Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La manovra è stata riscritta ancora una volta, ma in questo caso si tratta probabilmente della versione definitiva. Infatti, il Governo ha presentato un maxiemendamento sostitutivo del ddl di conversione del decreto legge n. 138 del 13 agosto scorso, ponendovi la questione di fiducia. In altre parole, niente più discussioni e la manovra, così modificata, sarà approvata dal Senato già stasera, per poi passare alla Camera.
Una risposta più che eloquente, nella sua arroganza, al riuscito sciopero generale della Cgil e del sindacalismo di base di ieri, che ha visto un sensibile aumento delle adesioni sui posti di lavoro, privati e pubblici, rispetto alle occasioni precedenti. Cioè, non solo i lavoratori e le lavoratrici vengono mandati brutalmente a quel paese, ma nel frattempo il carattere iniquo e classista della manovra è stato pure accentuato.
Anzitutto, viene confermato il famigerato articolo 8, in una versione persino peggiorata, che permette ai contratti aziendali di derogare sia ai contratti nazionali, che alle leggi in materia di lavoro. Detto altrimenti, si decreta con questa manovra la fine del contratto nazionale, dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (cioè, del divieto di licenziare senza giusto causa) e del divieto di controllare e spiare i lavoratori sul luogo di lavoro.
In secondo luogo, in extremis viene introdotto l’aumento dell’età di pensionamento a 65 anni anche per le donne del settore privato, già a partire dal 2014, e l’aumento dell’Iva dal 20 al 21%. Poi ci sarebbe anche quel ridicolo “contributo di solidarietà” del 3% per i redditi superiori a 300mila euro, ma meglio stendere un velo pietoso…
Ci fermiamo qui, rinviando alla lettura del maxiemendamento, che trovate in allegato. Certo, non è una lettura facile, perché scritto nel linguaggio del legislatore, ma in cambio si possono conoscere le cose così come stanno e senza doversi affidare ai sentiti dire.
Infine, un’ultima considerazione. Se possono fare quello che stanno facendo, nel modo in cui lo stanno facendo, è anche perché l’opposizione è troppo debole e troppo inconsistente, perché non riesce ad indicare un’alternativa e, anzi, balbetta di governi di unità o responsabilità nazionale. E questo nel migliore dei casi, perché poi c’è anche chi collabora attivamente con le politiche del Governo, come la Cisl di Bonanni. Insomma, senza tutte queste debolezze (chiamiamole così…) e collaborazioni difficilmente un governo alla frutta potrebbe fare queste cose.
Ma per noi tutto questo significa semplicemente quello che in fondo già sapevamo. Cioè, il 6 settembre era solo l’inizio e l’autunno sarà ancora lungo!
Luciano Muhlbauer
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo originale del maxiemendamento al decreto legge n. 138 del 13.08.2011. Per leggere invece il testo del decreto che viene emendato, puoi cliccare qui.
Ci risiamo. Per la terza volta in 36 mesi, il governo Berlusconi-Lega tenta di mettere il bavaglio alla rete e di limitare pesantemente la libertà di espressione e di critica sui blog e sui social network. E questa volta bisogna stare molto attenti, perché Berlusconi e il suo governo si sentono in un angolo e, quindi, qualche colpo di mano, al fine di garantire impunità e silenzio, è più che possibile. Anche in tempi brevi, visto che un voto in Parlamento potrebbe essere forzato a giorni da parte della maggioranza.
La prima volta ci tentarono nei primi mesi del 2009, ai tempi della discussione sul cosiddetto “pacchetto sicurezza”, accogliendo l’emendamento ammazza blog del sen. D’Alia dell’Udc… Allora ci fu una mezza rivolta in rete e l’emendamento venne alla fine cestinato.
Il secondo tentativo risale all’estate di un anno fa, quando la destra tentò di far approvare la cosiddetta legge-bavaglio, finalizzata ad impedire che Berlusconi e i suoi amici venissero intercettati. Ma visto che c’erano avevano inserito anche un apposito comma, secondo il quale qualsiasi “sito informatico”, cioè anche un blog come questo o un pagina di un social network, dovesse pubblicare dei contenuti che danno fastidio a qualcuno, è a rischio richieste di rettifiche entro 48 ore, pena pesanti multe o peggio. Anche quella volta l’operazione non andò in porto, perché vi fu una grande mobilitazione nel paese contro quella legge e perché nella destra iniziarono gli scricchiolii finiani.
Ora, appunto, ci riprovano, con lo stesso testo di legge stoppato in parlamento un anno fa. Ovviamente, a Berlusconi e ai suoi interessano soprattutto le intercettazioni, ma non per questo si sono dimenticati del resto e, quindi, è rimasto anche il famigerato comma 29.
Essendo il ddl uguale a quello di un anno fa, rinviamo a quanto da noi scritto allora e ci limitiamo a riportare in calce il testo completo del comma 29, che pensiamo sia abbastanza chiaro.
Ma soprattutto, stando così le cose, invitiamo tutti e tutte a non distrarsi e a prestare massima attenzione a quello che succede nei prossimi giorni. E, ovviamente, a sostenere tutte le iniziative, nelle piazze e nelle rete, finalizzate ad impedire che questo insulto alla libertà possa diventare legge.
di Luciano Muhlbauer
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La norma ammazza blog del ddl intercettazionI:
Art. 1, comma 29. All’articolo 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il terzo comma e` inserito il seguente:
«Per le trasmissioni radiofoniche o televisive, le dichiarazioni o le rettifiche sono effettuate
ai sensi dell’articolo 32 del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177. Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono.»;
b) al quarto comma, dopo le parole: «devono essere pubblicate» sono inserite le seguenti: «, senza commento,»;
c) dopo il quarto comma e` inserito il seguente:
«Per la stampa non periodica l’autore dello scritto, ovvero i soggetti di cui all’articolo 57-bis del codice penale, provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, la proprie cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto di rilievo penale. La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata, entro sette giorni dalla richiesta, con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata.»;
d) al quinto comma, le parole: «trascorso il termine di cui al secondo e terzo comma» sono sostituite dalle seguenti: «trascorso il termine di cui al secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, e sesto comma» e le parole: «in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo e quarto comma» sono sostituite dalle seguenti: «in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo, quarto, per quanto riguarda i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, quinto e sesto comma»;
e) dopo il quinto comma e` inserito il seguente:
«Della stessa procedura può avvalersi l’autore dell’offesa, qualora il direttore responsabile
del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva, o delle trasmissioni informatiche o telematiche, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, non pubblichino la smentita o la rettifica richiesta».
In queste ore tutti parlano del governo che se ne va e di quello che viene. Comprensibile e giustissimo, ma c’è il rischio che poi non si dia il giusto peso alla Legge di Stabilità, comprensiva del famoso “maxiemendamento” dell’ultima ora, approvata ieri dal Senato ed oggi, in via definitiva, dalla Camera dei Deputati.
Ebbene, sarebbe un grave errore non occuparsi con la sufficiente attenzione di questa legge, perché si tratta di quella che una volta si chiamava “Finanziaria” e arriva dopo soli pochi mesi dal varo delle “misure urgenti” economiche e finanziarie di ferragosto (vedi decreto-legge n. 138 del 13 agosto 2011).
Non è nostra intenzione e pretesa riassumere o spiegare in dettaglio il contenuto delle “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2012)”, poiché in rete sono sin d’ora reperibili riassunti giornalistici e nei prossimi giorni si troveranno anche i commenti ed approfondimenti. No, molto più semplicemente, poiché carta canta, specie quando parliamo di leggi, mettiamo a disposizione il testo originale, completo e definitivo, comprensivo dunque degli emendamenti.
Per scaricarlo, clicca sull’icona qui sotto.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 17 novembre 2011
Il Governo Berlusconi non c’è più. Il caimano si è dimesso, consumato da un inglorioso autunno del patriarca e sempre più isolato. Era nell’aria sin dai tempi della rottura con Fini ed era diventato quasi una certezza con la splendida primavera dei sindaci e dei referendum. Ora finalmente è accaduto e quindi facciamo bene, noi di sinistra, ad esultare e sentirci sollevati.
Eppure, c’è un “ma” che pesa, perché dopo anni di lotte, speranze, delusioni, traversate del deserto ed indignazioni, alla fine non siamo stati noi a dargli la spallata. Nessun 14 dicembre, primavera democratica o 15 ottobre l’hanno mandato a casa. No, l’hanno fatto i “mercati finanziari” o meglio, visto che la mano invisibile esiste solo nelle favole, quei soggetti che dispongono dei mezzi finanziari per agire e per orientare.
E attenzione, non si tratta di una quisquilia, poiché quella dei protagonisti del cambiamento è questione decisiva. Altrimenti, per scomodare altre epoche storiche, perché nell’aprile 1945 il capo delle forze alleate in Italia avrebbe chiesto ai partigiani di stare fermi in attesa che le sue truppe liberassero il nord del paese e perché il CLN avrebbe invece deciso l’esatto contrario, dando l’ordine per l’insurrezione popolare?
In altre parole, il modo in cui si esce dal disastro berlusconiano è dirimente. E da questo punto di vista faremmo molto bene, noi di sinistra, a toglierci dalla testa che la fine di Berlusconi significhi di per sé l’avvento di un’Italia migliore. A maggior ragione nelle condizioni date, cioè nel bel mezzo della più micidiale crisi economica, sociale e politica che l’Europa abbia vissuto dagli anni Trenta del secolo scorso.
Ebbene sì, perché il punto è questo: ci stiamo liberando dall’anomalia italiana, per ritrovarci di colpo nella normalità della crisi europea. C’eravamo anche prima, ovviamente, ma forse il berlusconismo ci aveva un po’ annebbiato la vista. E così, come logica conseguenza dell’incapacità dell’opposizione sociale e politica di buttare giù il sultano e di avanzare una proposta politica alternativa, ci scopriamo ora destinatari di ordini di servizio alla pari di Spagna, Portogallo o Irlanda e commissariati come la Grecia.
In questi giorni Mario Monti gode di grande credito pubblico, un po’ per il legittimo sollievo di non avere più come presidente del consiglioBerlusconi, un po’ perché molti vedono in lui un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Tutto questo è comprensibile, ma non ci esime certo dal guardare oltre il momento e l’apparenza.
Mario Monti, come il nuovo primo ministro greco, Lucas Papademos, è espressione diretta dell’establishment finanziario internazionale. Papademos era governatore della banca centrale greca e vicepresidente della Bce fino all’anno scorso. L’ex commissario europeo Monti è advisor della potente banca d’affari “Goldman Sachs” e ricopre ruoli di primo piano nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg. Beninteso, qui non è questione di complotti, ma molto più banalmente di prendere atto che oggi i circoli e le istituzioni del finanzcapitalismo (per usare la definizione di Gallino) hanno deciso di intervenire direttamente nella gestione politica degli Stati.
In questa dinamica, ad essere sconfitta e sottomessa non è tanto la politica intesa come ceto o partiti, bensì la democrazia, intesa come possibilità delle classi popolari di poter partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Infatti, nelle lettere della Bce all’Italia o nello scandalo ufficiale di fronte all’ipotesi di referendum in Grecia ritroviamo la medesima insofferenza nei confronti della democrazia che abbiamo già visto all’opera a Pomigliano, Mirafiori o Grugliasco.
Insomma, delle pessime premesse per il futuro, dove in gioco non è il ricambio dei governanti, bensì la ridefinizione del sistema politico, sociale ed istituzionale. Cioè, la “terza repubblica” e il modello sociale.
Ecco perché non dobbiamo, noi di sinistra, stare nel recinto della Grosse Koalition a sostegno di un governo per nulla tecnico, il cui programma è stato scritto dalle istituzioni finanziarie. Non per ideologia, ma per realismo. E non per sbraitare a bordo campo, bensì per rientrare in gioco e costruire e organizzare un punto di vista alternativo, a partire dal lavoro, possibilmente con spirito unitario e insieme a movimenti e forze degli altri paesi europei. Altrimenti, anche le elezioni, quando finalmente arriveranno, serviranno a ben poco.
Oggi, alla Camera dei Deputati, inizia il suo iter uno dei provvedimenti simbolo delle politiche europee in tempi di austerity: l’introduzione nella Costituzione italiana dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Si tratta di una norma in discussione in molti paesi europei e negli Usa, ma finora è stata approvata soltanto in Spagna. Ed è una norma pesante in tutti i sensi, anche se spesso sottovalutata dal dibattito pubblico, poiché i suoi effetti devastanti, in termini di smantellamento del welfare, saranno misurabili soltanto nel tempo.
Vi consigliamo pertanto di leggere attentamente la proposta che oggi inizia il suo complesso percorso, trattandosi di una modifica della Costituzione (articoli 81, 100, 117 e 119), e che dovrebbe entrare pienamente in vigore nel 2014. Si tratta della proposta di legge costituzionale “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, frutto dell’unificazione delle diverse proposte in materia già presentati, sia dal centrodestra, che dal centrosinistra (il testo unificato lo puoi trovare in allegato).
In estrema sintesi, si prevede l’introduzione del principio del pareggio non soltanto per il bilancio dello Stato, ma anche per quelli delle Regioni e degli enti locali. Inoltre, vi è un richiamo esplicito ai “vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea” e questo significa una sorta di costituzionalizzazione dei trattati europei, a partire da quello di Maastricht, con tutto ciò che questo comporta.
Infine, segnaliamo che, sebbene il testo in discussione preveda che la funzione di controllo venga esercitata dalla Corte dei Conti (vedi art. 2 della proposta di legge costituzionale), il nuovo Presidente del Consiglio, Mario Monti, nel suo intervento al Senato del 17 novembre scorso, ha invece evocato la necessità di affidare tale funzione “ad autorità indipendenti”. In altre parole, non possiamo escludere che nel corso del dibattito venga presentato un emendamento che assegni ad un soggetto non pubblico, ma privato il potere di sindacare le decisioni del Parlamento in materia di bilancio…
Insomma, buona lettura!
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il Testo unificato della proposta di legge costituzionale sul pareggio di bilancio del 10 novembre 2011
È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (GU n. 19 del 24.01.2012 – Suppl. Ordinario n. 18) ed è entrato in vigore, il 24 gennaio 2012, il cosiddetto “decreto liberalizzazioni”, varato dal Governo Monti settimana scorsa, ma il cui testo definitivo era finora un piccolo mistero.
La sua denominazione formale è: Decreto-Legge 24 gennaio 2012, n. 1 - “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”.
Ora il Parlamento ha complessivamente 60 giorni per convertirlo in legge, con o senza modifiche.
Rispetto alle bozze di decreto circolate in rete fino alla vigilia della pubblicazione, le modifiche sembrano essere poche e, comunque, non toccare alcuni degli aspetti più pesanti e negativi, come l’accelerazione della privatizzazione dei servizi pubblici locali o l’abolizione del contratto nazionale nelle ferrovie (art. 37).
Cliccando sull’icona qui sotto, invece, puoi scaricare sia l’articolato, che la relazione del decreto-legge in formato pdf.
Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua il 13 aprile 2012
Avreste mai pensato che si potesse commissariare, oltre il presente, anche il futuro delle persone e dei popoli, magari per il tempo di una o più generazioni? E che si potesse farlo nel silenzio generale, senza dibattito pubblico e senza nemmeno consentire ai diretti interessati di esprimere un parere? No? E allora siete indubbiamente degli inguaribili ottimisti, perché non solo è possibile, ma è esattamente quello che sta succedendo, qui ed ora.
Infatti, proprio ieri il Senato della Repubblica ha concluso il dibattito generale sull’inserimento nella Carta costituzionale del principio del pareggio di bilancio e, dunque, settimana prossima, salvo emergenze o incidenti, procederà al voto del provvedimento che modificherà gli articoli 81, 97, 117 e 119 della nostra Costituzione. E non si tratta del primo voto, beninteso, ma dell’ultimo, cioè di quello definitivo. E se i senatori faranno come i loro colleghi della Camera dei deputati il 6 marzo scorso, approvando il disegno di legge costituzionale in seconda lettura con una maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti, allora, come stabilisce l’art. 138 della Costituzione, non sarà nemmeno possibile sottoporre la modifica costituzionale a referendum popolare.
Insomma, siamo alla quarta votazione parlamentare dal novembre scorso, eppure gran parte dei cittadini ne sa ben poco. Al massimo qualcuno ricorderà qualche Tg, dove si dicevano cose di buon senso, come “i conti pubblici devono essere in ordine” o “non si può spendere più di quello che si incassa”. Già, perché in assenza di un’informazione corretta e di un dibattito pubblico è difficile cogliere la natura deleteria e devastante di questa modifica costituzionale, che di fatto comporta l’impossibilità di promuovere politiche espansive nei momenti di crisi e recessione, visto che il pareggio di bilancio viene calcolato su base annua e non pluriennale, e il taglio continuo e permanente della spesa sociale. Per non parlare, poi, degli enti locali, i cui bilanci verrebbero sottoposti ai medesimi vincoli e ad un ferreo controllo dall’alto, spingendoli così definitivamente a svendere tutti i loro averi e servizi.
Non a caso, in altri paesi l’ipotesi di inserire in Costituzione il pareggio di bilancio ha provocato un grande dibattito pubblico. Persino il premier britannico, David Cameron, uomo di destra e sostenitore dell’austerity, l’ha criticata, parlando di “proibire Keynes per legge”, mentre negli Stati Uniti sono scesi in campo ben cinque premi Nobel per l’economia, considerandola “estremamente improvvida” e destinata “peggiorare le cose” (vedi Lettera dei premi Nobel). Alla fine, la stessa Amministrazione Obama ha cestinato la proposta, sostenuta invece dai Repubblicani.
Ma appunto, qui da noi non solo mancano l’informazione e il dibattito, ma se il Senato dovesse approvare la modifica costituzionale con una maggioranza dei due terzi, come ahinoi è probabile, nonostante i diversi appelli a non farlo (Prc, rivista Micromega ecc.), non sarà nemmeno possibile far esprime sull’argomento gli elettori e le elettrici. E così, un bel giorno di settimana prossima, gli italiani e le italiane, senza peraltro averci capito un granché, si potrebbero svegliare con il futuro commissariato.
Ma la cosa non finisce qui, poiché l’obbligo del pareggio di bilancio è figlio di un accordo a livello europeo. Anzi, si tratta di un vero e proprio trattato, firmato il 2 marzo scorso da 25 dei 27 Stati membri dell’Unione Europea, ed è conosciuto come “Fiscal compact” o patto fiscale. Insomma, se l’italiano medio sa poco del pareggio di bilancio, del fiscal compact sa praticamente nulla. E non per colpa sua, beninteso, ma perché nessuno si è preoccupato di fornire un minimo di informazione e di trasparenza.
Eppure, quel trattato è un’altra tegolata sulla nostra testa, perché non si limita a stabilire il principio del pareggio di bilancio, ma introduce anche altri vincoli, che chiariscono ulteriormente cosa vuol dire avere il futuro commissariato. Cioè, a partire da un inasprimento dei vincoli di Maastricht, definisce al suo articolo 4 il seguente meccanismo: il debito pubblico va ridotto fino al 60% in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), con un ritmo di un ventesimo all’anno. Tradotto in italiano, visto che da noi il rapporto debito/Pil è del 120%, questo significa prepararsi a delle manovre annue dell’entità di 40-50 miliardi di euro. Beninteso, nelle condizioni date, perché in caso di peggioramento della recessione, come indicherebbero le tendenze in atto, queste cifre sono destinate ad aggravarsi. Altro che “non ci saranno altre manovre”, come ha dichiarato l’altro giorno Monti, ce ne saranno a raffica!
Voi direte, almeno su questo ci chiederanno la nostra opinione? Ma figuriamoci. Primo, perché la nostra Costituzione non consente il referendum in caso di ratifica di trattati internazionali. Secondo, perché vi è un ampio e sconfortante consenso tra i partiti presenti in Parlamento, che aveva salutato la firma del fiscal compact in maniera praticamente unanime.
E così, in Italia –e non solo- rischiamo molto concretamente di fare la fine della Grecia, dove qualsiasi cosa decidessimo di fare o scegliere nelle urne o fuori dalle urne, nella realtà le decisioni saranno già state prese da altri e da altre parti. Insomma, commissariati per decenni e con lo smantellamento del welfare scritto nella Costituzione.
Cioè, una cura antidemocratica, nel senso più autentico della parola, e con tutte le carte in regola per non portare alla guarigione del paziente. Anzi, la costituzionalizzazione di quelle politiche già dimostratesi fallimentari, incentrate unicamente sul pareggio di bilancio e sul rifiuto delle politiche espansive per la crescita e l’occupazione, accontenterà forse la Merkel e la Bce, ma rischia molto concretamente di trascinare a fondo il nostro presente e il nostro futuro.
Ecco perché, sebbene la Grande Coalizione funga da potente anestetico, va fatto di tutto, anche in questi giorni, per esercitare la massima pressione sui Senatori, perché non approvino con una maggioranza dei due terzi la modifica costituzionale, e per far circolare il più possibile l’informazione su quello che sta succedendo.
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare i seguenti documenti:
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il disegno di legge costituzionale “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale”, nella sua versione definitiva sottoposta a voto in Senato;
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il “Fiscal compact” (“Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”), firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012, nella versione originale in lingua inglese.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua il 10 maggio 2012
L’esito delle recenti tornate elettorali in Italia e in Europa permette e, anzi, impone una seria ed urgente riflessione sullo stato di salute delle forze della sinistra, cioè sulla loro capacità di interpretare la crescente ostilità sociale verso le politiche di austerità e di delineare delle alternative convincenti al diktat della finanza e al vuoto di rappresentanza politica degli interessi popolari. E, da questo punto di vista, va premesso subito che la sinistra italiana, intesa come l’insieme di forze che si muovono alla sinistra del Pd, appare allo stato ben lontana da quella greca o da quella francese, registrando invece una situazione di sostanziale stallo. Ma andiamo con ordine.
Primo. Sebbene qui da noi si trattasse di elezioni amministrative parziali, è tuttavia possibile trarne delle valutazioni politiche generali, sia per il numero significativo di elettori interessati (oltre 9 milioni), spalmati sull’intero territorio nazionale, che soprattutto per il particolare momento politico e sociale. In questo senso, vi è un dato di primaria importanza politica: il governo Monti e le sue politiche non dispongono più di una maggioranza politica. Già, perché Monti è certamente una sorta di commissario che risponde anzitutto alla Bce, alla Merkel, ai vertici dell’Ue e ai mercati finanziari, ma i provvedimenti del suo governo hanno pur sempre bisogno di una maggioranza parlamentare che li approvi. E stando alle indicazioni che sono uscite dalle urne, quella maggioranza parlamentare, cioè il famoso “ABC”, non corrisponde alla maggioranza del paese.
Secondo. Se quanto sopra evidenziato pone l’Italia in sintonia con il messaggio proveniente dalle urne francesi, greche ed inglesi, tutto il resto è però diverso. Infatti, seppure nelle forti diversità tra Francia e Grecia, visto che il primo è tra quelli che contano in Europa, mentre il secondo è ridotto a prendere ordini, in ambedue i paesi il crescente dissenso sociale verso le politiche depressive, oltre ad aprire nuovi e preoccupanti spazi alla destra fascista e persino nazista, ha premiato soprattutto le forze di sinistra. In Francia, al primo turno il Front de Gauche di Mélenchon ha ottenuto un significativo 11,1% e al secondo turno è stato eletto Presidente il socialista Hollande. In Grecia, la coalizione di sinistra Syriza, aderente alla Sinistra Europea, con il suo 16.78% è diventato il secondo partito del paese (il primo nell’area di Atene) e l’insieme delle forze alla sinistra del Pasok (Syriza, Kke, Dimar) oltrepassa il 31%.
In Italia, invece, la sinistra non è stata per nulla premiata, se consideriamo il voto di lista e mettiamo per un attimo da parte il discorso sui candidati sindaci in alcune grandi realtà metropolitane (Doria e Orlando, per capirci). Federazione della Sinistra e Sel rimangono sostanzialmente ferme sulle loro posizioni, registrando soltanto una piccola perdita di voti, in termini di voti assoluti, rispetto alle regionali del 2010 (-16% come media nazionale). Si tratta indubbiamente di un risultato di tenuta, ma, appunto, in una situazione di crisi e di tempesta rimanere fermi su dimensioni tutto sommato modeste (2-3% la FdS e 3-4% Sel, sempre come medie nazionali) equivale al rischio concreto di finire nella marginalità e/o subalternità. A questi dati va, inoltre, aggiunto quello certamente non positivo dell’IdV (-58% di voti persi rispetto al 2010), che pur non potendo essere considerato un partito di sinistra tout court, svolge però in questa fase un chiaro ruolo di opposizione di sinistra.
L’unica forza che ha guadagnato voti in termini assoluti, nell’ordine di 200mila, nonostante fosse presente soltanto in 101 dei 941 Comuni che sono andati al voto, e che ha realizzato degli autentici exploit in alcuni Comuni, raccogliendo anche molti voti in uscita dal centrodestra, principalmente dalla Lega, è il Movimento 5 Stelle di Grillo. Tutti gli altri perdono, soprattutto a destra. Sempre in termini di calo di voti assoluti, la situazione rispetto al 2010 è questa: Lega Nord -67%, Pdl -44,8%, Pd -29%, Udc -6,5%.
Insomma, in estrema sintesi il quadro d’insieme pare questo: 1. si intensifica la crisi di credibilità e di legittimità del sistema politico nel suo complesso, come indicano l’aumento dell’astensionismo (affluenza al 66,9%, rispetto al 73,7% del 2007), particolarmente accentuato al Nord (-8,9% in Lombardia, -10,9% in Emilia-Romagna), la frammentazione del quadro politico ben oltre la soglia fisiologica delle elezioni amministrative e la rilevante affermazione del M5S, cioè di quella forza politica percepita come più nuova e più estranea al sistema partitico esistente; 2. l’era della cosiddetta Seconda Repubblica si chiude definitivamente, azzerando di fatto il centrodestra così come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo ventennio ed aprendo quindi una fase di ridefinizione e riorganizzazione a destra, cioè su quel lato che continua ad essere culturalmente egemone nel paese; 3. l’Udc non perde, ma nemmeno guadagna alcunché dalla diaspora dell’elettorato berlusconiano e questo significa che l’ipotesi politica sulla quale era nato il Terzo Polo ne esce disintegrata; 4. anche il Pd perde molti consensi, ma non subisce alcun tracollo e uscirà istituzionalmente rafforzato dal secondo turno delle amministrative, sia rispetto a un centrodestra a pezzi, che rispetto a una sinistra ferma.
Ma per tornare al punto che ci interessa: come mai in Italia la sinistra non è stata percepita come un’alternativa? A me pare che possiamo individuare almeno due ordini di problemi. Uno che possiamo definire di natura “oggettiva” e uno che ha un carattere indubbiamente soggettivo.
Il primo problema mi pare essere che in Italia, diversamente da quello che accade in altri paesi europei, il dissenso, le tensioni sociali e la rabbia, originati dalla recessione e dalla brutalità e iniquità sociale delle politiche anticrisi, tendono ad indirizzarsi quasi esclusivamente contro “i privilegi dei politici”, “la casta”, “i partiti” eccetera.
Beninteso, nulla di strano, vista la diffusa corruzione, il rintanarsi della politica nei giochi di palazzo e negli affarismi e, last but non least, il discredito senza precedenti in cui il berlusconismo ha gettato le istituzioni democratiche, inondandole infine di farabutti, maitresse, cialtroni e leccapiedi. Insomma, per trovare delle analogie nella nostra storia bisognerebbe tornare ai tempi di Caligola e al suo cavallo senatore.
Tutto ciò non basta però come spiegazione, perché altrimenti i greci cosa dovrebbero dire? No, c’è anche un secondo elemento, tutto italiano. Cioè, il livello basso di conflittualità sociale o, meglio, l’ingabbiamento e l'anestetizzazione della conflittualità sociale da parte di un movimento sindacale maggioritario, i cui gruppi dirigenti centrali sono strettamente legati ai partiti che sostengono il governo. E non mi riferisco tanto e soltanto alla Cisl, già molto vicina al governo Berlusconi e disposta persino a collaborare attivamente alla proibizione della libera associazione sindacale nel gruppo Fiat, ma soprattutto alla Cgil, che sembra calibrare le proprie azioni più sulle esigenze di un Pd impegnato a sostenere il governo Monti, che sulla difesa degli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici.
Dite che esagero? Allora guardate al resto dell’Europa e, ad esempio, alle mobilitazioni contro l’innalzamento dell’età pensionabile, promosse da sindacati a volte anche molto meno radicali della Cgil. La riforma delle pensioni in senso peggiorativo l’hanno fatta o tentano di farla un po’ dappertutto, ma quasi ovunque i governi devono confrontarsi con una forte opposizione sindacale e sociale. In Inghilterra lo sciopero del pubblico impiego ha visto adesioni da record, in Francia Sarkozy non è riuscito ad andare oltre l’innalzamento a 62 anni e il neopresidente Hollande, che non è un iscritto Fiom, bensì un socialista europeo, aveva messo nel suo programma elettorale l’impegno a riportare l’età pensionabile a 60 anni.
In Italia, invece, nulla di tutto ciò! Di fronte a una riforma delle pensioni da record (negativo) europeo, che ha portato l’età pensionabile a 67 anni, ridotto ulteriormente il valore delle pensioni da erogare e provocato una vera e propria truffa di Stato ai danni degli esodati, non c’è stata alcuna azione di contrasto degna di nota. A meno che, ovviamente, non si voglia considerare tale le tre ore di sciopero simbolico, delle quali la maggioranza dei lavoratori non era stata nemmeno avvisata. E che dire dell’art. 18? Prima il direttivo Cgil vota pacchetti di ore di sciopero contro la manomissione dell’art. 18, poi il Governo manomette l’art. 18 e, infine, il tutto finisce con un corteo in un giorno festivo, il 2 giugno, insieme a Cisl e Uil, dove si parlerà d’altro.
Comunque sia, tutte queste peculiarità italiane non sono un alibi sufficiente per il risultato elettorale non esaltante delle sinistre, che appunto non crescono, non sfondano e non emergono come alternativa. No, ci sono anche i limiti soggettivi, cioè quelli tutti nostri, tra cui c’è anche quello, ahinoi presente in molta parte delle sinistre, di non aver voluto capire la profondità della crisi di legittimità dell’insieme del sistema dei partiti esistente e, pertanto, di non aver capito nemmeno il M5S, che è sì una forza anti-partiti –e qui sta la sua fortuna elettorale-, ma che non è per nulla espressione della cosiddetta antipolitica. Anzi, nel voto ai “grillini” troviamo una forte richiesta di politica e di cambiamento.
Ma le sinistre non si possono certo limitare ad assumere fino in fondo il tema della democratizzazione e moralizzazione del sistema politico, anche se dovranno/dovremo senz’altro farlo, liberandosi anche di alcune residue pratiche e abitudini che tuttora persistono nel suo perimetro. No, le sinistre hanno il compito prioritario di dare rappresentanza ai soggetti sociali colpiti dalla crisi e dalle politiche anticrisi, di assumere il conflitto sociale come motore del cambiamento, di mettere al centro gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici e il punto di vista del lavoro, in tutte le sue accezioni e declinazioni, e di delineare un programma alternativo per l’uscita dalla crisi economica e democratica. Questo è il compito della sinistra e questo giustifica politicamente e storicamente l’esistenza di una sinistra.
Non ci sono ricette facili su questa strada, ma c’è una cosa da fare prima di tutte le altre e più importante delle altre: costruire un polo di mobilitazione e di opposizione al governo Monti e alle politiche di austerità e promuovere una convergenza tra tutte le forze di sinistra su alcuni punti programmatici di alternativa. Solo così, peraltro, la sinistra politica potrà ambire seriamente ad interloquire con i movimenti sociali e diventare alternativa credibile e convincente.
Ovviamente, in questo quadro, torna anche e inevitabilmente il tema dell’unità. Non è mia intenzione dire e ridire cose già dette, ma i fatti hanno la testa dura e dalle urne di domenica e lunedì è uscito un messaggio netto: l’idea di poter risolvere le divisioni a sinistra mediante la vittoria sul campo di una parte sull’altra si è rivelata un’illusione. Per dirla brutalmente: Sel non ha sfondato e dilagato e la FdS non è sparita. Anzi, in alcuni territori, come ad esempio in provincia di Milano (visto che scrivo da Milano), in queste elezioni vi è stato persino un riequilibrio, con una crescita in termini di voti assoluti dei consensi alla FdS rispetto al 2010, che fa sì che ora Sel e FdS sostanzialmente si equivalgono.
Ho parlato soltanto di Sel e di FdS, per evidenti motivi, ma ovviamente il discorso si può allargare. C’è l’idea di lista civica nazionale del Sindaco di Napoli, De Magistris, c’è Alba (il nuovo soggetto politico, per intenderci), ci sono altre forze solitamente più caute su ipotesi come quelle di cui parliamo qui, come Sinistra Critica, c’è l’IdV, ci sono i movimenti e le associazioni eccetera. Insomma, che nessuno pensi di potere risolvere la questione della sinistra mediante la guerra di uno contro l’altro. Non funziona. E non si può nemmeno aggirare l’ostacolo, magari con qualche accordino in condizioni subalterne con il Pd, che potrà forse portare qualche poltrona, ma non certo dare rilevanza politica alla nostra agenda e ai nostri obiettivi.
Insomma, facciamo di necessità virtù e chissà che non venga fuori qualcosa di buono. Come sempre sta a noi, ma il tempo stringe e la pazienza della nostra gente mi sa che non è più molta.
P.S. i dati sui flussi elettorali citati nell’articolo sono dell’Istituto Carlo Cattaneo e sono disponibili sul loro sito.
La chiamano spending review e magari, en passant, taglierà pure qualche spreco, ma in realtà non è che un altro tassello nel processo di smantellamento dell’assetto sociale, economico e politico del secondo dopoguerra. Già, perché di questo si tratta, in Italia e in tutta Europa, di fare a pezzi il welfare, i servizi pubblici, le regole e i diritti nel mondo del lavoro, per liberare risorse e denaro vero da redistribuire verso i mercati finanziari, drogati da attività finanziarie derivate e fuori bilancio e dominati da una speculazione sostanzialmente libera da vincoli o regole.
Non c’è giorno che l’Europa, la Bce, il Fondo Monetario, il Governo e la sua grande coalizione non ci spieghino che bisogna fare così e senza discutere troppo, perché altrimenti lo spread vola e finiamo come la Grecia. Qualche volta capita pure che ci raccontino delle balle clamorose, come nel caso della truffa ai danni degli esodati oppure in quello della nuova assicurazione sociale (Aspi), contenuta nella riforma del mercato del lavoro e presentata da alcuni come un’estensione delle tutele, salvo poi chiedere il rinvio della sua entrata in vigore al 2014, perché “i nuovi ammortizzatori forniscono una tutela inferiore rispetto ai vecchi” (parole di Cesare Damiano, uno dei relatori della riforma Fornero, oggi su il Manifesto).
Insomma, la stessa storia che ora si ripete con la spending review, esibita come un’operazione di semplice razionalizzazione della spesa. Una mistificazione bella e buona, come peraltro l’aggiunta “con invarianza dei servizi ai cittadini” al titolo del decreto legge, poiché sarebbe un autentico miracolo mantenere la qualità e la quantità dei servizi in presenza di tagli così drastici e in larga parte lineari ed orizzontali.
Infatti, le Regioni ed i Comuni, che non hanno ancora finito di assorbire i tagli delle manovre precedenti, subiranno un ulteriore taglio dei trasferimenti di 7,5 mld di euro tra il 2012 e il 2013, con conseguenze inevitabili sui servizi, a partire dal trasporto pubblico locale, già ora gravemente deficitario. Saranno tagliati ancora una volta i fondi per la ricerca, mentre gli atenei potranno aumentare le tasse universitarie. Pesantissimo è l’intervento sulla Sanità, con la riduzione forzata di 18mila posti letto, per raggiungere il nuovo standard di 3,7 posti letto per ogni 1000 abitanti. Per capire meglio cosa significa questo, basti ricordare che attualmente siamo a 4,1 come media nazionale e che ad oggi soltanto quattro Regioni (Basilicata, Campania, Valle d’Aosta e Umbria) hanno un rapporto inferiore a 3,7. In altre parole, se oggi le liste d’attesa per un ricovero sono lunghe, domani si allungheranno ancora di più.
Un discorso a parte va fatto sul pubblico impiego, dove l’intervento è dirompente, soprattutto in prospettiva, e si cerca di capitalizzare anni di propaganda contro i lavoratori pubblici, presentati in toto come fannulloni e privilegiati, magari pure in una di quelle versioni caricaturali che ignorano deliberatamente l’odierna realtà lavorativa per insistere, invece, su un racconto immaginario ambientato in un film in bianco e nero. Insomma, il solito gioco, giovani contro vecchi, precari contro fissi, italiani contro immigrati, dipendenti privati contro dipendenti pubblici e alla fine tutti quanti cornuti e mazziati.
In primo luogo, i dipendenti pubblici subiranno una riduzione dello stipendio. E non solo per effetto della proroga del blocco degli stipendi, in atto già da anni, ma anche a causa della norma che prevede che i buoni pasto (l’indennità sostitutiva di mensa), sempre più spesso usati per fare la spesa, non possano superare il valore di 7 euro al giorno. E questo significa che laddove è superiore, per esempio 10 euro, questo vada ridotto d’ufficio a partire da ottobre.
In secondo luogo, dopo la manomissione dell’articolo 18, che peraltro vale anche per i dipendenti pubblici, arrivano gli esuberi e la mobilità nel pubblico impiego, con la riduzione del 10% del personale (esclusi alcuni comparti, come scuola o sicurezza), ai quali va aggiunta la riduzione del 20% dei dirigenti. Secondo la relazione tecnica del decreto legge stiamo parlando di 24mila esuberi tra il personale (escluse le Regioni), di cui soltanto 8mila avrebbero i requisiti per il prepensionamento. Per gli altri c’è la mobilità, cioè l’applicazione di quel famigerato art. 16 della legge stabilità (L. 183/2011) del Governo Berlusconi-Lega, che introduce la mobilità per i dipendenti pubblici: “collocamento in disponibilità” per un massimo di 24 mesi, all’80% dello stipendio base, che poi significa il 60% circa dello stipendio effettivamente percepito, e se in quel periodo di tempo non c’è ricollocazione scatta il licenziamento.
Forse il numero di 24mila andrà ridimensionato, perché il decreto legge parla di dotazioni organiche, che spesso volte non sono più coperte da tempo, a causa dei ripetuti blocchi delle assunzioni degli ultimi anni, ma il vero fatto dirompente sta nell’apertura di una diga, cioè dell’applicazione della mobilità per licenziamenti collettivi anche nella pubblica amministrazione. Per esempio, cosa succederà con i dipendenti delle Province nella misura in cui queste verranno smantellate o accorpate?
Ma fermiamoci qui con la spending review. Vi invito a leggere il testo del decreto legge e la relativa relazione tecnica (vedi allegato) e a seguire gli approfondimenti tecnici proposti da numerosi siti.
Un’ultima cosa, però, ma non certo meno importante, anzi. Come avevamo detto, ci raccontano che bisogna fare così, che non c’è alternativa, ma poi mai nessuno si degna di dire dove intende andare a parare, cioè cosa verrà dopo, che società uscirà da questa devastazione del vecchio ordine.
Il dubbio legittimo è che non lo sappiano bene nemmeno loro e che siano sorretti anzitutto dall’ideologia, da una fede cieca e granitica nei dogmi del neoliberismo, esattamente come lo furono quei “tecnici” del Fondo Monetario che un decennio fa spinsero l’Argentina alla bancarotta o quelli che ancora prima enunciarono le ricette della globalizzazione liberista e della liberalizzazione dei mercati finanziari. Cioè, quelle ricette che prima portarono all’arricchimento senza precedenti di una piccolo minoranza e, infine, all’attuale devastante crisi di sistema.
E rieccoci al punto di sempre. La manovra denominata “revisione della spesa” è sbagliata e dannosa e bisogna costruire l’opposizione e il contrasto, ma temo che rischiamo di rivivere un film già visto. Prima tutti gridano allo sciopero, col tempo si abbassa un po’ la voce e alla fine non succede più niente, magari con il contorno di qualche balla clamorosa. Insomma, non c’è opposizione reale possibile a questi provvedimenti, senza una rottura con l’impianto ideologico e strategico che li genera e senza la costruzione di un’alternativa. Questo mi pare il tema di fondo, che è poi quello della sinistra in questo paese…
di Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo della spending review, cioè il decreto legge n. 95 del 6 luglio 2012 (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”), la Relazione tecnica che l’accompagna e il testo dell’art. 16 della legge di stabilità (L. 183/2011)
Ieri il Senato ha approvato la ratifica del fiscal compact, ma oggi faticherete terribilmente a trovare la notizia su qualche organo d’informazione. Anzi, c’è silenzio totale, quasi fossimo tornati ai tempi bui della diplomazia segreta. Invece è peggio, perché di segreto non c’era proprio nulla, visto che il Senato ha agito alla luce del sole e ha regolarmente votato ed approvato, peraltro a stragrande maggioranza (presenti: 266; votanti 261; favorevoli: 216; contrari: 24; astenuti: 21), ma poi nessuno ha voluto raccontarlo ai diretti interessati, cioè ai cittadini e alle cittadine.
Senatori, capi e colonnelli dei partiti di maggioranza, opinion makers, giornalisti eccetera, solitamente loquaci all’inverosimile, questa volta hanno scelto in massa di parlare d’altro, come se si trattasse di un fatto irrilevante o di un banale adempimento burocratico e non di un vero proprio commissariamento del futuro, che imporrà all’Italia delle manovre annue dell’entità di 40-50 miliardi di euro, cioè praticamente di doppio della spending review.
Non a caso il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, come si chiama per esteso il fiscal compact, negli altri paesi europei aveva suscitato intensi dibattiti pubbliche, in Francia era entrato con forza nella recente campagna elettorale per le presidenziali e in Irlanda hanno fatto persino un referendum. Qui da noi, invece, la guerra di Mario Monti sembra avere il potere di anestetizzare persino un minimo di informazione decente.
Ebbene, non voglio farla più lunga. Questo vuole essere semplicemente un atto di insubordinazione alla consegna del silenzio e vi invito a fare altrettanto, perché tra una settimana o due voterà anche alla Camera dei Deputati. Poi, dovremo anche decidere che fare rispetto al fiscal compact, ma intanto non collaboriamo con il silenzio.
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il DDL di ratifica ed esecuzione del trattato fiscal compact e la legge di autorizzazione alla ratifica approvata il 12 luglio 2012.
Luciano Muhlbauer
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