Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nasce oggi la Concessioni autostradali lombarde, Cal, e con essa nasce anche la grande coalizione delle grandi opere. Un vero e proprio coro, infatti, si è levato per salutare la nuova società, costituita pariteticamente da Anas e da Infrastrutture Lombarde Spa.
Tutti contenti, a quanto pare. Formigoni sicuramente, perché si porta a casa un bel regalo potendo controllare il 50% della nuova società e dei relativi poteri, mentre i soldi continua a metterceli lo Stato. Contento anche il Ministro Di Pietro, che parla di una nuova coalizione, quella “che non si vede ma c’è”. Contento infine, l’Ulivo lombardo, che da sempre vive con disagio le critiche e le obiezioni alle grandi opere autostradali.
Checché se ne dica, il federalismo c’entra ben poco in questa vicenda. Quello che realmente conta è che la Cal significa procedure semplificate e accelerate per realizzare le tre grandi opere autostradali, la Pedemontana, di cui oggi è stato firmato l’accordo di programma, la BreBeMi e la Tem.
Nella nostra regione c’è una rete stradale ordinaria, quella più utilizzata dai cittadini, che necessita di molteplici interventi, come sollecitano le comunità locali. Ma per quella, di soldi e poteri speciali non ce ne sono. In Lombardia c’è una rete ferroviaria assolutamente sottodimensionata rispetto alla domanda di mobilità, ma di grandi coalizioni per rilanciare il trasporto pubblico non se vedono. Tutti a dire, giustamente, che l’inquinamento prodotto dal traffico automobilistico privato è un’emergenza, ma poi si vuole riempire la Lombardia di colate di asfalto.
Tutti contenti dunque? Non proprio. Noi, certamente, non lo siamo. Anzi, pensiamo sia davvero miope credere che i problemi infrastrutturali e ambientali della Lombardia si possano affrontare con le grandi e costosissime opere autostradali”.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer e Osvaldo Squassina, pubblicato su il Manifesto del 21 febbraio 2007 (pag. Milano)
Oggi il Consiglio Regionale ha deciso di affrontare con urgenza la questione della proroga per l’entrata in vigore della legge regionale sui phone center (l.r. 3 marzo 2006, n.6), prevista per fine marzo. La competente commissione consiliare avvierà dunque la discussione entro e non oltre la prima settimana di marzo.
In Lombardia esistono quasi 3.000 phone center, di cui ben 700 si trovano a Milano. Ebbene, la grandissima maggioranza di loro rischia la chiusura immediata qualora tra un mese entrasse in vigore la legge.
Rifondazione Comunista non l’aveva votata un anno fa, perché riteniamo inaccettabile e illegittimo che vengano stabilite regole speciali per un determinato settore commerciale, semplicemente perché utilizzato da cittadini immigrati. Ma, come se non bastasse, quella legge si è dimostrata anche inapplicabile. Infatti, un phone center che volesse mettersi in regola con la legge dovrebbe, in buona parte dei casi, trovarsi una nuova sede, poiché non dappertutto si possono fare le opere edilizie richieste. Ma, e sta qui l’inghippo, l’articolo 7 vieta ogni ‘rilocalizzazione’ o nuova apertura fino all’adozione, da parte del comune di competenza, di una serie di atti specifici di Pgt. Ovviamente, gran parte dei comuni lombardi non l’ha fatto.
Oggi, non abbiamo preteso di ridiscutere la legge, ma semplicemente di compiere un atto di buon senso e di buon governo, evitando che i ritardi burocratici della pubblica amministrazione si scarichino sui cittadini più deboli, attraverso un’ondata di chiusure forzate.
Non è stato possibile far votare una proroga nell’odierna seduta, ma il fatto che la maggioranza abbia accettato di riaprire la discussione rappresenta un piccolo passo avanti che noi valutiamo positivamente.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 3 marzo e su il Manifesto (pag. Milano) del 6 marzo 2007
Ci risiamo, sta arrivando un altro processo e con esso l’ennesimo teorema politico. Il 16 marzo prossimo, infatti, si apre a Milano il procedimento contro 28 persone per fatti legati alla Mayday Parade del 2004.
Il vicesindaco meneghino, De Corato, ormai privo di deleghe importanti e impegnato a piazzare telecamere, non ha perso tempo per chiarire quale sarà il leitmotiv della strumentalizzazione politica. Così, “spezzoni eversivi no global”, “attivisti dei centri sociali” e rischi di “travaso verso il terrorismo” disegnano un oscuro scenario che finisce inesorabilmente per indicare nei soliti centri sociali e nelle manifestazioni di piazza il problema da eliminare.
D’altronde, l’impianto accusatorio del processo si presta benissimo, basato com’è sull’assemblaggio arbitrario di fatti diversi e distanti tra di loro. Troviamo quindi persone accusate di danneggiamenti e incendi, altre di aver semplicemente imbrattato i muri cittadini mediante bomboletta spray, così come attivisti e sindacalisti colpevoli di aver picchettato in mattinata alcuni supermercati che non rispettavano la chiusura del 1° maggio. Ci sono poi due ragazzi e due ragazze accusati di manifestazione non autorizzata, svoltasi però due settimane dopo la Mayday Parade. Ma la vera chicca è costituita senz’altro dalla riesumazione del Regio decreto n. 773 del 1931, con il quale cinque persone vengono accusate –e non stiamo scherzando- di aver distribuito “scritti e disegni nelle forme di volantini e striscioni reclamizzanti l’iniziativa ‘MayDay Parade’ contrari agli ordinamenti politici, sociali od economici costituiti nello Stato”. Cioè, sono sotto processo perché pubblicizzavano una manifestazione, peraltro regolarmente autorizzata!
Siamo di fronte a un procedimento dalla dubbia ratio giuridica, ma dall’inequivocabile valenza politica. Vale a dire, a finire sul banco degli accusati è la Mayday Parade. Questo fatto dovrebbe giustificare di per sé una reazione politica e civile ampia, ma in realtà c’è ben altro, poiché non è certo la prima volta che fatti processuali diventano strumento di battaglia politica contro i movimenti.
Rinfreschiamoci dunque la memoria. Dopo il mezzogiorno di follia dell’11 marzo scorso, 25 ragazzi e ragazze hanno subito quattro mesi di carcerazione preventiva. Un fatto senza precedenti nella storia recente della nostra città e una violazione bella e buona dei principi dello stato di diritto. Quella vicenda fu accompagnata da una campagna politica ossessiva e coerente che additava i centri sociali tout court come luoghi eversivi e ostili. E, inutile negarlo, quella campagna produsse dei risultati, perché è riuscita nell’intento di produrre isolamento politico.
Anche i recenti arresti dei presunti neobrigatisti sono stati accompagnati da strumentalizzazioni politiche di ogni tipo. Alcuni degli arrestati avevano la tessera della Fiom in tasca? E quindi avanti con gli interessati “inviti” alla Fiom di moderare i toni e di essere più mansueta, come se questo centrasse qualcosa. All’interno della stessa Confederazione di appartenenza si sono moltiplicate le voci che chiedono di rompere ogni rapporto con i movimenti sociali, in particolare con i sindacati di base e con i centri sociali. E anche questa campagna rischia di produrre dei risultati.
Beninteso, qui non si tratta di evocare inesistenti trame e complotti, bensì di cogliere e leggere una serie di dinamiche convergenti che tendono a produrre un senso comune ostile al conflitto sociale e a provocare isolamento e divisione tra le realtà di movimento. In altre parole, dopo l’esaurimento del ciclo delle grandi mobilitazioni –Vicenza a parte-, ora rischiamo la definitiva chiusura del varco aperto da Genova sei anni fa, con la recisione della rete di comunicazione e iniziativa tra movimenti e organizzazioni sociali diversi tra di loro. Questa ci pare essere la posta politica in gioco.
L’esperienza concreta ci ha insegnato che queste dinamiche non hanno trovato un granché di capacità di reazione, ma piuttosto un rassegnato chiudersi su sé stessi. Di questo passo, e non ci vuole molto a capirlo, il futuro non promette nulla di buono. Forse vale la pena parlarne.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 9 marzo 2007 (pag. Milano)
L’analisi dei dati relativi all’erogazione dei 43 milioni di euro del cosiddetto “buono scuola” per l’anno scolastico 2005/2006 riconferma per il quinto anno consecutivo l’esistenza di un vero e proprio scandalo. Infatti, il 99% degli studenti destinatari del “buono” frequentano la scuola privata e il 63% delle famiglie beneficiarie dispongono di un reddito dichiarato che si colloca nella fascia tra 35 e 180mila euro.
Il buono scuola è un sussidio regionale, introdotto dalla giunta Formigoni nel 2001, che viene erogato alle famiglie che ne facciano richiesta a copertura parziale (25% o 50%) delle rette scolastiche. Formalmente è accessibile a tutte le famiglie del milione di studenti lombardi, ma di fatto i requisiti ne escludono il 90%, cioè i ragazzi che frequentano la scuola pubblica. Ufficialmente il buono serve per consentire la “libertà di scelta” tra scuola pubblica e privata a quelle famiglie che per condizione economica non potrebbero esercitarla, ma in realtà la maggior parte dei fondi finisce in mano a famiglie per nulla bisognose. E così, grazie anche all’uso di un indicatore Isee molto sui generis, che non considera nemmeno la situazione patrimoniale, succede che persone residenti in costosissime vie milanesi, come via Della Spiga o Galleria San Babila, possano tranquillamente ottenere un contributo regionale.
In altre parole, mentre per il diritto allo studio di tutti gli studenti lombardi sono stati spesi appena 7 milioni, ben 43 milioni di euro di sussidi, pagati dal contribuente, sono invece piovuti sulle scuole private e su famiglie benestanti. Complimenti Presidente Formigoni, lo Sceriffo di Nottingham non avrebbe potuto fare di meglio!
Rifondazione Comunista chiede, ancora una volta, che venga posto fine a questo scandaloso e immorale drenaggio di denaro pubblico a favore di una vera e propria clientela elettorale. Le ingenti risorse del “buono scuola”, 192 milioni di euro in cinque anni, andrebbero piuttosto indirizzate verso quelle famiglie lombarde, davvero bisognose di un sostegno, che faticano a sostenere i costi dell’istruzione, a partire dal caro-libri, e verso il contrasto del fenomeno dell’abbandono scolastico.
qui sotto puoi scaricare l’analisi del Gruppo regionale del Prc
Rifondazione Comunista, insieme a tutta l’Unione, aveva chiesto a Regione Lombardia di prorogare l’entrata in vigore della legge regionale sui phone center, prevista per il 22 marzo prossimo. Era una proposta di buon senso e di buon governo, ma la maggioranza di centrodestra si è compattata attorno all’estremismo xenofobo della Lega Nord, respingendo ogni ipotesi di proroga in sede di IV Commissione consiliare, nella giornata di ieri.
E’ di poche ore fa, invece, la notizia che il TAR di Brescia ha accolto il ricorso di un gestore di phone center, al quale era stata imposta la chiusura in base alla legge regionale. Secondo il tribunale, infatti, ci sono dubbi di legittimità costituzionale ‘nella parte in cui regola in modo dettagliato l'attività in questione imponendo ai centri... già operanti l'onere di adeguamento delle strutture in un termine non ulteriormente prorogabile’.
Questa sentenza dà ragione a quanti, noi compresi, da tempo sostengono che la legge regionale impone delle norme speciali e discriminatorie a un settore commerciale, soltanto perché gestito e frequentato prevalentemente da cittadini immigrati. Chiediamo dunque ancora una volta che la parte moderata del centrodestra regionale torni alla ragione, sottraendosi al ricatto dei razzisti della Lega Nord, il cui unico obiettivo è la chiusura massiccia dei phone center lombardi.
Martedì 13 marzo il Consiglio regionale affronterà definitivamente la questione della richiesta di proroga. C’è ancora tempo per modificare l’insana decisione presa ieri in Commissione. Noi ci impegneremo in tal senso, ma se il centrodestra lombardo dovesse confermarsi ostaggio della Lega, allora saremo pronti a sostenere tutti i ricorsi contro una normativa illegittima e discriminatoria.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
qui sotto puoi scaricare la sentenza del TAR sezione di Brescia
C’è davvero da chiedersi dove arriveremo di questo passo. L’Assessore regionale al Territorio, Boni, sembra essersi ormai completamente dimenticato delle sue funzioni e responsabilità istituzionali, per dedicarsi a tempo pieno alla campagna politica della Lega contro gli immigrati.
Infatti, l’emendamento alla legge regionale sul governo del territorio (l.r. n.12), annunciato oggi alla stampa, ma non ancora alla competente commissione consiliare, ha il palese e unico obiettivo di impedire ai cittadini di fede islamica di poter esercitare la libertà di culto. Anzi, cerca in maniera particolare di impedire la costruzione di un nuovo centro culturale in via Padova a Milano e lo spostamento della moschea di viale Jenner, che da anni tenta di trasferirsi in luogo più idoneo, senza però riuscirci a causa del veto degli amministratori milanesi.
Già un anno fa, in occasione di un’altra modifica della legge 12, l’assessore Boni aveva imposto una prima norma contro i luoghi di culto. Quella modifica e l’odierno emendamento sono palesemente illegittimi, in quanto violano i principi costituzionali in materia di libertà religiosa. E sono stati sempre l’assessore Boni e la Lega Nord a guidare la crociata per la chiusura massiccia dei phone center, che ha portato alla poco edificante seduta del Consiglio regionale di martedì scorso.
Evidentemente, la Lega Nord, in forte crisi di consenso nelle aree metropolitane, sta cercando di risalire la china, caratterizzandosi sempre di più come forza xenofoba. Una sorta di lepenismo in salsa padana, insomma. Tutto ciò è preoccupante in sé, ma diventa ancora più inaccettabile se la campagna di inciviltà e di odio viene condotta abusando con regolarità delle istituzioni e delle leggi.
Facciamo ancora una volta appello alla coscienza democratica e civile delle forze moderate del centrodestra lombardo perché pongano fine a questo scempio, che ormai sta superando ogni limite. Boni scelga se fare l’assessore o il Le Pen padano. Tutte e due le cose insieme non sono possibili.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Oggi a Milano si è tenuta la prima udienza del processo contro 28 persone per i fatti legati alla Mayday Parade del 2004, con il rinvio però di tutto al 17 luglio prossimo. Il Comune di Milano, come anticipato dal vicesindaco De Corato, ha annunciato formalmente di volersi costituire parte civile.
Esprimiamo la nostra preoccupazione per un impianto accusatorio che sembra voler mettere sotto processo l’intera MayDayParade, cioè quella iniziativa di mobilitazione che da anni porta nelle strade milanesi decine di migliaia di precari.
Infatti, la pubblica accusa ha operato un assemblaggio arbitrario di fatti diversi e distanti tra di loro, dai danneggiamenti alle semplici scritte sui muri, fino ai presidi di protesta davanti ad alcuni supermercati che non rispettavano la giornata di chiusura del Primo Maggio. Ma l’oscar va sicuramente alla riesumazione del Regio decreto n. 773 del 1931, con il quale sindacalisti e attivisti vengono accusati di aver distribuito “scritti e disegni nelle forme di volantini e striscioni reclamizzanti l’iniziativa ‘MayDayParade’ contrari agli ordinamenti politici, sociali od economici costituiti nello Stato”. Cioè, sono sotto processo perché pubblicizzavano una manifestazione, peraltro regolarmente autorizzata.
Un’occasione troppo ghiotta per il vicesindaco De Corato, dedito da anni alla sua guerra privata contro chiunque in città non la pensi come lui, che infatti ha imposto la costituzione in parte civile del comune di Milano. L’obiettivo politico, più volte dichiarato, è quello di limitare la libertà di manifestazione.
Sarà ovviamente il giudice a occuparsi degli aspetti processuali, ma dalla politica deve arrivare un deciso segnale di contrasto dell’ennesimo teorema politico. In una città dove da anni oltre il 70% delle nuove assunzioni ha carattere atipico, ci aspettiamo che un vicesindaco si occupi della piaga della precarietà e non della criminalizzazione dei precari che manifestano, delle condizioni di lavoro e di vita dei giovani milanesi e non delle sue guerre private.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
L’invito esplicito di “garrotare” i cittadini e le cittadine gay, lanciato dalle pagine de il Giornale dall’assessore regionale di An, Prosperini, equivale a una vera e propria istigazione a delinquere. Nel nostro Paese avanza una preoccupante campagna omofoba e ritornano dal passato concetti aberranti, come quelli che identificano nell’omosessualità una malattia da curare. Una campagna scatenata consapevolmente dalle Destre e che, in questi ultimi anni, ha favorito un clima di intolleranza, sfociato persino in aggressioni fisiche.
L’assessore regionale, Prosperini, non è nuovo a uscite del genere. Per chi vive e fa politica in Lombardia, ahinoi, è una triste abitudine sentire parole di incitamento all’odio da parte sua, ma non solo. Perché Prosperini non è l’unico componente della Giunta Formigoni a inondare televisioni locali e carta stampata con frasi degne di un gerarca del Ventennio.
Conosciamo bene la differenza tra le parole e i fatti e difendiamo fino in fondo la libertà di esprimere le proprie opinioni. Tuttavia, sarebbe un errore imperdonabile non rendersi conto che la continua e prolungata legittimazione del razzismo, dell’omofobia e dell’intolleranza da parte di importanti esponenti istituzionali produce guasti profondi nel corpo sociale della nostra regione.
Le parole di Prosperini sono inconciliabili con l’importante posizione istituzionale che egli occupa e pertanto chiediamo, insieme a tutta l’Unione, le sue immediate dimissioni. Non è ulteriormente tollerabile che il Presidente Formigoni faccia lo struzzo. E riteniamo sia giunto il momento che si assuma le proprie responsabilità, rimettendo la Giunta su un binario compatibile con i valori della democrazia e della civiltà.
dichiarazione congiunta di Luciano Muhlbauer, Mario Agostinelli e Osvaldo Squassina (Prc)
Stanno arrivando le prime segnalazioni di chiusure forzate di phone center in base alla legge regionale entrata in vigore oggi. Per ora si tratta di notizie frammentarie provenienti da fuori Milano. Ma cresce la preoccupazione anche in città, dove si trovano quasi 700 centri di telefonia fissa, poiché le dichiarazioni provenienti dal Comando della Polizia locale e dall’Assessore alle attività produttive di Milano, Maiolo, non fanno purtroppo sperare in bene.
Chiediamo ancora una volta un semplice atto di buon senso e buon governo. È inutile, e anche un po’ ipocrita, invocare il rispetto della legalità, quando il primo a non rispettare la legge regionale in questione è stato il Comune di Milano, insieme al restante 85% dei comuni lombardi.
Infatti, l’articolo 7 della legge regionale 6/2006 ha imposto ai Comuni di realizzare atti di governo del territorio al fine di individuare le aree dove i phone center possono essere aperti. In assenza di tali provvedimenti è vietata non solo l’apertura di nuovi centri, ma anche la rilocalizzazione di quelli esistenti. In altre parole, un phone center milanese che nell’ultimo anno avesse voluto adeguarsi alle norme restrittive delle legge e che per fare questo avesse dovuto spostarsi in una nuova sede, semplicemente non poteva farlo a causa delle inadempienze del Comune. E non si tratta di casi isolati, visto che il rispetto della normativa regionale comporta spesso l’impossibilità di mettersi in regola negli spazi attualmente occupati.
Prima di chiedere agli altri di adeguarsi alla legge, la pubblica amministrazione dovrebbe fare il primo passo, soprattutto quando le proprie inadempienze non vengono pagate in prima persona, ma da altri. Insomma, un Comune non rispetta la legge e a pagare il conto è il phone center che viene chiuso! C’è qualcosa di profondamente immorale in tutto questo.
Le intemperanze xenofobe di Salvini, in cerca di pubblicità in vista del 26 marzo, le comprendiamo, anche se le riteniamo aberranti. Ma auspichiamo vivamente che il sindaco Moratti e l’assessore Maiolo non vogliano seguire la sua strada e che si adoperino per fermare questo gioco al massacro, mettendo in campo la politica, il buon senso e la ragionevolezza.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Il gruppo consiliare regionale di Rifondazione Comunista aderisce e sarà presente alla manifestazione convocata per domani a Milano dal “Comitato promotore contro la legge regionale n.6”.
Non avevamo votato la legge regionale n. 6/2006 un anno fa, perché la ritenevamo una legge speciale, per alcuni aspetti di dubbia legittimità costituzionale, orientata non tanto a regolamentare un settore commerciale, ma piuttosto a provocare la chiusura massiccia dei phone center. Peraltro, il dibattito politico e istituzionale era nato sotto la spinta della Lega Nord e di An, i quali sostenevano la necessità di una legge ad hoc perché individuavano nei phone center un “ luogo di aggregazione di immigrati ” e quindi di per sé meritevole di controlli e norme particolari.
Un anno dopo, le nostre obiezioni e posizioni hanno trovato conferma nella realtà. La legge regionale è semplicemente inapplicabile, se non al prezzo dell’eliminazione forzosa di un intero settore commerciale e con esso di un prezioso servizio per i lavoratori immigrati presenti nella nostra regione. Infatti, non soltanto il 90% dei quasi 2.700 phone center risultano non in regola con la nuova norma restrittiva, ma anche l’85% dei Comuni lombardi, compresa Milano, non ha adempiuto agli obblighi imposti dalla legge regionale. Lo stesso TAR della Lombardia, sezione di Brescia, accogliendo un ricorso dei gestori di phone center, ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale.
Di fronte a questa situazione, Rifondazione Comunista e tutta l’Unione avevano chiesto in Consiglio regionale il rinvio di un anno dell’entrata in vigore della legge, al fine di evitare il precipitare della situazione e di poter riesaminare con serenità il merito della legge, di concerto con gli enti locali e le associazioni di categoria. Una proposta di buon senso e di buon governo, ma ciononostante respinta dalla maggioranza formigoniana sotto il ricatto leghista.
Infine è stata gettata la maschera. Non si trattava e non si tratta di regolamentare un’attività commerciale, bensì di muovere guerra a dei luoghi, “colpevoli” di essere gestiti e frequentati anzitutto da cittadini immigrati. Un provvedimento insensato, immorale e intriso di demagogia razzista, che assesta un nuovo colpo alla convivenza nella regione che da sola concentra un quarto dell’immigrazione nazionale.
I consiglieri regionali di Rifondazione sostengono tutte le opposizioni alla legge xenofoba sui phone center e per questo domani saranno al fianco dei manifestanti. E rinnoviamo il nostro appello al buon senso e alla ragionevolezza, in primis al Comune di Milano, perché le istituzioni non si arrendano al razzismo della Lega Nord.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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