Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il governo delle larghe intese è al capolinea, travolto da un evento più grande di lui, che purtroppo non è una rivolta popolare contro l’austerità, bensì il crepuscolo del ventennio berlusconiano. Comunque vadano a finire le manovre di palazzo di questi giorni, lo scenario non sarà più lo stesso. E così, ancora una volta, il cambiamento e il movimento vengono determinati a destra e in alto.
Non saremo certo noi a rimpiangere questo governo, anzi. Oggi in tutta Europa le grandi coalizioni, di nome o di fatto, rappresentano viepiù la forma tipica di governo al tempo della crisi, la garanzia suprema di un sistema politico chiuso a riccio e di un ordine economico e sociale sempre più diseguale ed escludente. In altre parole, le grandi coalizioni fanno parte del problema e non delle soluzioni.
Tuttavia, c’è poco da esultare, perché nel frattempo in basso e a sinistra si muove ben poco, c’è silenzio e immobilismo. Subiamo gli eventi, al massimo li rincorriamo. E questo significa che oggi e qui i movimenti sociali e le sinistre non determinano alcunché. Significa, anzi, che gli interessi, le aspirazioni e le aspettative di chi la crisi la sta già pagando a caro prezzo vengono relegati al margine dell’agenda politica, considerati sacrificabili e prescindibili. Lavoratori e lavoratrici, precari, studenti, disoccupati, chi si batte per la difesa del territorio e contro le speculazioni, siamo tutti e tutte prescindibili come soggettività, al massimo siamo un problema di ordine pubblico.
Se la partita si gioca tutta sul lato destro del tavolo, allora, qualsiasi sarà la composizione futura di governo e maggioranza, le priorità saranno sempre le medesime, cioè quelle che ci hanno portati fino a qui e che ci spingono ulteriormente nel baratro. Tanto per capirci, ora l’allarme conti pubblici consiste nel dover recuperare 5 miliardi di euro entro fine anno e sappiamo tutti cosa vuol dire per le nostre esauste tasche. Ebbene, ora provate ad immaginarvi cosa succederà quando scatteranno le nuove regole europee (approvate ovviamente in maniera bipartisan dal nostro Parlamento), che prevedono che l’Italia debba ridurre il proprio debito al ritmo di 40-50 miliardi all’anno (fiscal compact), versare al MES 125 mld in cinque anni e fare tutto questo rispettando il pareggio di bilancio. Secondo voi, chi sarà chiamato a pagare il conto?
Insomma, se questo è il loro autunno, il nostro qual è? Appunto, per ora tutto è alquanto fermo, non stiamo troppo bene e occhio e croce ne conosciamo anche i motivi. Quindi, inutile riepilogare quello che già sappiamo e cerchiamo piuttosto di capire se ci sono le possibilità e le condizioni per muoverci, per rimettere in campo i movimenti e la sinistra.
Tra il 12 e il 19 ottobre ci saranno alcuni appuntamenti nazionali che ci diranno qualcosa in più sullo stato delle cose a sinistra e nei movimenti. Ma andiamo con ordine. Il 12 ottobre ci sarà a Roma la manifestazione nazionale per la difesa e l’attuazione della Costituzione, lanciata dall’appello La via maestra, firmato da Rodotà, Landini, Zagrebelsky, Don Ciotti e Carlassare. Il 18 ottobre ci sarà lo sciopero generale del sindacalismo di base. Il 19 ottobre, sempre a Roma, ci sarà il corteo intitolato Sollevazione Generale, lanciato da Abitare nella crisi e diverse realtà di movimento, compreso quello No Tav con presenze dalla Val di Susa. In mezzo ci saranno diverse iniziative a carattere territoriale, alcune legate alle scadenze nazionali, e la mobilitazione nazionale degli studenti medi dell’11 ottobre (evento facebook per l’appuntamento milanese).
Sono tutti appuntamenti nati quando non c’era la crisi di governo e sono tutte iniziative che si pongono fuori e contro la logica delle larghe intese e delle politiche d’austerità. Ma ora tutte dovranno fare i conti con il nuovo scenario e con le responsabilità che derivano. In altre parole, in quella settimana si deciderà, almeno in buona parte, se in questo autunno le sinistre e i movimenti potranno essere soggetti in campo, in grado di incidere, oppure se saranno fuori dai giochi e destinati all’irrilevanza.
Sì, lo so, sono iniziative diverse tra di loro. Anzi, sono per molti versi in competizione tra di loro. E in rete è facile trovare le relative polemiche. Ma il punto importante non mi pare questo, perché non si tratta di capire se “vince” un’iniziativa o l’altra, bensì se le mobilitazioni, o almeno una di esse, saranno in grado di aprire in basso e a sinistra una spazio e un protagonismo politico. Poi, chi ha più filo da tessere lo tesserà.
Infatti, ambedue le scadenze rischiano di rimanere segnati dai limiti che, ahimè, pervadono la sinistra, quella politica e quella di movimento. Il 12 ottobre è un’ottima iniziativa, persino innovativa per le modalità di convocazione, ma non è affatto detto che l’incipit riuscirà ad essere più forte della palude dei ceti politici. Il 19 potrebbe rappresentare un punto di ri-partenza sul piano nazionale per i movimenti, che costituirebbe peraltro una boccata d’ossigeno per i movimenti ora stretti dalla repressione, come quello No Tav, ma rischia di non liberarsi dal fantasma del 15 ottobre di due anni fa (do you remember?).
Insomma, ottobre ci offre delle opportunità per il nostro autunno, ma anche dei tranelli e dei rischi. E come sempre, dipende da noi cosa ne facciamo.
Luciano Muhlbauer
Post Scriptum del 2 ottobre: il governo delle larghe intese è ancora in piedi. Dopo capriole e contrordini a raffica, alla fine, Berlusconi ha dato la fiducia al governo che voleva sfiduciare. Il crepuscolo berlusconiano ha per ora risparmiato il governo, trasferendo le sue convulsioni direttamente in casa Pdl. La buona notizia (se proprio vogliamo cercarne una) è che per prima volta Berlusconi ha dovuto chinare pubblicamente il capo. Per il resto, rimane purtroppo interamente valido il ragionamento sopra svolto, perché i giochi si sono fatti tutti sul lato destro, mentre a sinistra sembriamo quelli che stanno seduti in platea a guardarci un film. E, ovviamente, continuano ad esserci il governo delle larghe intese e le politiche d’austerità, come prima.
Non possono certo bastare presidi, manifestazioni e appelli di fronte all’enormità della strage di migranti che si è consumata a Lampedusa, l’ennesima di una lunga e infinita lista. Ma ancora meno serve il silenzio, che anzi finisce per essere complice. E da qualche parte bisogna pure ri-partire, o no? Ben venga dunque ogni mobilitazione, a patto però che si schieri, che sia chiara e che indichi degli obiettivi concreti. Cioè, che si sottragga alle troppe ipocrisie e lacrime di coccodrillo di questi giorni, per non parlare dei soliti e infami proclami razzisti della Lega o peggio.
L’invito di trovarsi oggi alle ore 18 in piazza Duomo a Milano, lanciato da Arci, Naga, Todo Cambia, Ri-Make, Rivolta il debito, Immigrati autorganizzati, Ass. Dimensioni diverse, fa parte delle iniziative utili e da sostenere, perché indica chiaramente il problema, che è la politica della Fortezza Europa, la legislazione italiana che c’è (la Bossi-Fini, anzitutto) e quella che non c’è (una legge organica sul diritto d’asilo).
Vi invito a partecipare e a far circolare l’informazione.
Ci vediamo in piazza Duomo.
Luciano Muhlbauer
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BASTA MORTI NEL MEDITERRANEO!
DIRITTO DI ASILO E ACCOGLIENZA PER TUTTE/I!
Le centinaia di morti della strage di migranti di giovedì scorso davanti alle coste di Lampedusa si aggiungono alle migliaia di vittime che hanno trovato la morte nel Mediterraneo negli ultimi vent’anni.
Morti dopo essere fuggiti da paesi sotto brutali dittature, da guerre (spesso combattute con armi made in Europe), dalla miseria accentuata da una crisi globale che viene scaricata sui più deboli. Morti anche solo per aver scelto di andare altrove.
Non possiamo più sopportare i morti, non possiamo più tollerare l’ipocrisia di chi piange le vittime provocate dalle politiche criminali e criminogene volute dall’ “Europa fortezza”, di chi parla e straparla di pace e vorrebbe che i militari (preferibilmente direttamente nord africani) pattugliassero le coste e impedissero lo sbarco delle/dei migranti sulle nostre coste, di chi ritualmente ripete “la UE non ci lasci soli”.
Chiediamo un cambio radicale delle politiche disastrose praticate finora, la cancellazione della legge Bossi-Fini, una legge organica e avanzata per il riconoscimento del diritto di asilo, un’immediata accoglienza di tutte/i coloro che sbarcano sulle coste e di coloro che fuggono da guerre, dittature, miseria.
Lunedì 7 ottobre, alle 18.00, troviamoci in piazza Duomo a Milano.
Portiamo tutte/i un lenzuolo, simbolo dei sudari che coprono i corpi delle/dei migranti uccise/i nel Mediterraneo ma che non possono coprire la vergogna di quelle politiche.
Questa è una proposta aperta a tutte e tutti, per una presenza senza bandiere e comunicativa.
È una proposta nata da Arci, Naga, Todo Cambia, Ri-Make, Rivolta il debito, Immigrati autorganizzati, Ass. Dimensioni diverse
“Via il reato di clandestinità”, “La clandestinità non sarà reato”. Così titolavano stamattina La Repubblica e il Corriere. Un po’ incredulo, mi sono dunque messo ad approfondire la notizia. Effettivamente, ieri in Commissione Giustizia del Senato era stato approvato un emendamento abrogativo del reato di clandestinità, presentato dai 5 Stelle e votato anche da Pd e Sel, con addirittura il parere favorevole del Governo.
Bene, un buona notizia, ho pensato, anche se il resto della Bossi-Fini non l’hanno toccato. Ma meglio di niente e, comunque, un passo nella giusta direzione. Di questi tempi è quasi un miracolo, o no?
Ma poi, pensandoci meglio, mi è sorto un dubbio. Già, perché in fondo era soltanto un voto in Commissione e più avanti avrebbe dovuto esprimersi anche l’aula, anzi le due aule. E quella inedita alleanza M5S-Pd-Sel avrebbe potuto reggere di fronte alla dura realtà di un governo Pd-Pdl fresco di nuova fiducia? Non è che tutto questo non fosse altro che un modo per guadagnare tempo, vista la commozione dell’opinione pubblica e le parole di un Papa un po’ diverso da quelli precedenti?
Comunque, avendo il dubbio sempre due facce, ho voluto puntare sulla versione ottimista. E perché no? È pur vero che i fatti hanno la testa dura e forse, chissà, il fallimento totale della Bossi-Fini rispetto ai suoi obiettivi dichiarati e il sovraffollamento delle carceri, complice anche il reato di clandestinità, avevano aperto un ragionamento ai piani alti dei palazzi. Ho pensato o meglio, ho sperato che potesse essere così, ma è durata poco, pochissimo.
E più veloce di tutti, più veloce del vento, dei falchi e delle colombe, è arrivato Grillo a distruggere il mio flebile ottimismo. Non che mi sorprendesse, beninteso, poiché in tema di immigrazione, come in altre questioni socialmente e eticamente sensibili, ha sempre mantenuto un’ambiguità di fondo. Anzi, qualche volta si era addirittura lasciato andare a commenti in stile verde padano. E la ragione la spiega Grillo stesso nel suo post odierno, per l’occasione cofirmato anche da Casaleggio: “Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l'abolizione del reato di clandestinità, …, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”..
Per sgomberare definitivamente il tavolo da ogni possibile malinteso, Grillo e Casaleggio ricorrono poi agli stessi argomenti che una volta avevano fatto la fortuna dei vari Calderoli e Salvini: “Nel merito questo emendamento è un invito agli emigranti dell'Africa e del Medio Oriente a imbarcarsi per l'Italia. Il messaggio che riceveranno sarà da loro interpretato nel modo più semplice "La clandestinità non è più un reato". Lampedusa è al collasso e l'Italia non sta tanto bene. Quanti clandestini siamo in grado di accogliere se un italiano su otto non ha i soldi per mangiare?”.
E allora chi se ne frega se profughi e migranti continuavano ad arrivare anche dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009. Arrivavano come prima, più di prima, fino ad oggi. Il reato di clandestinità, cioè la sua esistenza o meno, incide forse sul prezzo da pagare agli scafisti, ma certamente non incide sulla decisione di affrontare o meno il viaggio verso l’Europa. Questo lo sanno anche i sassi e se qualcuno non dovesse saperlo sarebbe sufficiente prendersi 10 minuti e informarsi sui paesi d’origine dei migranti e dei profughi, tipo l’Eritrea, la Somalia, la Siria ecc. L’Italia è semplicemente la porta d’ingresso dell’Europa e non lo è a causa della sua legislazione sull’immigrazione, bensì a causa della sua posizione geografica nel Mediterraneo.
Oggi Grillo ha gettato una delle sue maschere, si è liberato di una delle sue molte ambiguità. Forse così ha salvato una delle peggiori leggi dell’era Berlusconi-Lega, salvando così anche l'anima al Pd. O forse no. Forse nel suo movimento ora qualcosa si muoverà, qualcuno finalmente disobbedirà sul serio. Chi vivrà, vedrà.
Per quanto mi riguarda, ci riguarda, penso una cosa semplice semplice. In ogni occasione, in ogni momento, da subito, passando anche per le mobilitazioni del 12, del 18 e del 19 ottobre, fuori e dentro le istituzioni, va ri-costruita la battaglia per l’abrogazione del reato di clandestinità e di tutta la Bossi-Fini e per una legge organica sul diritto d’asilo. Sul merito di questo battaglia si sceglieranno alleati, compagni di strada e amici. E si sceglieranno anche gli avversari.
Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su MilanoX il 16 ottobre e su il Manifesto il 17 ottobre 2013
Sedriano, ovest milanese, poco più di 11mila abitanti, è il primo Comune lombardo ad essere sciolto per infiltrazione mafiosa. L’ha deciso il Consiglio dei Ministri del 15 ottobre, accogliendo le raccomandazioni contenute nella relazione della Prefettura di Milano di questa estate.
Quanta acqua è passata sotto i ponti dal giorno in cui un altro Prefetto milanese, Gian Valerio Lombardi, affermò che a Milano la mafia non esisteva. Sembra un secolo fa, eppure era soltanto il gennaio del 2010. Nel frattempo, però, la favola che il crimine organizzato fosse una questione meridionale, accreditata anche dalla Lega, ha iniziato a vacillare sotto i colpi dei dati di fatto.
Per prima arrivò l’Operazione Infinito dei magistrati antimafia di Reggio Calabria e Milano, scattata nel luglio 2010, che evidenziò che in Lombardia la ‘ndrangheta fosse ormai una presenza talmente capillare, radicata e diffusa, da poter contare su un sistema di complicità che coinvolgeva settori dell’imprenditoria locale, della pubblica amministrazione e della politica. Non a caso, i magistrati milanesi erano particolarmente severi con gli imprenditori coinvolti, poiché consideravano la loro mancanza di collaborazione non come il frutto della paura, bensì della convenienza.
L’operazione Infinto era un piccolo shock per l’opinione pubblica e qualcosa iniziò a cambiare. Peraltro, era ormai diventato difficile non vedere una realtà sempre più straripante. E non ci riferiamo tanto al traffico di stupefacenti, di cui Milano è da tempo una delle principali piazze europee, quanto al fatto che a Infinito sono seguite altre operazioni, che diversi importanti giornali hanno iniziato a fare inchieste e a pubblicare persino mappe della presenza mafiosa, che i primi appalti assegnati per Expo 2015 sono stati bloccati dalla magistratura causa infiltrazioni mafiose o che certi incendi dolosi erano diventati troppi anche per un’area metropolitana come quella milanese.
Tanti fatti, ma poi ne arrivò uno che ebbe l’effetto di una bomba, cioè l’inchiesta che nell’ottobre dell’anno scorso portò in carcere l’allora Assessore regionale alla Casa, Domenico Zambetti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e voto di scambio. Fu il colpo di grazia per la traballante Giunta Formigoni, ma anche l’inizio della vicenda di Sedriano, poiché risultava coinvolto anche il Sindaco, il pidiellino Alfredo Celeste, che finì agli arresti domiciliari.
Il marcio al Comune di Sedriano non si fermava però al Sindaco e si scoprì che in Consiglio comunale sedevano anche la figlia e la moglie di due presunti boss della ‘ndrangheta. Tuttavia, a nessuno degli amministratori passò per la tesa di dimettersi, tranne un unico consigliere della maggioranza di centrodestra. Anzi, terminati gli arresti domiciliari, il Sindaco tornò al suo posto in Comune, fregandosene delle crescenti proteste della cittadinanza.
Ora però è finita e presto a Sedriano arriverà il Commissario. È certamente un giorno triste per Sedriano, perché essere il primo Comune lombardo ad essere sciolto per mafia non fa piacere a nessuno, ma è anche un giorno buono e una vittoria per quei tanti e quelle tante sedrianesi che in questi dodici mesi non hanno mai smesso di mobilitarsi, di denunciare, di pretendere che il Sindaco se ne andasse e che si facesse pulizia, così come hanno fatto anche molte altre realtà del Magentino, a partire dalla Carovana Antimafia Ovest Milano.
Ma oggi è definitivamente finita anche con i dubbi, con le fette di salame sugli occhi. In Lombardia la mafia esiste! E tutti quanti dovrebbero prenderne atto e agire di conseguenza, magari prendendo esempio da chi in questi dodici mesi a Sedriano si è battuto contro le mafie e il menefreghismo e che oggi rappresenta la vera speranza di futuro per quel territorio.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 22/11/2013, in Lavoro, linkato 1707 volte)
C’è una costante nelle manovre finanziarie di questi anni di crisi e austerity: il tiro al bersaglio contro i dipendenti pubblici. E, ovviamente, non fa eccezione neanche questo 2013, anzi. E così, il blocco della contrattazione e degli stipendi viene prorogato fino alla fine del 2014, quello dell’indennità di vacanza contrattuale addirittura fino al 2017 (a buon intenditor poche parole…) e arriva pure un taglio secco e lineare delle ore di lavoro straordinario.
Inoltre, nuove nubi si stanno addensando sulle teste dei lavoratori pubblici in vista della prossima e pesante puntata della spending review, come conferma lo stesso Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, l’ex dirigente del Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. Nel suo programma di lavoro del 12 novembre scorso rilancia, infatti, il tema della mobilità nel pubblico impiego “compresa l’esplorazione di canali di uscita” e nell’intervista pubblicata il 21 ottobre dal Corriere della Sera ribadisce il concetto, affermando “che certe misure strutturali che potrebbero essere raccomandate potrebbero portare all’emersione di esuberi”. Insomma, a parte il linguaggio contorto e i condizionali, il messaggio suona abbastanza chiaro.
Certo, quello dello sparare sul dipendente pubblico è un “gioco” abbastanza facile e comodo. Anzitutto, considerati i grandi numeri sui cui si interviene, è garantito un risultato immediato in termini di voci di bilancio. In altre parole, è un po’ come andare a fare il bancomat.
In secondo luogo, le reazioni sindacali sono sempre assai timide e condizionate dal tradizionale collateralismo che caratterizza importanti settori sindacali.
Infine, difficilmente si rischiano delle rivolte da parte dell’opinione pubblica, considerato che l’immagine vetusta dello statale imboscato-improduttivo-e-magari-pure-assenteista è ahinoi ancora molto diffusa, sebbene la realtà del pubblico impiego racconti nella stragrande maggioranza dei casi una storia ben diversa. Ma a troppi fa comodo continuare ad alimentare questa mito negativo, magari nella più moderna versione della contrapposizione tra garantiti e non-garantiti. E da questo punto di vista si salvano davvero in pochi, perché il fronte dei fustigatori dei garantiti è ampio e trasversale, da Brunetta a Monti e Fornero, da Renzi a Grillo.
Comunque, torniamo alla cruda realtà dei fatti, cioè agli effetti provocati dai continui e reiterati tagli nel pubblico impiego (personale amministrativo e tecnico dello Stato centrale, delle Regioni e degli Enti locali, personale Sanità, Scuola, Università, Vigili del Fuoco, Forze dell’Ordine ecc.), in termini di salario, posti di lavoro e funzionamento dei servizi.
Prima di tutto, c’è la questione salariale, che sta ormai mettendo in difficoltà non pochi lavoratori e lavoratrici, specie in caso di nuclei familiari monoreddito. Il blocco della contrattazione e dello stipendio (inteso complessivamente: stipendio base + integrativo) è ormai in vigore per legge sin dal 2010. Cioè, considerata l’ultima proroga in ordine di tempo, sono 5 anni senza aumenti monetari. Tradotto in numeri, in base ai calcoli della Corte dei Conti, pubblicati da il Sole 24 Ore, questo significa una perdita del potere d’acquisto nella misura del 10,5% a testa. Per fare un esempio concreto, un lavoratore con uno stipendio annuo lordo di 27.870 euro, perde 4.069 euro nel periodo 2010-2016! E tutto questo, peraltro, in un periodo in cui tariffe, tributi e imposte sono aumentati in misura considerevole per i redditi medio-bassi.
Ma non è tutto, perché in una serie di casi il dipendente pubblico ha perso anche più del 10,5%. Anzitutto, a causa dei possibili effetti delle ristrettezze di bilancio sulla contrattazione decentrata integrativa nei singoli enti e nelle varie aziende, poiché la legge dice che lo stipendio non può essere superiore a quello del 2010, ma non dice che non possa essere inferiore. E così, può succedere che il fondo destinato alla contrattazione decentrata diminuisca e che quindi si riduca anche il salario accessorio erogato.
Inoltre, la spending review del governo Monti di un anno fa aveva stabilito che in un tutte le pubbliche amministrazioni il valore massimo dei buoni pasto (ticket) non potesse superare 7 euro. Ebbene, in diverse realtà lavorative si faticava ad arrivare a 7, ma in altre si andava oltre. Così era successo, per esempio, nell’amministrazione regionale lombarda, dove alcuni aumenti salariali venivano riversati sul valore dei buoni pasto, che quindi erano arrivati all’equivalente di 12 euro al giorno. Tanto, visti i tempi che correvano, ormai il ticket veniva usato sempre di meno per la pausa pranzo e sempre di più per fare la spesa nel super. Ed ecco perché il taglio secco di 5 euro netti al giorno si è fatto sentire piuttosto brutalmente per chi ha una busta paga che viaggia tra 1.150 e 1.400 euro, a seconda dell’inquadramento.
In secondo luogo, c’è la questione occupazionale e quella della qualità dei posti di lavoro e, dunque, anche dei servizi erogati. E cominciamo subito a sfatare quel mito che vorrebbe che in Italia, rispetto al resto dell’Europa, ci fosse un numero abnorme di dipendenti pubblici e che questi costassero al fisco un’enormità spropositata. In base a uno studio della Bocconi del 2012 in Italia i dipendenti pubblici sono 3,25 milioni e costituiscono il 14.3% della forza lavoro totale. In Inghilterra, patria europea del neoliberismo, sono invece 6 milioni e il 20% della forza lavoro. In Francia, paese tra i più statalisti del continente, i numeri sono 7,5 milioni e 26,7%. Giusto per la cronaca, in Germania sono 9,2 milioni e il 10,4%. Per quanto riguarda invece il costo, cioè il rapporto stipendi pubblici/Pil, noi siamo al 11%, cioè più o meno a livello inglese (10,9%) e un po’ sotto la Francia (13,4%).
Detto questo, risulta quindi evidente che il vero problema stia nell’organizzazione, nell’efficacia e nell’efficienza delle macchine pubbliche. E da questo punto di vista, le politiche di riduzione del personale praticate in questi anni sono state più che altro dannose e la stessa Corte dei Conte ha espresso qualche preoccupazione: “occorre evitare che la riduzione del numero dei dipendenti determini il degrado nella qualità dei servizi erogati alla collettività”.
Infatti, i continui blocchi dei turn-over (cioè la non sostituzione del personale andato in pensione) non solo possono provocare dei vuoti funzionali, ma abbinati agli effetti deleteri dell’innalzamento dell’età pensionabile stabilito dalla riforma Fornero, comportano anche un progressivo e negativo invecchiamento del personale.
Inoltre, i reiterati blocchi delle assunzioni (di personale a tempo indeterminato, si intende…), iniziati molti anni fa, hanno trasformato le pubbliche amministrazioni nel primo produttore di lavoro precario del paese, dalla scuola agli ospedali, dai vigili del fuoco ai comuni. Oggi la situazione è talmente grave e diffusa che non c’è nemmeno chiarezza sui numeri: secondo l’Aran i precari sono 317mila, secondo la Cgia di Mestre un milione… (vedi articolo di L’Espresso). E a tutto questo andrebbero aggiunti i servizi pubblici privatizzati, esternalizzati e dati in appalto, spesso a delle imprese o cooperative a cui interessa soltanto comprimere i salari e non certo la qualità del servizio erogato.
Insomma, investire nei lavoratori pubblici, stabilizzando i posti di lavoro e garantendo uno stipendio dignitoso, potrebbe essere un ottimo affare per la cittadinanza e un’occasione per riqualificare i servizi erogati. A patto, ovviamente, che si ragioni anche sull’organizzazione del lavoro, sull’uso intelligente e razionale degli strumenti tecnologi e informatici ecc. Insomma, tutte quelle cose che non decidono i lavoratori e le lavoratrici, ma coloro che sono preposti a guidare la macchina, cioè i dirigenti.
E qui arriviamo al punto dolente, anzi, al vero e proprio scandalo. Già, perché mentre il dipendente pubblico italiano riceve uno stipendio (bloccato) tra i più bassi d’Europa, i dirigenti e manager pubblici vivono invece in una realtà opposta, visto che risultano essere tra i più pagati in Europa. E non lo dice qualche “antagonista”, lo dice l’Ocse.
Comunque, non occorre scomodare le istituzioni internazionali, basta guardare sotto casa, tipo alla Regione Lombardia. Formigoni e i suoi fasti non ci sono più, ora c’è Maroni, ma per il resto non è cambiato niente. E così, mentre ai 2.800 dipendenti regionali si dice che non ci sono soldi per chiudere un contratto decentrato decoroso, ben altra musica viene suonata per i dirigenti o, meglio, per una parte di loro. Infatti, per le retribuzioni dirigenziali la Regione ha trovato 20 milioni di euro aggiuntivi per il solo 2013 e ben 54 dirigenti beneficeranno di un aumento netto della retribuzione.
Ebbene, arrivati a questo punto, non rimane che un’ultima domanda: ma se questa è la situazione perché i lavoratori pubblici italiani non sono in piazza, perché non protestano, perché non scioperano in massa? Perché c’è questo silenzio irreale?
Risposte banali e semplicistiche non servono, perché non aiutano a risolvere il problema. Infatti, è vero che c’è un insieme di cause. C’è un contesto generale difficile, la rassegnazione è diffusa, anche se a volte viene interrotta da scatti di ira e rabbia, e non si crede più che la lotta paghi, non ci si fida più di sindacati e partiti o della stessa azione collettiva eccetera. Ed è anche vero che c’è il timore di perdere il poco che si ha e l’illusione di essere per definizione diversi dal Portogallo, dove da un giorno all’altro hanno cancellato le tredicesime, o dalla Grecia, dove stanno licenziando migliaia di dipendenti pubblici.
Tutto vero, eppure c’è qualcosa che stona terribilmente in questo quadro, perché siamo l’unico paese europeo investito dalle politiche d’austerità, dove non ci siano stati degli scioperi generali veri, dei conflitti e delle vertenze nazionali autentici. Certo, ci sono state e ci sono lotte importantissime in alcuni settori o territori, come quella straordinaria dei tranvieri genovesi che oggi sono al quarto giorno consecutivo di sciopero contro i progetti di privatizzazione dell’azienda municipalizzata, ma quello che continua a mancare è una piattaforma, una volontà e una battaglia complessiva, nazionale e generale.
No, il problema è che qui abbiamo la nostra solita anomalia italiana, che si chiama collateralismo con governi e partiti da parte delle maggiori organizzazioni sindacali e che sta soffocando sul nascere ogni iniziativa.
Proseguire su questa strada ci porta però inevitabilmente in un buco nero, perché non occorre certo essere degli indovini per capire che in assenza di reazioni anche qui da noi il conto sarà sempre più salato. In fondo, basterebbe ascoltare con un po’ di attenzione Cottarelli e il Governo, con i loro progetti di privatizzazioni e con la revisione di spesa, cioè di tagli, nell’ordine di 32 miliardi di euro.
A proposito, quasi dimenticavo. Quando ci si batte e si lotta si può ovviamente perdere, ma capita anche che si vinca, che si ottengano dei risultati. Così è andata a Madrid, dove alcuni giorni fa gli spazzini e i giardinieri hanno vinto la loro durissima lotta. Il Comune aveva tagliato i fondi per i servizi di pulizia e le aziende appaltatrici volevano dunque licenziare ben 1.134 dipendenti. Dopo 12 giorni di sciopero ad oltranza è arrivata la retromarcia: nessuno verrà licenziato.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 27/11/2013, in Casa, linkato 1614 volte)
L’hanno chiamata pomposamente “Riforma dell’Aler”, qualcuno persino “super riforma”, ma in realtà per gli inquilini delle case popolari non cambia niente e nulla cambierà in relazione alla sempre più esplosiva questione abitativa. Molto più prosaicamente, quella approvata ieri 26 novembre dal Consiglio regionale lombardo è una obbligata e parziale riorganizzazione della governance del sistema delle Aziende lombarde per l’Edilizia Regionale, con l’aggiunta di un rafforzato controllo politico della presidenza regionale.
Infatti, il provvedimento, che tecnicamente costituisce una modifica della legge regionale n. 27/2009 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), accorpa una serie di Aler, riducendo quindi il loro numero da 13 a 5 (Milano, Lodi-Pavia, Brescia-Cremona–Mantova, Bergamo–Lecco-Sondrio, Busto Arsizio–Como–Varese-Monza Brianza), ed elimina gli attuali consigli d’amministrazione, sostituendoli con un presidente unico nominato dal governo regionale. In conseguenza di questo riordino, che comporta il taglio di 144 incarichi, si prevede un risparmio di 2,5 milioni euro.
Appunto, un provvedimento praticamente obbligato, considerati i livelli di deficit di bilancio raggiunti dalle Aler (quello di Milano supera da solo i 100 milioni) e il talvolta impressionante degrado amministrativo e morale, come nel caso milanese, dove le spese pazze per consulenze ammontavano ormai a 2,7 milioni di euro e le infiltrazioni malavitose erano state favorite, secondo la Procura, direttamente dall’ex assessore regionale alla casa, Domenico Zambetti. Ma anche un intervento parziale e manifestamente insufficiente, più che altro una pezza messa per superare l’emergenza.
Infatti, dopo le abituali dichiarazioni trionfalistiche post voto, gli stessi uomini della maggioranza, dalla Lega alle varie articolazioni post-pidielline, si sono subito preoccupati di annunciare ulteriori passi, una riforma “generale”, “radicale” eccetera. Ed eccoci al punto della questione, perché alla luce delle cose fatte e, soprattutto, di quelle non fatte, nonché delle parole pronunciate, c’è poco da stare allegri, anzi.
C’è, prima di tutto, quello che non si è voluto fare, che è forse più significativo di qualsiasi discorso. Cioè, non si è voluto affrontare il problema del rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, dell’aumento dell’offerta sociale di alloggi, della manutenzione, della sistemazione e assegnazione degli alloggi eccetera.
Beninteso, non stiamo parlando di quisquilie, bensì di nuovi fondi da reperire e di progetti e investimenti di medio-lungo periodo, ma dall’altra parte non si tratta nemmeno di una questione nata stamattina, anche se è oggi che esplode in tutta la sua drammaticità (54mila domande di case popolari in attesa nelle graduatorie, 12mila nuovi sfratti per morosità all’anno ecc.). E poi, ci sarebbe anche da ragionare sulle scelte sbagliate del recente passato con la legge 27 (aumento canoni d’affitto, diminuzione patrimonio Erp e messa in vendita alloggi), che hanno finito per aggravare la situazione.
Invece no, non solo nulla di tutto ciò è stato affrontato con questa “riforma”, ma le parole spese per annunciare le “riforme” che seguiranno sembrano andare in direzione opposta. Non ci sono abbastanza alloggi sociali per gli aventi diritto? E allora bisogna diminuire il numero degli aventi diritto, “modificando i criteri di assegnazione, che troppo spesso penalizzano i cittadini lombardi” e “rafforzando il criterio della residenzialità” (Massimiliano Romeo, Lega Nord) e, poi, niente soluzione e sanatorio per gli occupanti per necessità (Giulio Gallera, Forza Italia). I morosi nelle case popolari sono aumentati in pochi anni dal 10% (2009) al 30% (oggi)? E allora mica si può dare la colpa agli insensati e irrealistici aumenti del canone, ma piuttosto bisogna dichiarare guerra ai “furbetti del canone” (Ugo Parolo, Lega, sottosegretario della Giunta Maroni).
E forse, anzi sicuramente, occorrerà anche un po’ più di determinazione e chiarezza da parte delle opposizioni in Consiglio regionale, sia da parte di chi ieri ha votato “criticamente” a favore (Pd, Patto Civico), che da parte di chi ha votato contro (M5S), ma senza chiarire come la pensa sulle case popolari.
Luciano Muhlbauer
Piove sul bagnato in Lombardia, come sempre quando parliamo di finanziamento pubblico alla scuola privata. Non c’è più il ciellino Formigoni, bensì il leghista Maroni, ma per il resto tutto sembra uguale. E così, anche ora i soldi per la lobby delle scuole private ci sono in abbondanza, mentre gli studenti delle pubbliche e le loro famiglie dovranno accontentarsi delle briciole. Anzi, questa volta nemmeno più delle briciole.
Infatti, guardando i numeri della manovra finanziaria uscita dalle commissioni e consegnata alla sessione di bilancio del Consiglio regionale, c’è da fare più di un salto sulla sedia! Rispetto all’anno scorso, il finanziamento del “buono scuola”, sussidio riservato alle famiglie degli alunni delle scuole private, rimane praticamente invariato, passando da 33 milioni di euro a 30, mentre gli stanziamenti destinati alle famiglie delle scuole pubbliche vengono letteralmente massacrati: la “dote per il sostegno al reddito” passa da 23,5 milioni a 5 (cinque), mentre quella per il “merito” passa da 5 milioni a 0 (zero).
In altre parole, secondo la destra unita che governa la Lombardia, cioè l’alleanza Lega-Fi-Ncd-Fdi, cose come austerity, spending review e tagli valgono soltanto per scuola pubblica, ma non per quella privata, anche se quest'ultima viene frequentata da un’esigua minoranza. Non c’è dunque da stupirsi che le associazioni di scuole paritarie e genitori della Lombardia si siano abbandonate a un entusiastico comunicato di plauso a Maroni per la sua “scelta coraggiosa e lungimirante”.
Ma i numeri e le cifre non ci dicono tutto e, ahinoi, la situazione è anche peggio. Già, perché le scuole private vengono privilegiate non solo dal punto di vista della quantità di denaro pubblico erogato, ma anche da quello del modo in cui i contributi vengono assegnati. Infatti, per poter accedere alla “dote sostegno al reddito” o alla “dote merito”, tutto sommato di entità modeste (tra 60 e 290 euro nel caso del sostegno al reddito), la famiglia deve avere dei precisi requisiti di reddito e di patrimonio (e di valutazione dello studente nel caso del merito) e dimostrarli mediante l’esibizione della certificazione ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente), cioè di quel riccometro di cui proprio in questi giorni si parla molto sulla stampa, preannunciando l’introduzione di parametri più stringenti.
Tutt’altra musica suona invece quando parliamo del “buono scuola”, perché le regole sopra ricordate non valgono più. Anzi, la Regione anni fa aveva addirittura inventato un sistema ad hoc per i richiedenti delle scuole private: niente certificato ISEE da esibire, ma soltanto un “indicatore reddituale” autocertificato. E c’è un bella differenza, perché non soltanto i limiti di reddito ammessi sono sensibilmente più alti, ma a differenza dell’ISEE, che si calcola tenendo presente reddito, patrimonio (immobili, conti correnti ecc.) e composizione del nucleo familiare, l’”indicatore” regionale considera soltanto il reddito e la composizione del nucleo familiare. In altre parole, se hai una casa di proprietà in San Babila a Milano, questo non ti impedisce minimamente di avere il sussidio regionale (ed è successo veramente!).
E, come se non bastasse, anche l’ammontare del contributo regionale è sensibilmente diverso. Per quanto riguarda il “sostegno al reddito” la “dote” viaggia, appunto, tra un minimo di 60 euro a un massimo di 290 euro, mentre nel caso del “buono scuola” le cifre sono rispettivamente 450 euro e 900 euro.
Insomma, se i tuoi figli vanno alla scuola pubblica e hai bisogno di un sostegno regionale, allora devi dimostrare di essere economicamente in una situazione difficile oppure tuo/a figlio/a deve essere particolarmente “capace e meritevole”. Se invece mandi i figli alla scuola privata, cioè se hai i soldi per farlo, allora non importa il profitto scolastico e nemmeno se sei benestante, perché l’unico vero requisito è, appunto, andare alla scuola privata.
Secondo chi governa Regione Lombardia, Formigoni prima, Maroni ora, tutto questo sistema va bene così. Loro dicono che lo Stato centrale si deve pagare la scuola pubblica, mentre la Regione deve finanziare la “libertà di scelta educativa delle famiglie” (vedi legge regionale n. 19/2007). E così, possiamo starne certi, giustificheranno anche la porcata del taglio della dote per le pubbliche, che è colpa dei tagli dei trasferimenti statali, e la contestuale salvaguardia del megafinanziamento alle private, che invece è merito della Regione.
A loro non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che la Regione e il suo bilancio, finanziato dalle tasse di tutti i cittadini (cioè, quelli e quelle che pagano le tasse), non sia cosa loro, ma cosa pubblica, di tutti e tutte. A loro il divieto costituzionale di finanziare la scuola privata non interessa, se non come ostacolo da aggirare. Per loro, evidentemente, è una cosa giusta e normale tagliare i contributi alle famiglie che ne hanno necessità –e diritto-, pur di poter riconfermare un privilegio e un ingiustificato sussidio a chi non ne avrebbe nemmeno bisogno, ma che in cambio rappresenta una potente clientela politica.
Ma non tutto tace per fortuna. Giovedì 5 dicembre, a partire dalle ore 15.00, ci sarà un presidio sotto il Pirellone, in via Fabio Filzi a Milano, contro lo scippo dei fondi per le pubbliche e contro il finanziamento delle private. Ci sarà l’Associazione NonUnoDiMeno, promotrice della petizione per l’abrogazione del “buono scuola” che ha già raccolto oltre 10mila firme, e ci saranno ovviamente gli studenti ( vedi evento fb).
Un presidio non sarà sufficiente e nemmeno una raccolta firme, ovviamente, ma bisogna pur rompere il silenzio e iniziare da qualche parte. Quindi, facciamo girare le informazioni e cerchiamo di contribuire, ognuno e ognuna come può, affinché in vista della sessione di bilancio (circa metà dicembre) si produca una mobilitazione forte contro questa autentica porcata.
Luciano Muhlbauer - Articolo scritto per MilanoX
Si può cavalcare la tigre dei forconi? I movimenti, i pezzi sparsi di sinistra, l’antagonismo possono attraversare e condividere lo spazio delle giornate “l’Italia si ferma!” e trarne qualcosa di utile e fecondo per una prospettiva di trasformazione politica e sociale? È sufficiente farsi un giro in rete e sui social network per capire che questa domanda aleggia un po’ ovunque. E pertanto è giusto e necessario parlarne.
Metto subito le mie carte su tavolo: io non penso si possa fare. Ma non perché condivida alcuni approcci un po’ troppo semplicistici, che ahinoi abbondano sul lato sinistro del mondo, per cui si preferisce mettere la testa sotto la sabbia di fronte a fenomeni e conflitti sociali che non rientrano nei nostri canoni tradizionali o che fatichiamo a leggere. Come se, così facendo, potessimo davvero esorcizzare una realtà che non è come la vorremmo.
Anzi, da questo punto di vista condivido molta parte delle argomentazioni che in questi giorni propone il sito Infoaut (vedi Quando Millennium People è sotto casa), perché guai a annebbiare la nostra vista e inaridire i nostri cervelli, a perdere la capacità di essere curiosi e di curiosare, a rifugiarci nelle rassicuranti certezze di un mondo che non esiste più. Saremmo dei matti, specie ora e qui.
Ma tutto questo non può significare che esistano delle scorciatoie per la ricostruzione di un progetto e di una soggettività della trasformazione. Insomma, non penso che si possa tanto semplicemente separare sociale e politico, per cui ora ci concentriamo sulla composizione sociale e le sue ambiguità, cercando nella pratica e sul campo un’interlocuzione, mentre la parte politica la mettiamo temporaneamente in disparte, come fosse cosa altra e comunque marginale.
Le giornate di blocchi e mobilitazioni dei forconi vedono in piazza una composizione sociale molto eterogenea e frammentata, da settori di piccola borghesia impoveriti –o che vivono nella paura dell’impoverimento- fino a settori popolari, uniti esclusivamente dalla rabbia e da un gigantesco contro: contro la politica, contro i politici, tutti a casa. Da una parte il popolo indistinto, dall’altra la casta.
Il perimetro, lo spazio in cui avvengono le manifestazioni non è neutro, è politicamente e culturalmente segnato. Lo è perché l’aria che tira è quella che è e, soprattutto, perché esistono degli organizzatori, dai Forconi al Life, che ovviamente non controllano con il telecomando tutte le mobilitazioni e le piazze, ma che, essendo chiaramente orientati a destra (vedi la denuncia dell’Osservatorio democratico), hanno impresso all’iniziativa sin dall’inizio una selezione di tematiche e priorità, una determinata direzione di marcia.
In altre parole, i fasci di Forza Nuova e Casa Pound, o qualche gruppo ultrà legato ai circuiti nazifascisti, ci sono non perché siano gli organizzatori principali (per fortuna non siamo ancora a questo), ma perché l’humus politico e culturale gli è congeniale, corrisponde ai loro discorsi e immaginari. E poi ci sono anche i celerini che si tolgono il casco davanti ai manifestanti, che magari è una bufala, ma in fondo non importa, perché comunque qualche pezzo della polizia rivendica alla grande quel gesto (vedi comunicato inquietante Siulp) e comunque non vedremo mai cose simili in Val di Susa, in un corteo studentesco o davanti una fabbrica occupata.
Insomma, non penso si possa cavalcare quella tigre, perché quella tigre non è neutra: il punto non è l’ambiguità sociale, bensì quella politica.
Infatti, valga come controprova il riuscitissimo corteo del 19 ottobre scorso a Roma. Se allora fossimo andati a fare l’esame del sangue politico a ogni singolo manifestante, specie nel nutrito e popolare spezzone romano, ne avremmo viste probabilmente di tutti i colori. Ma, appunto, c’era un perimetro politico disegnato dagli organizzatori ed è questo che ha determinato il messaggio e la direzione di marcia del corteo.
Certo, detto tutto questo, rimane l’eterno problema del che fare, di questi tempi sempre più impellente. Sono tempi pesanti, individualmente e collettivamente parlando, la confusione è tanta e ogni fatto di qualche rilevanza sullo scenario politico sembra avvenire sempre e comunque sul lato destro. E succedono cose, qua e là, che magari non finiscono in prima pagina, ma sono cariche di simbolismo, come la recente nomina a commissario straordinario per Pompei di un Generale dei Carabinieri.
Eppure scorciatoie non esistono e non esiste alternativa alla nostra presa di iniziativa, al nostro protagonismo. Anzi, è lo stesso “noi” che va rifatto. È difficile? Sì, molto, ma va fatto, perché se continuiamo ad abbandonare il campo, altri lo occuperanno. Se lasciamo che dal lessico del cambiamento venga espulso definitivamente il paradigma del conflitto sociale, per essere sostituito da quello della casta, allora il futuro si prospetta parecchio fosco. Insomma, come al solito, dipende soltanto da noi.
Luciano Muhlbauer
Meno male che ci sono gli studenti, perché altrimenti ci sarebbe probabilmente solo un assordante silenzio, tanto ingiustificato quanto inopportuno, di fronte all’ennesimo scempio contro la scuola pubblica da parte del governo di Regione Lombardia.
E stavolta è pure peggio di altre volte, perché non solo viene confermato il finanziamento pubblico di 30 milioni di euro alle scuole private, ma contemporaneamente si scarica sulle spalle delle famiglie della scuola pubblica l’intero peso dei tagli di bilancio, riducendo il finanziamento della “dote per il sostegno al reddito” da 23,5 milioni a 5 mln e azzerando addirittura quella per il “merito”, che quindi passa da 5 mln a zero (per un approfondimento leggi il nostro post del 4 dicembre scorso). Questo è quanto prevede, infatti, la manovra finanziaria della Regione, che sarà discussa e votata dal Consiglio regionale, convocato in sessione di bilancio il 16 e il 17 dicembre prossimi.
Insomma, il leghista Maroni riesce ad essere persino peggio del ciellino Formigoni, eppure le reazioni sono state finora assolutamente sottotono, a livello istituzionale, politico e sociale. Gli unici che si sono mossi con decisione sono l’Associazione NonUnodiMeno, che ha raccolto 15mila firme contro lo scandalo del “buono scuola”, e gli studenti.
Il 5 dicembre scorso erano tutti a presidiare il Pirellone, in occasione dell’audizione loro concessa dalla VII Commissione consiliare. Qualche organo di stampa ne ha poi parlato (per un giorno…) e gli ottimisti speravano in qualche fatto nuovo da parte di chi governa la Lombardia. Ma non è successo nulla, neanche un timido segnale, niente.
Ed eccoci dunque al nostro meno male che ci sono gli studenti, perché dopo il 5 dicembre non sono tornati a casa, ma hanno iniziato a organizzare la mobilitazione. L’appuntamento, promosso da Rete Studenti Milano, Casc, Unione degli Studenti e altri, è per lunedì mattina alle ore 9.30, a Milano. Si parte in corteo da L.go Caroli e si va in direzione Pirellone, sede del Consiglio Regionale (eventi fb: Rete e Casc e Uds). Le richieste al Consiglio regionale sono semplici e chiare: no al finanziamento pubblico della scuola privata, sì agli investimenti per la scuola pubblica.
Se potete, lunedì fateci un salto. Altrimenti, diffondete comunque le informazioni, perché la scuola pubblica riguarda tutti e tutte e l’unica maniera per ottenere un risultato è non far passare sotto silenzio questa ennesima porcheria.
Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 18 dicembre 2013
C’è una Lega delle parole e c’è una Lega dei fatti. La prima ama i comizi e si proclama forza del popolo, la seconda governa tre regioni del Nord e fa più o meno il contrario di quello che dice la prima. Storia vecchia, direte voi. Può darsi, ma qui non si tratta di discutere del passato, bensì del presente e di uno dei temi sociali e politici più rilevanti: la scuola e il diritto allo studio.
Ebbene, lunedì mattina a Milano c’è stata una protesta contro la trovata del Presidente regionale Maroni di tagliare drasticamente la spesa per la scuola pubblica e, contestualmente, di salvaguardare il consistente finanziamento pubblico alle scuole private. Insomma, come Formigoni, peggio di Formigoni.
Secondo la Lega e i suoi alleati, infatti, i fondi per il “buono scuola”, il sussidio riservato alle famiglie degli alunni delle scuole private, devono rimanere praticamente invariati rispetto all’anno precedente, passando da 33 milioni di euro a 30, mentre quelli destinati alle famiglie delle scuole pubbliche vanno fatti letteralmente a pezzi, riducendo la “dote per il sostegno al reddito” da 23,5 milioni a 5 e quella per il “merito” da 5 milioni a zero.
E i numeri non dicono nemmeno tutto, perché il sistema ideato a suo tempo da Formigoni è strutturalmente discriminatorio. Quindi, le famiglie della scuola pubblica, per poter avere un sussidio modesto, devono rispettare requisiti stringenti e presentare il certificato Isee, mentre quelle della scuola privata non solo hanno criteri molto più elastici e sussidi più generosi, ma soprattutto non devono presentare certificati. Basta, infatti, autocertificare un “indicatore reddituale”, dal quale è però esclusa ogni dichiarazione circa la situazione patrimoniale.
Contro questo scandalo, al quale oggi si aggiunge la beffa de tagli unilaterali, si sono mobilitati gli studenti, anche se solo pochi in giro per l’Italia lo sanno. Già, perché tutti i media, dai Tg nazionali alla carta stampata, hanno parlato della protesta e della sua vivacità, dell’acqua della fontana del Castello colorata di rosso, del corteo studentesco preso a manganellate davanti al Pirellone e del gruppo di studenti e insegnanti che ha interrotto i lavori Consiglio regionale. Ma, appunto, delle ragioni della protesta quasi nessuno ha parlato.
Ma il problema non è tanto il sistema informativo mainstream, quanto invece l’impressionante pochezza delle reazioni di chi, per ruolo politico o istituzionale, avrebbe invece il dovere di dire qualcosa sul merito della questione. Cioè, ognuno è libero di esternare come crede sulle forme della protesta, ma passare sotto silenzio le ragioni della mobilitazione non è ammissibile, non in questo caso.
Per non parlare, poi, dell’imbarazzante cinguettio del Ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, che commentava così la giornata: “Agli studenti di Milano: questo è il governo che ha investito sulla scuola. Basta con la violenza, protesta sì ma non violenta”. Almeno informarsi prima di parlare, no? In fondo, sarebbe istituzionalmente di interesse del Ministro dell’Istruzione sapere cosa sta facendo Regione Lombardia con il denaro pubblico in materia di istruzione.
Insomma, meno male che ci sono gli studenti, perché senza di loro avrebbe regnato il silenzio su questo ennesimo scandalo lombardo. Ma, a parte poche e lodevoli eccezioni, sono stati lasciati da soli e quindi difficilmente potevano riaprire i giochi. E così, nella giornata di ieri, il Consiglio regionale ha votato i tagli di Maroni. Colpa della Lega? Sì, certo, ma anche di chi è stato in silenzio o ha parlato d’altro.
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