e subito. È l’assalto al cielo dei padroni.
Insomma, dopo le illuminanti chiacchiere agostane, non ci sono più alibi per nessuno. Non ci riferiamo ovviamente ai vari Bonanni, che di alibi non ne hanno più da tempo, ma a tutti gli altri.
A questo punto bisogna scegliere da che parte stare. Con Marchionne e Tremonti o con la Fiom, i sindacati di base e tutti quelli che si battono per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici. Suona brutale, lo so, ma questa è l’ora di schierarsi.
 
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Mercoledì 1° settembre un gruppo di insegnati precari del Movimento Scuola Precaria di Milano inizierà lo sciopero della fame, affiancandosi così ai precari palermitani in sciopero della fame da giorni.
La protesta partirà nel quadro della giornata di mobilitazione del 1° settembre, che si terrà davanti alla sede dell’Ufficio scolastico regionale, in via Ripamonti 85, a Milano. Alle ore 10.30 ci sarà una conferenza stampa e dalle 15.00 in poi ci sarà prima una performance e poi un incontro aperto con sindacati, studenti, genitori e chi vuole contribuire alla battaglia. Il testo dell’appello che convoca la mobilitazione del 1° settembre puoi leggerlo qui.
Invito quanti e quante sono a Milano a passare in via Ripamonti, per partecipare e/o per portare solidarietà. E, comunque, non finirà domani e quindi ci saranno altre occasioni.
Ebbene sì, perché non siamo di fronte a una parentesi, a un incidente di percorso, bensì all’evoluzione del più vasto programma di tagli della scuola pubblica della storia repubblicana, voluto dalla più tremontiana delle leggi, la n. 133 del 2008, e applicato con arrogante perseveranza dalla Gelmini, che lo chiama addirittura “riforma”.
I tagli brutali previsti per l’anno scolastico 2010/2011 seguono quelli già pesanti dell’anno scorso. Questa volta dovrebbero saltare oltre 40mila posti di lavoro, tra insegnati e personale non docente, e primi della lista sono ovviamente i tantissimi precari e precarie, che non bisogna nemmeno licenziare formalmente, poiché basta non riassumerli.
E a differenza dell’anno scorso, non si sentono nemmeno più le chiacchiere di Formigoni, che nel settembre dell’anno scorso siglò un’intensa con il Ministro Gelmini, per salvaguardare, a suo dire, i precari. Quella intensa, com’era prevedibile, si risolse poi con l’elargizione di qualche elemosina per ammortizzare, cioè addolcire, la dura realtà del licenziamento.
Nel frattempo, due anni di cura Tremonti-Gelmini hanno gettato la scuola italiana in una crescente instabilità. A sole due settimane dalla ripresa delle lezioni, la situazione a Milano è caotica e paradossale: nomine in grave ritardo e non si sa neanche quanti e chi saranno i licenziati, presidi precettati, scuole rimaste senza presidi e presidi rimasti senza fondi e insegnanti per garantire un tempo pieno decente eccetera eccetera.
Insomma, l’unica cosa che funziona nella cosiddetta “riforma Gelmini” sono i tagli e i licenziamenti.
La lotta dei precari è sacrosanta in sé, perché difendono il loro posto di lavoro, ma essa assume oggi anche una precisa valenza generale, di difesa di una scuola pubblica e di qualità.
Per questo merita solidarietà e sostegno e per questo è necessario che le forze sociali e politiche si esprimano, si espongano e si battano insieme ai precari per fermare i licenziamenti e lo smantellamento della scuola pubblica.
 
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Quanto dichiarato al Sole 24 Ore Lombardia, in edicola oggi, dal coordinatore dei giudici di pace di Milano, Vito Dattolico, in relazione al Cie di via Corelli, equivale a una sonora e integrale bocciatura del pacchetto sicurezza. Dalla Lega a De Corato, tutti sbugiardati in un sol colpo.
Beninteso, anche quando i centri di detenzione per immigrati irregolari si chiamavano ancora Cpt e non Cie, le smentite della retorica ufficiale erano all’ordine del giorno, ma quella di oggi è sicuramente una tegola bella pesante, perché arriva dopo soltanto un anno dall’entrata in vigore dei quel pacchetto sicurezza, che aveva introdotto il reato di clandestinità e allungato il periodo massimo di detenzione nei Cie da due mesi a sei mesi.
Infatti, secondo Dattolico, da quando è stato introdotto il reato di clandestinità non ci sono stati più espulsioni dal Cie di Milano: “nemmeno un clandestino è stato allontanato di quelli dei quali ci siamo occupati”. A suo dire, anzitutto una questione economica (“non ci sono i soldi per finanziare i viaggi di ritorno”), ma aggiunge subito dopo che pensa che questa situazione non cambierà nemmeno nel futuro.
Ma il fallimento totale dei Cie rispetto ai loro obiettivi dichiarati, che sono appunto la “identificazione” e la “espulsione”, si evince anche da altri due dati riportati dal Sole 24 Ore.
In primo luogo, il numero di persone rinchiuse in via Corelli è calato del 29%: erano 1.083 nel 2009, rispetto ai 1.526 del 2008. Un evidente, nonché prevedibile, effetto dell’allungamento a dismisura del periodo di detenzione.
In secondo luogo, non è affatto venuta meno la regolare e numerosa presenza in via Corelli di ex-carcerati. Si tratta di un autentico scandalo, denunciato da lunghi anni dalle associazioni e sottolineato con forza anche dal rapporto della commissione De Mistura del 2008.
Infatti, si tratta di persone perfettamente identificate e che alla fine della loro pena detentiva finiscono diritti in via Corelli, per il semplice fatto che in carcere nessuno si era preoccupato di predisporre l’espulsione. In altre parole, queste persone vengono costrette a un ingiustificato, supplementare e gratuito periodo di privazione di libertà, a causa di un banale menefreghismo ministeriale!
Infine, un ultima considerazione. Il centro di detenzione di via Corelli era stato costruito quando il periodo di “trattenimento” massimo era fissato dalla legge in 30 giorni. Nel frattempo quel periodo è cresciuto prima a 60 giorni e poi ai 180 attuali. In altre parole, e a prescindere da ogni altra considerazione, quel centro è strutturalmente e funzionalmente inadatto. Cioè, è una fabbrica di proteste e rivolte.
Da parte nostra, abbiamo da sempre ritenuto i Cie/Cpt degli obbrobri giuridici e umani, dei buchi neri dello stato di diritto. Ma siamo anche realisti, consci dei tempi non certo edificanti che corrono e non pretendiamo dunque di convincere nessuno con argomentazioni di natura morale o costituzionale. Ma una cosa la pretendiamo, oggi e qui, da tutti e tutte: che si prenda atto della realtà, che si smetta di raccontare bugie e, dunque, che si chiuda e si smantelli il Cie di via Corelli.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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