Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il presidente Formigoni si è vantato con la stampa di aver ridotto il personale dell’amministrazione regionale da oltre 4.000 a 3.000 unità. Peccato però che si dimentichi di dire che questi lavoratori “mancanti” continuino ad essere pagati dal contribuente lombardo.
Infatti si tratta di centinaia di lavoratori dei Centri di formazione professionale passati dalla Regione alle Province, di un altro nutrito gruppo di lavoratori trasferiti dal Pirellone all’ARPA - ente strumentale di Regione Lombardia - e di molti lavoratori precari dipendenti di varie cooperative che lavorano direttamente per l’amministrazione regionale.
Insomma, non di riduzione di personale si tratta bensì di trasferimenti e di esternalizzazioni.
Invece di fare il gioco delle tre carte sul numero dei dipendenti, Formigoni farebbe meglio a spiegare ai cittadini lombardi quanti soldi pubblici spende il sistema regionale lombardo per le consulenze e per le iniziative di comunicazione del Presidente.
Inoltre dovrebbe ricordarsi che alla fine del 2005 è stato aumentato il livello massimo di retribuzione per i direttori centrali della Regione che prima era fissato al “misero” livello di dirigente generale di ASL. Oppure potrebbe ricordare che il bilancio regionale ha stanziato mezzo miliardo di euro per il nuovo palazzo di vetro della Regione, contestualmente alla riduzione del 75% delle spese per la manutenzione e la costruzione di case popolari.
E’ davvero irritante che un argomento serio come quello del costo della politica venga ridotto a puro terreno di demagogia da parte del Presidente della più importante regione italiana.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 7 giugno 2007 (pag. Milano)
Che il cosiddetto buono scuola della Regione Lombardia fosse un truffaldino finanziamento pubblico della scuola privata lo sapevamo già. Ce l’hanno confermato ancora una volta i dati relativi ai 43 milioni di euro erogati per l’anno scolastico 2005/2006, visto che il 99,14% è andato a famiglie i cui figli frequentano istituti privati e che il 63% dei beneficiari dichiarano al fisco un reddito tra 35 e 180mila euro annui.
Ma quanto successo ora con il bando per il buono scuola 2006/2007, scaduto il 31 maggio scorso, aggiunge al danno anche la beffa. Infatti, gli uffici regionali avevano inviato a tutte le scuole lombarde una circolare che le invitava a “informare le famiglie” della possibilità di richiedere il buono. E così, molti genitori della scuola pubblica si erano collegati con il sito della Regione per compilare la domanda on line –unica modalità consentita-, salvo poi scoprire che ciò non era possibile, perché il software rifiutava l’inserimento di dati relativi agli istituti pubblici. Chi poi non si arrendeva e chiamava il numero verde della Regione, si sentiva rispondere che il buono scuola valeva soltanto per scuole private.
In altre parole, le famiglie di quel 90% di ragazzi lombardi che frequentano la scuola pubblica non solo vengono escluse de facto al momento dell’assegnazione, ma ora vengono pure prese in giro.
Evidentemente, il Presidente Formigoni è talmente impegnato a promuovere il suo anticostituzionale progetto di ridisegno regionalista dell’istruzione e della formazione professionale, che si è dimenticato addirittura di salvaguardare le apparenze. Ebbene sì, perché escludere preventivamente i genitori delle scuole pubbliche dall’accesso al buono scuola non costituisce soltanto una violazione della legge nazionale, ma anche di quella regionale che aveva istituito i buoni scuola. Infatti, la legge regionale n. 1/2000 afferma espressamente che destinatari del sussidio sono le famiglie degli allievi delle “scuole elementari, medie e superiori statali e non statali, paritarie, legalmente riconosciute, e parificate”.
Il buono scuola di Formigoni si è sempre mosso sull’estremo confine della legge, che appunto vieta il finanziamento esclusivo della scuola privata, ma ora è stato decisamente oltrepassato il limite. Per questo abbiamo depositato un’interpellanza, sollecitando immediati chiarimenti e sollevando la questione di legittimità del bando 2006/2007.
Infine, chiediamo ancora una volta che venga posta fine allo scandalo del buono scuola lombardo e che si usino, invece, i fondi pubblici per sostenere il diritto allo studio degli studenti di tutte le scuole lombarde, a partire da quelli in condizioni economiche svantaggiate”.
qui puoi scaricare il testo dell’interpellanza
Mentre Penati, al pari di altri esponenti lombardi del Partito Democratico, civetta con le proposte politiche del centrodestra, arrivando persino a ipotizzare alleanze variabili, in Regione Formigoni prima ringrazia e poi prende a pesci in faccia proprio Ds e Margherita. Questo, in sintesi, è quanto successo stamattina in Consiglio Regionale.
Infatti, nella VII Commissione è in discussione il progetto di legge regionale della Giunta Formigoni che intende riformare in senso autonomistico e privatistico tutto il sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Ebbene, dopo settimane di intenso confronto e dopo aver ignorato preventivamente la proposta di Rifondazione, oggi anche le accomodanti richieste di modifica del Partito Democratico sono state liquidate in un batter d’occhio.
L’obiettivo del centrodestra è concludere nel più breve tempo possibile l’iter istituzionale, per arrivare a una seduta del Consiglio da tenersi a fine luglio e approvare a colpi di maggioranza il progetto di riforma, prima della riapertura delle scuole a settembre. Così, alla faccia del cosiddetto dialogo sociale, anche le audizioni con 90 soggetti - istituzionali, sindacali e dei genitori - interessati al mondo della scuola devono essere ridotte a una farsa da esaurirsi in tre sole giornate.
E non importa nemmeno se quella legge regionale, qualora approvata così com’è, sarà obbligatoriamente impugnata dal Governo, viste le palesi violazioni della legge nazionale e della stessa Costituzione. Anzi, meglio così, perché in quel caso Formigoni potrà annunciare in pompa magna: vedete, il centrosinistra non capisce il Nord! Dall’altra parte, non è certo un caso che Regione Lombardia, pochi giorni dopo il primo turno delle amministrative, abbia fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro l’articolo 13 del Decreto Bersani, che stabilisce che gli istituti tecnico-professionali fanno parte del sistema di istruzione nazionale.
Ci pare che il gioco di Formigoni sia trasparente e prevedibile. Si tratta non soltanto di promuovere la Riforma Moratti in salsa padana, ma soprattutto di arrivare a tutti i costi a un conflitto frontale con il Governo, specie dopo i pessimi risultati elettorali dei partiti dell’Unione. Tutto questo è comprensibile e logico, ma ciò che proprio non si capisce è perché si debba dargli una mano.
La strategia del Partito Democratico di rincorrere le destre, che in Regione ha significato dialogare con Formigoni e sacrificare l’Unione, ha oggi dimostrato tutta la sua pericolosa inconsistenza. Auspichiamo quindi che non si voglia insistere oltre e che da domani si possa cominciare a costruire l’opposizione unitaria all’attacco di Formigoni alla scuola pubblica e laica.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 13 giugno 2007
Quanto avvenuto sabato scorso a Roma, con le decine di migliaia di persone al corteo no war e la contemporanea desolazione di Piazza del Popolo, è la materializzazione del messaggio che le urne delle elezioni amministrative avevano recapitato appena due settimane prima. Cioè, dopo un anno di governo Prodi le sinistre, e in particolare Rifondazione, non solo appaiono logorate, ma ormai non più comprese da larga parte della propria gente.
Non è semplicemente questione di qualche errore “tattico”, come quello di non aver partecipato al corteo, quando persino i tuoi militanti e iscritti scartano in massa l’opzione Piazza del Popolo, scegliendo tra l’andare al corteo o il rimanere a casa. E non è questione di qualche temporaneo disimpegno quando alle elezioni amministrative l’astensionismo ti punisce così duramente. No, è l’esplicitarsi che la cosiddetta crisi della politica è, oggi e qui, anzitutto crisi della sinistra.
Non bisogna mai banalizzare le questioni complesse, ma forse aveva ragione Ritanna Armeni quando scriveva che il problema della sinistra è che “non fa quello che dice”. Troppo grande è, infatti, la distanza tra le aspettative e le domande sociali evocate un anno fa e la realtà concreta dell’azione di governo. Certo, ci sono i rapporti di forza, i numeri risicati al Senato, una destra aggressiva e incombente eccetera, ma tutto questo alla fine conta poco, perché una persona “normale”, che sia pacifista, lavoratore, pensionato o gay, ti giudica in base ai fatti e allo stato delle sue condizioni di vita. E da questo punto di vista il primo anno di governo, di cui le sinistre sono appunto parte, è stato un autentico disastro.
La parte moderata del centrosinistra una risposta l’ha trovata, attraversando il Rubicone con quel Partito Democratico che archivia definitivamente ogni orizzonte alternativo all’esistente e che finisce per assomigliare all’avversario. Un progetto politico nefasto, senz’altro, che forse non funzionerà nemmeno, ma che nel frattempo contribuisce a spostare a destra l’intero asse della politica. Basta guardare a quello che succede in Lombardia, che lungi dall’essere una realtà separata, è piuttosto anticipatore di processi più ampi. Da qui partì tangentopoli che diede il colpo di grazia al regime democristiano e qui nacque la nuova destra, dalla Lega a Berlusconi. Ed è qui che i fautori del Partito Democratico si esprimono senza remore, dall’attacco in stile Sarkozy alla cultura del 68 fino all’annuncio esplicito di un cambiamento delle alleanze politiche.
Una sinistra e una Rifondazione, da una parte, sotto il fuoco “amico” del Partito Democratico e prigioniere di un’azione di governo talmente insipida che il famoso programma dell’Unione sembra un pamphlet massimalista e, dall’altra, in piena crisi di rapporto non solo con i movimenti, ma anche con i propri referenti sociali. Insomma, cornuti e mazziati.
In una situazione del genere, la cosa più sbagliata che si possa fare è minimizzare e non affrontare il problema di petto. Oggi è aperta la questione della sinistra, della sua proposta politica, della sua pratica e delle sue prospettive. E, francamente, non è sufficiente immaginarsi confederazioni, nuovi soggetti unitari o sinistre europee. Beninteso, non c’è dubbio che ci voglia unità, ma questa non può esaurirsi in convegni o assemblaggi di gruppi dirigenti. Anche qui, il nodo è sempre il medesimo, cioè quello del legame con i movimenti sociali ed i ceti popolari, con i loro bisogni e il loro stato animo, senza il quale qualsiasi sinistra è destinata alla marginalità e/o alla subalternità.
L’urgenza sta nel riconquistare la credibilità perduta, rimettendo in comunicazione tra di loro il dire e il fare, e questo implica anzitutto ritornare nella società e praticare il conflitto, ma anche cambiare radicalmente registro nei confronti del governo. Certo, sappiamo bene che aleggia il fantasma del 98, ma oggi la situazione è ben diversa e andando avanti di questo passo il pullman che raggiungerà Roma non dirà “non fate cadere il governo”, bensì “tornate a casa tutti”.
Ancora uno sgombero di una baraccopoli rom, questa volta a Chiaravalle, e ancora una volta esponenti istituzionali di primo piano del centrodestra esultano in coro. Beninteso, le famiglie rom “allontanate” non sono sparite e supponiamo debbano insediarsi in qualche altro spazio abbandonato e abusivo. E così, il “gioco” della caccia allo zingaro potrà ricominciare da capo.
Infatti, il Comune non ha offerto soluzioni alternative, salvo che alle donne e ai minori, ma com’è ovvio la politica della divisione dei nuclei familiari non funziona, né potrebbe funzionare. In cambio, come il vicesindaco De Corato sottolinea con orgoglio, i sette cuccioli di cane trovati nel campo sono stati sistemati tutti nel canile municipale. Tutto bene, insomma, agli animali la magnanima accoglienza del Comune e agli esseri umani la strada. Non ci potrebbe essere fotografia migliore del grado di involuzione raggiunto dalla vita politica e istituzionale nella prosperosa Milano.
Evidentemente, di risolvere il problema delle baraccopoli e del degrado non gliene frega niente a nessuno. Anzi, fa molto più comodo avere insediamenti rom sparsi in giro, nel più totale abbandono, perché permettono di costruire periodicamente tante belle campagne politiche, assolutamente paganti sul piano elettorale. E’ successo anche a Rho, dove nelle ultime elezioni la Lega ha moltiplicato i suoi voti grazie alla propaganda d’odio e alle promesse di cacciare i rom. Tuttavia, una volta centrato l’obiettivo politico, il neosindaco del centrodestra rhodense ha chiarito immediatamente che lui non intende assolutamente smantellare il campo nomadi.
Chiaravalle sarà presto dimenticato perché arriveranno altri sgomberi. Anzi, si moltiplicheranno all’infinito, specie ora che anche Penati ha deciso di partecipare al “gioco”. E allora, dagli addosso al rom, al clandestino e all’immigrato, tutto quanto con la benedizione del Partito Democratico del Nord e del Patto per Milano Sicura firmato dal Ministro Amato.
La conclusione di tutto questo è prevedibile e per nulla edificante. Le destre continueranno ad accumulare consensi e soprattutto a estendere la loro egemonia culturale, la sinistra moderata si cullerà nell’illusione di poter riconquistare potere istituzionale e rimedierà forse qualche inciucio con Forza Italia e, perché no, con la Lega. La città e i suoi cittadini, invece, dovranno rassegnarsi a un futuro di degrado e precarietà, ben condito con tante videocamere di sorveglianza, migliaia di poliziotti e, quando serve, anche con le transenne contro la birra e i bonghi.
Una prospettiva tutt’altro che rosea. Ora sta alle forze della sinistra, politica e sociale, assumersi le proprie responsabilità e uscire dal torpore e dalla rassegnazione. Questa è la vera scommessa, se non vogliamo morire tutti quanti leghisti.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 20 giugno 2007
La sicurezza non è né di destra, né di sinistra, tuona sempre più ossessivo il ritornello. E così il tema forte delle destre italiane ed europee trova adepti anche dalle parti del centrosinistra. Quanto la questione sia seria lo dimostrano la rapida diffusione di quei Patti per la Sicurezza tra Ministero degli Interni e grandi Comuni, nati sull’onda delle campagne demagogiche di lady Moratti, oppure la velocità con la quale il sindaco diessino di Roma ha anticipato le destre, imitando lo squallido gioco della caccia allo zingaro, tanto in voga nella pianura padana.
Un osservatore indipendente potrebbe cogliere un paradosso in tutto questo. Cioè, mentre tutti i numeri confermano che non vi è nessuna esplosione di reati, mezzo mondo grida invece all’emergenza criminalità, specie se micro. Ma qui non stiamo parlando di scienza o di filosofia, bensì di politica e, da questo punto di vista, il paradosso è forse meno incomprensibile.
Viviamo in società urbane profondamente segnate da decenni di privatizzazioni, di deregolamentazioni e di riduzione del welfare e delle tutele pubbliche. Sono saltati sistemi relazionali e identità collettive, le disuguaglianze sociali sono aumentate e la cosiddetta globalizzazione ha spostato i luoghi decisionali in posti inafferrabili e inaccessibili. Oggi, un abitante di una città come Milano vive una solitudine tremenda e le istituzioni e la politica appaiono sempre più ininfluenti rispetto alle sue condizioni di vita.
Tutto questo le destre l’hanno compreso benissimo e a questo cittadino moderno, esposto a precarietà e incertezze di ogni genere, offrono una risposta semplice ed efficace: il tuo nemico è quello della porta accanto, soprattutto se diverso da te. E così, chi non riesce ad accedere alla casa popolare se la prende con il marocchino a cui è stato assegnato un alloggio e non con quella politica che ha deciso di non costruirne più, la vecchietta costretta a lunghe file nell’Asl si arrabbia con il senegalese davanti a lei e non con quei governi regionali che pensano soltanto alla sanità privata e il residente del quartiere popolare attribuisce la responsabilità di ogni degrado al rom di turno e non ai lunghi anni di abbandono delle amministrazioni comunali.
Insomma, una moderna guerra tra poveri, innescata da una campagna securitaria che fornisce nemici abbordabili e identificabili e che si sintonizza con le paure e le ansie dei singoli. In Lombardia, dove il fenomeno è più esplicito, proprio in questi giorni stanno cedendo pericolosamente gli argini della politica. Prima il Presidente della Provincia di Milano, il diessino Penati, inizia a parlare come un leghista e, poi, nel Consiglio Comunale milanese un’inedita e indecente alleanza tra Destre, Ulivo e Verdi approva una mozione che invoca sgomberi e “numero chiuso” per i rom.
Beninteso, la battaglia contro il securitarismo non si vincerà mai semplicemente resistendogli, ma, in ultima analisi, soltanto ricostruendo una politica alternativa che intervenga con decisione sulla nuova questione sociale, ricostruendo dunque consenso, rappresentanza e credibilità. Tuttavia, questa considerazione non può diventare un alibi per guardare nel frattempo dall’altra parte, cercando di eludere il problema, o peggio ancora per rincorrere le destre sul loro terreno.
È certamente scomodo e difficile stare fuori dal coro che tenta di farsi senso comune, ma qui non si tratta semplicemente di qualche videocamera di sorveglianza o qualche poliziotto in più. No, si tratta della battaglia per l’egemonia culturale, di cui il securitarismo è componente fondamentale, che le destre agitano in tutto l’occidente. Ecco perché gli argini non possono cedere, almeno a sinistra del Partito Democratico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 23 giugno 2007 (pag. Milano)
Il clima instaurato a Milano in seguito alla sterzata a destra di Penati e alla mozione bipartisan Centrodestra-Ulivo in Consiglio comunale sta producendo i suoi primi frutti avvelenati, a partire dagli avvenimenti e dagli scontri di ieri in via Triboniano.
Il copione della caccia al rom prevede, infatti, soltanto sgomberi, ma nessuna alternativa abitativa o percorsi di integrazione. Era andata così a Chiaravalle e Legnano, per citare soltanto gli ultimissimi esempi, ed è andata così anche al Triboniano, con l’aggravante che in quest’ultimo caso l’assegnazione dei posti regolari non brillava certo per trasparenza. In altre parole, alle famiglie rom sotto sgombero non rimangono che due opzioni: andarsene e cercare un’altra sistemazione degradata nei meandri della metropoli oppure protestare. A Chiaravalle e a Legnano hanno scelto la prima, ieri al Triboniano la seconda.
Quindi, non c’è proprio nulla di cui stupirsi o scandalizzarsi, se non delle dichiarazioni odierne di Penati, che considera i fatti di ieri una prova dell’assenza di volontà di integrazione da parte dei rom. Se invece fossero andati a dormire in mezzo alla strada senza proferire parola, allora sarebbero diventati un esempio di integrazione riuscita?
La cosa forse più insopportabile di tutto questo è che ormai non gliene frega più niente a nessuno di trovare soluzioni, ma soltanto di perseguire i propri obiettivi politici con ogni mezzo. Al Centrodestra meneghino interessa procedere su una strada che ha il duplice vantaggio di produrre facile consenso elettorale e di mettere in secondo piano il bilancio, per nulla esaltante, dei suoi 15 anni di gestione del potere a Milano. A taluni esponenti locali del nascente Partito Democratico, invece, il gioco serve per seppellire l’esperienza dell’Unione e gettare le basi per le future alleanze variabili. Duetto Penati-Formigoni docet.
Insomma, i rom, considerati ormai a tutti gli effetti esseri umani di serie B, e le inquietudini e le paure dei cittadini milanesi sono semplici pedine in un gioco più grande. A meno che non si voglia sostenere seriamente che spostare le baraccopoli da un quartiere all’altro possa risolvere il problema. A questo punto, crediamo davvero che il vero problema da affrontare sia il degrado della politica.
Che la Giunta Formigoni intenda ridisegnare unilateralmente e su base autonomistica e privatistica l’insieme del sistema dell’istruzione e della formazione professionale è ormai cosa risaputa. Altrettanto nota è la nostra netta opposizione al progetto del centrodestra. Ma quello che probabilmente non si sa, e che noi riteniamo di gravità inaudita, è quanto sta avvenendo in questi giorni.
Infatti, terminate in tempo record le oltre 50 audizioni con soggetti sociali e istituzionali, il centrodestra ha presentato in Commissione VII una versione modificata della sua proposta di legge, che da una parte ignora la quasi totalità delle osservazioni avanzate in sede di audizione e, dall’altra, contiene una serie di novità dirompenti. Cioè, con una sorta di colpo di spugna, il centrodestra intende abrogare in toto praticamente tutte le leggi regionali in materia di istruzione e formazione attualmente in vigore, sostituendole con poche righe di rimando a futuri e non meglio specificati criteri, che saranno individuati dal governo regionale.
Ci riferiamo, per esempio, all’abrogazione della l.r. n. 31/80, che disciplina gli interventi regionali a sostegno del diritto allo studio nella scuola primaria e secondaria, e a quella della l.r. n. 70/80, relativa agli interventi per l’edilizia scolastica. Mentre, guarda caso, rimarrebbe esclusa dalla furia abrogazionista unicamente la normativa sul cosiddetto buono scuola, che ogni anno gira decine di milioni di euro dal bilancio regionale alla scuola privata. Inoltre, andrebbe ricordato che questa operazione di azzeramento legislativo comporta altresì l’eliminazione di ogni sede di concertazione con le parti sociali.
Se tutto questo è allarmante dal punto di vista del merito, poiché prefigura l’intenzione di istituire una sorta di Ministero regionale dell’istruzione che accentra tutti i possibili poteri in materia scolastica, dal punto di vista del metodo siamo francamente nel regno della pura e semplice pirateria istituzionale e del disprezzo per le più elementari regole democratiche.
Infatti, basti qui sottolineare che ai Comuni e alle Province, che gestiscono i -pochi- fondi assegnati dalle due leggi regionali in questione, non era stato detto nulla al riguardo nel corso delle audizioni. E che in Commissione VII la maggioranza di centrodestra aveva negato la discussione della proposta di legge di modifica della 31/80 presentata da Rifondazione, perché “l’argomento non c’entrava”.
Insomma, il metodo e il merito si danno la mano. Diventa sempre più evidente quello che interessa veramente a Formigoni. Altro che federalismo e preoccupazione per il futuro degli studenti lombardi! Qui si tratta semplicemente della volontà di concentrare nelle mani del Presidente della Regione sempre più potere, a scapito dello Stato, degli enti locali e dei cittadini. Sarà per questo che il centrodestra vuole far approvare questo scempio nella seduta del Consiglio Regionale del 31 luglio, con le scuole chiuse e i cittadini in partenza per le ferie?
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 30 giugno 2007
Federalismo e Sussidiarietà sono le due bandiere della Lombardia di Formigoni. Nella vulgata ufficiale il primo servirebbe per dare maggior efficienza alla spesa pubblica italiana, mentre la seconda garantirebbe il coinvolgimento nella gestione della res pubblica della società civile e degli enti locali.
La realtà concreta della Lombardia, tuttavia, ci insegna che dietro il fumo della propaganda si cela l’arrosto di ben altri interessi e progetti. In altre parole, federalismo significa semplicemente riuscire ad accaparrarsi più poteri e risorse possibili, a scapito dello Stato e degli enti locali e con somma non curanza degli squilibri territoriali e sociali, e la sussidiarietà si traduce in un banale trasferimento di risorse e funzioni pubbliche in mani private.
Per farci capire meglio, è sufficiente vedere cosa succede in Regione Lombardia in queste settimane. Il 19 giugno scorso, il Consiglio regionale ha approvato –con la benevola astensione dell’Ulivo- una proposta di legge al Parlamento sul federalismo fiscale che propone di trattenere nelle regioni gran parte degli introiti fiscali. Ma il segno politico dell’operazione si esplicita maggiormente se consideriamo la brillante idea che il fondo perequativo nazionale sia gestito in maniera “orizzontale”; cioè saranno le regioni che alimentano il fondo, vale a dire quelle ricche, a deciderne l’uso. Insomma, funzionerebbe un po’ come il Fondo Monetario e così ci troveremmo con un Presidente della Lombardia che spiega al suo collega calabrese dove e cosa tagliare.
Ma arriviamo al secondo esempio, forse meno conosciuto, ma sicuramente più concreto e pericoloso. In questi giorni, in Commissione VII del Consiglio regionale, è entrato nel vivo la discussione del progetto di legge formigoniano sul “sistema educativo di istruzione e formazione”, che di fatto punta a rilanciare la riforma Moratti in salsa padana, codificando il doppio canale e l’avviamento precoce al lavoro, nonché definendo un sistema pubblico-privato basato sulla piena equiparazione.
Com’è ovvio, la mossa di Formigoni si basa sulla pretesa di poter esercitare unilateralmente le competenze concorrenti elencate dal pasticciato Titolo V della Costituzione. E, tanto per ribadire il concetto, a fine maggio la Regione ha impugnato alla Corte Costituzionale l’articolo 13 del decreto Bersani, che riattribuisce allo Stato la competenza sugli istituti tecnici e professionali.
Ma Formigoni non si limita a invadere l’ambito di competenze statali, bensì agisce a tutto campo. L’ultima sorpresa è arrivata pochi giorni fa, con una modifica della proposta di legge che prevede di abrogare tutte le leggi regionali esistenti in materia (diritto allo studio, edilizia scolastica ecc.), ad esclusione –ovviamente- della normativa sul buono scuola, che ogni anni trasferisce decine di milioni di euro dal bilancio regionale alla scuola privata. Un autentico colpo di mano, che spazza via non soltanto regole e procedure, ma anche funzioni e competenze degli enti locali, per attribuire tutti i poteri decisionali direttamente alla Giunta regionale.
Insomma, da una parte, Formigoni cerca di sottrarre competenze e funzioni allo Stato e agli enti locali per istituire presso la sua corte una specie di Ministero regionale dell’istruzione e, dall’altra, muove un attacco frontale alla scuola pubblica e laica. Appunto, Federalismo e Sussidiarietà.
L’esperienza concreta ci dice molto di più su quel federalismo che va tanto di moda, ahinoi anche dalle parti del Partito Democratico, che non mille convegni e discussioni. Qui non si tratta di un po’ ingegneria istituzionale per rendere più moderna ed efficiente la macchina pubblica, bensì di percorrere la via delle regioni per smantellare l’universalità dei diritti e il welfare, assegnando strada facendo un crescente potere ai Presidenti delle Regioni, sempre più simili a dei moderni principi. Forse, tutto questo è accettabile e auspicabile per i liberal che si trovano al Lingotto, ma sicuramente non lo può essere per la sinistra.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 3 luglio 2007 (pag. Milano)
Il costante aumento di fatti violenti che coinvolgono i vigili urbani, specie a Milano, non è certo una novità. E in questo senso, quanto avvenuto nel parco Cassinis rappresenta soltanto l’ultima conferma che non dovrebbe, purtroppo, sorprendere nessuno. A stupire, invece, sono ancora una volta le solite dichiarazioni ufficiali che si limitano ad accusare tout court gli “extracomunitari” oppure a invocare più “strumenti” per gli agenti di polizia locale.
È davvero sconcertante che nessuno, tra gli amministratori milanesi, senta il bisogno di fare almeno un bilancio di quella politica di militarizzazione che sta trasformando progressivamente la vigilanza urbana in una specie di polizia del sindaco. Le conseguenze di questo processo, in realtà, sono sotto gli occhi di tutti, nonché denunciate con regolarità dai maggiori sindacati della polizia municipale milanese. Infatti, lo spostamento di uomini e risorse verso compiti di ordine pubblico non solo ha marginalizzato le funzioni proprie della polizia municipale, come il controllo del rispetto del codice della strada e delle norme di sicurezza sui cantieri oppure la verifica degli abusi edilizi e ambientali, ma ha cambiato anche la percezione del ghisa da parte dei cittadini, siano essi italiani o immigrati.
Oggi, il vigile urbano, armato di pistola e manganello, è sempre di più visto come un poliziotto, con la differenza che non gode dello stesso addestramento, né della stessa autorità. Secondo il vigente regolamento regionale, per fare un esempio, è sufficiente che l’agente di polizia locale sostenga un corso teorico di due ore e uno pratico di quattro ore per essere abilitato all’uso del manganello.
A tutto questo va poi aggiunto che gli amministratori milanesi continuano a non voler fare i conti con una città trasformata profondamente dal fenomeno migratorio, rifiutando ogni politica che favorisca l’inclusione e la convivenza e puntando unicamente sulla repressione. E così, se c’è un problema in via Sarpi si mandano i vigili a fare la guerra delle multe, se ci sono senegalesi che vendono la loro merce in Brera si scatenano sempre i vigili e se ci sono questioni in Triboniano, allora fanno di nuovo comparsa i vigili, addirittura in tenuta antisommossa, cosa che sarebbe vietata dalla legge.
I ghisa non stanno subendo le conseguenze di uno “strano virus” o di una “moda”, come vorrebbe far credere il comandante Bezzon, bensì sono costretti a pagare il prezzo dell’insana ambizione del centrodestra milanese di volerli trasformare con ogni mezzo in un corpo di polizia alle sue esclusive dipendenze.
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