Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
È passato appena un mese dalla cancellazione del murale che ricordava Dax, il giovane assassinato da alcuni neofascisti, ed ecco che gli amministratori di Milano tornano alla carica, annunciando l’eliminazione di quello di via Bramante, dedicato a Carlo Giuliani, il manifestante ucciso nel corso della repressione delle iniziative genovesi del 2001.
Il vicesindaco De Corato, come sempre, motiva questi proclami con la necessità di ridare decoro alla città, pulendone i muri dai graffiti. Ammesso e non concesso che a Milano il principale problema in materia di decoro urbano siano i graffiti e non, per esempio, il prolungato abbandono istituzionale delle periferie popolari, resterebbe comunque da spiegare come mai gli amministratori milanesi se la prendano sempre e soltanto con una determinata categoria di murales. Cioè, come mai ci sia una pulizia selettiva.
Infatti, come sanno bene anzitutto i funzionari dell’Amsa, sui muri cittadini vi è un numero significativo e crescente di scritte e disegni di stampo neofascista o peggio, compresi degli insulti contro i Partigiani. Diverse volte, cittadini indignati o la stessa Anpi ne hanno chiesto la rimozione, ma senza ottenere risposta alcuna. Anzi, il solitamente prolisso De Corato non sente nemmeno il bisogno di dedicare alla vicenda una riga di un suo comunicato stampa.
Lasciando un attimo da parte le nostre considerazioni sulle campagne sommarie contro i writers, risulta tuttavia evidente che qui il problema non è il decoro urbano, bensì la cancellazione delle memorie ritenute scomode. Ebbene sì, perché murales come quelli di Dax o Carlo rappresentano un monito, un promemoria collettivo. D’altra parte, cosa aspettarsi da un’amministrazione comunale che cerca di far sparire la lapide a Pinelli da Piazza Fontana oppure di tumulare i resti dei partigiani insieme a quelli dei loro assassini?
Qui la pulizia dei muri non c’entra proprio nulla. Qui c’entra soltanto la peggior politica possibile, cioè quella che abusa dei poteri amministrativi per aggredire gli avversari politici con ogni mezzo, compresa la manipolazione della memoria della città.
Per questi motivi, aderiamo con convinzione all’appello alla mobilitazione per impedire questo ennesimo scempio, reso pubblico oggi dal centro sociale Il Cantiere, così come riaffermiamo il nostro sostegno agli amici di Dax, che si apprestano a restaurare il murale già cancellato.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberamente n.3, settembre-ottobre 2007
Sicurezza, sicurezza e ancora sicurezza. Il dibattito politico e l’informazione ne sono letteralmente inondati e intossicati. In Lombardia eravamo già abituati, ma a nessuno può sfuggire il salto di qualità di questi ultimi tempi. Non solo l’ansia securitaria ha raggiunto luoghi fino a ieri impensabili, come la tranquilla Firenze, ed è diventata elemento costituente del Partito Democratico, ma scava sempre più a fondo nella coscienza popolare.
Quando, in nome della “sicurezza”, l’inverno scorso a Opera bruciarono le tende della protezione civile che ospitava alcune famiglie rom, molti, anche a sinistra, finsero di non capire. Ora è arrivata Pavia, dove la dinamica di Opera si è riprodotta pari pari, con l’unica differenza che a innescarla è stato un sindaco di centrosinistra.
Ma tra Opera e Pavia è successo di tutto. Dalla specialità milanese del nomadismo degli sgomberi dei rom, cacciati da una parte per finire sotto i ponti da un’altra, fino alla moltiplicazione delle campagne contro le cosiddette “moschee abusive”, salvo poi impedire l’apertura di luoghi di culto regolari. E in mezzo ci sono tutti gli altri, i clandestini, le prostitute, i graffitari, i tossici e così via. Visto il clima, come stupirsi poi che il sindaco di Morazzone, piccolo comune del Varesotto, abbia partorito l’impareggiabile idea di segnalare preventivamente ai carabinieri ogni matrimonio tra cittadini italiani e stranieri?
Tutto quanto per la sicurezza, ovviamente, ma sempre e comunque diretto contro soggetti deboli o marginali o malvisti. Di risolvere i problemi, che ci sono, sembra che non gliene freghi più niente a nessuno, specie ora che anche buona parte del Piddì è salito sul carro. Anzi, le paure e le “percezioni di insicurezza” diventano merce pregiata sul mercato della politica, da utilizzare e da cavalcare per raccattare con ogni mezzo consenso elettorale.
Nel frattempo, però, tutto questo ignobile gioco finisce per scavare profonde ferite nel corpo sociale, legittimando la xenofobia o peggio. Le ronde razziste della Lega o fatti come quelli di Busto Arsizio, dove un ex-partigiano è stato insultato nella pubblica piazza nell’indifferenza generale, stanno lì a dimostrarlo.
Insomma, è giunto davvero il momento che a sinistra –compreso il nostro partito- si prenda atto fino in fondo di quello che sta avvenendo e che si inizi a reagire. La mobilitazione antirazzista di Pavia del 29 settembre è stato un primo passo, certo ancora flebile, ma ci indica la via da percorrere.
Da quando il governo ha deciso di impugnare presso la Corte Costituzionale la legge regionale n. 19, “Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia”, non è passato giorno senza che il Presidente Formigoni non lamentasse una presunta lesione della sovranità della Lombardia oppure che i suoi assessori e consiglieri non esibissero liste di attestati di sostegno alla legge, provenienti dal “mondo della scuola, della formazione e del tessuto produttivo”.
In fondo, è sufficiente leggere bene quelle liste per scoprire che si tratta soprattutto di soggetti che ottengono un beneficio, diretto o indiretto, dall’apertura ai privati dell’istruzione tecnico e professionale, come la Compagnia delle Opere o le associazioni padronali. Dall’altra parte, che a Formigoni interessasse ben poco il dialogo con studenti, insegnati e genitori era stato chiarito dalla scelta di far approvare la controriforma gli ultimi giorni di luglio, in maniera semiclandestina, sebbene la legge fosse ancora incompleta.
Ma la migliore smentita della favola del sostegno del “mondo della scuola” al progetto di Formigoni è arrivata dalle migliaia di studenti medi che oggi hanno manifestato a Milano e che hanno fortemente contestato la legge regionale. E così, dopo le proteste da parte di molte organizzazioni sindacali degli insegnanti, come la Cgil, Rete Scuole e i sindacati di base, iniziano a far sentire la loro voce anche i ragazzi.
Ringraziamo sinceramente gli studenti milanesi per la loro operazione verità e auspichiamo che le manifestazioni di dissenso continuino rumorose, vista l’ostinata sordità del governo regionale. Per quanto ci riguarda, invitiamo ancora una volta il centrodestra lombardo ad abbandonare la strada dell’arroganza e a riportare la legge in Consiglio regionale.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 13/10/2007, in Lavoro, linkato 1467 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 13 ott. 2007 (pag. Milano)
All’alba di lunedì 8 ottobre, la parte sud-orientale di Milano offriva uno spettacolo impressionante: centinaia di Tir sostavano un po’ ovunque e il consueto intasamento del traffico mattutino ne risultava così ulteriore amplificato. Persino i mezzi per la raccolta dei rifiuti dell’Amsa faticavano ad uscire dai loro depositi. Era questo l’effetto più visibile dello “sciopero spontaneo”, con annesso blocco degli ingressi, degli operai dell’Ortomercato milanese, la più grande struttura del genere in Italia con i suoi 450mila mq di superficie.
Lo sciopero, iniziato domenica sera e proseguito fino alla mattina successiva, era stato promosso da un nutrito gruppo di lavoratori delle cooperative storiche per rivendicare il rispetto delle misure di sicurezza -tre sono le morti bianche negli ultimi tre anni- e provvedimenti contro lo sfruttamento del lavoro nero. A bloccare gli ingressi erano circa 150 operai, sostenuti anche dalla presenza solidale di delegazioni di SdL intercategoriale, Slai-Cobas e C.s. Vittoria, nonché da una rappresentanza della segreteria della Filcams-Cgil.
Il tutto filava liscio per molte ore, poiché gli stessi camionisti, costretti a un lunga attesa, si mostravano assai comprensivi con gli scioperanti, ma verso le cinque del mattino, a riprova della situazione grave all’interno dell’Ortomercato, una cinquantina di persone, organizzate da personaggi ambigui, compreso qualche noto caporale, ha cercato lo scontro, al fine di forzare il blocco. Mossa comunque non riuscita, grazie al senso di responsabilità degli operai in sciopero e all’atteggiamento intelligente tenuto in questa occasione dalla questura.
Questa sintetica cronaca non rende tuttavia giustizia al coraggio dei lavoratori, perché scioperare all’Ortomercato -o semplicemente denunciare quanto vi avviene- non è facile, né esente da rischi. Ne sanno qualcosa due operai delegati alla sicurezza, Jose Dioli e Giuseppe Sangiorgi, che hanno subìto ripetutamente minacce e intimidazioni a causa della loro attività e che ora, in seguito allo sciopero, sono ulteriormente esposti.
Dall’altra parte, è di pubblico dominio che all’Ortomercato succeda un po’ di tutto. Una recente operazione delle forze dell’ordine aveva persino scoperto un traffico all’ingrosso di stupefacenti che faceva capo alla ‘ndrangheta. Eppure, tanti anni di denunce e fattacci non hanno migliorato significativamente la situazione, nonostante l’Ortomercato sia gestito da un ente pubblico, la Sogemi, che è una controllata del Comune di Milano. Solo di recente sono stati messi in cantiere progetti per migliorare la sicurezza e contrastare il lavoro nero, ma, come dimostra lo sciopero di domenica, quello che manca sono i fatti concreti. L’ennesima dimostrazione che a Milano le tante chiacchiere sulla legalità valgono soltanto per alcune categorie di sfigati, ma non per gli interessi consolidati.
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Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 16 ott. 2007 (pag. Milano)
Questo fine settimana Formigoni ci ha consegnato l’ennesima sceneggiata contro l’impugnativa della legge regionale n. 19, relativa al sistema di istruzione e formazione lombardo, con un inedito atto di “diffida” rivolto al Ministro dell’Istruzione. Ma è dal 28 settembre scorso, quando il Consiglio dei Ministri decise di ricorrere alla Corte Costituzionale, che non passa giorno senza che il Presidente scagli anatemi o si inventi iniziative di ogni tipo, compresa una mobilitazione di piazza autocelebrativa, alla maniera di Ceausescu, che in realtà radunò solo poche centinaia di persone appartenenti all’universo ciellino, ma che l’abile comunicatore riuscì a vendere a una stampa compiacente come il “sostegno del mondo della scuola”.
C’è davvero da chiedersi quanti cittadini lombardi abbiano capito il vero oggetto dello scontro, dal momento che la legge regionale, approvata in fretta e furia il 27 luglio scorso, è un’emerita sconosciuta per i non addetti ai lavori e che tutta la comunicazione pubblica ripropone il cliché del conflitto tra un Governo nazionale conservatore e ostile e una Lombardia dinamica e produttiva. E così, chiunque osi contraddire le scelte di Formigoni e della sua maggioranza, finisce inevitabilmente sul banco degli accusati per attività anti-lombarde.
Certo, un po’ comprendiamo l’ira del Presidente, avendo egli, a suo tempo, incassato la benevola astensione dell’Ulivo lombardo e, presumibilmente, qualche incauta assicurazione che a Roma avrebbero lasciato fare. E, infatti, l’attuale imbarazzo di molti dirigenti del Piddì regionale, accusati di “sudditanza” a Formigoni persino dall’ulivista Riccardo Sarfatti, è sotto gli occhi di tutti.
Tuttavia, sarebbe un grave errore pensare che il progetto formigoniano sia a questo punto stoppato o che sia sufficiente affidarsi alle iniziative del Governo, il quale ha agito anzitutto per un elementare senso di tutela del quadro normativo vigente, di fronte alla carica destabilizzante della legge lombarda. Formigoni può, infatti, contare su numerosi e significativi appoggi, a partire dai cosiddetti poteri forti, dalla Compagnia delle Opere a Confindustria, nonché sulla palese non ostilità della maggioranza del Partito Democratico. E nessuno starà a guardare, vista la posta in gioco e i consistenti interessi materiali implicati.
Ebbene sì, perché qui non si tratta semplicemente della tendenza all’accentramento di sempre più poteri nelle mani dell’esecutivo regionale, a scapito sia dello Stato che degli Enti Locali, ma soprattutto di un attacco frontale e consapevole alla scuola pubblica e laica. Il cuore del provvedimento è rappresentato dall’istituzionalizzazione del doppio canale morattiano e dall’invasione del campo dell’istruzione tecnica e professionale, per la quale si prevede un sistema analogo a quello disastroso in vigore dal 2001 nella formazione professionale. Cioè, si stabilisce la piena equiparazione tra pubblico e privato nell’accesso ai finanziamenti e una larga autonomia per i singoli istituti, che comprende addirittura la possibilità di poter assumere direttamente e discrezionalmente il personale docente.
In altre parole, una gigantesca operazione di drenaggio di risorse pubbliche verso soggetti privati, come peraltro già avviene nella sanità, e un primo passo verso l’apertura del fronte scuola tout court. Che tutto questo possa essere nell’interesse del mondo imprenditoriale, lo possiamo capire, ma ci pare oltremodo arduo sostenere che debba esserlo anche in quello di studenti, insegnanti e famiglie. Ecco perché in troppi preferiscono nascondersi dietro la cortina fumogena della lite sulle competenze tra Stato e Regione.
Molte componenti del mondo della scuola, dagli studenti medi a diverse organizzazioni sindacali degli insegnanti -Cgil, Rete Scuole, sindacati di base-, si sono già espressi contro la legge regionale, ma ci pare evidente che questo non basti più e che occorra urgentemente un salto di qualità.
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di lucmu (del 17/10/2007, in Pace, linkato 1392 volte)
da scaricare qui l'interpellanza presentata oggi in Regione Lombardia sulla presenza di armi nucleari stoccate nella base di Ghedi (Bs). L'interpellanza è firmata da: Muhlbauer, Squassina O., Agostinelli (Prc), Squassina A. e Cipriano (Sd), Monguzzi e Saponaro (Verdi), Prina e Fabrizio (Margherita), Sarfatti, Civati (Ds), Storti (PdCI).
di lucmu (del 22/10/2007, in Lavoro, linkato 1034 volte)
Esprimiamo la nostra totale solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici in sciopero del trasporto aereo della Lombardia. Sono loro, infatti, che rischiano di pagare il conto della crisi di Alitalia e del sostanziale caos in cui sono cresciuti gli scali lombardi negli ultimi anni.
Inutile nascondersi dietro facili ipocrisie, perché oggi vengono al pettine i nodi segnalati da tempo immemorabile anzitutto dalle organizzazioni dei lavoratori. La crisi della compagnia di bandiera è una crisi annunciata e i vari governi nazionali succedutIsi portano in eguale misura la responsabilità di aver lasciato degenerare la situazione. E ora, la scelta sembra essere semplicemente quella di liberarsi al più presto di Alitalia, rinunciando a un suo rilancio e riducendola a un ruolo subalterno all’acquirente di turno.
Le colpe, però, non stanno soltanto a Roma, ma anche in Lombardia. Infatti, gli scali regionali - Malpensa, Linate, Orio e Montichiari - sono cresciuti in questi anni senza che ci fosse un minimo di programmazione o coordinamento. Quanti governano la Regione Lombardia hanno sempre fatto orecchie da mercanti ogni volta che l’opposizione o i sindacati hanno chiesto di definire finalmente un piano del trasporto aereo, in grado di mettere un po’ di ordine nel caos. Anzi, qualche assessore regionale si è perfino spinto a parlare di Montichiari come il secondo hub lombardo…
Siamo francamente disgustati dal gioco dello scaricabarile innescato dal Presidente Formigoni, che sembra più interessato ad attribuire ogni colpa a Roma, piuttosto che ad assumersi le proprie responsabilità, dando un contributo per soluzioni possibili.
Pertanto, chiediamo ancora una volta che il piano industriale di Alitalia venga rivisto e che Regione Lombardia inizi finalmente a definire un piano del trasporto aereo, in coordinamento con le altre Regioni settentrionali e con il Governo nazionale, al fine di individuare una soluzione di sistema, capace di salvaguardare la quantità e la qualità dell’occupazione negli aeroporti lombardi.
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Le richieste dei Pm al processo genovese contro 25 giovani sono gravi, sproporzionate e fuori dalla realtà, ma purtroppo non sorprendono. Tutto il processo, sin dall’inizio, era basato su un teorema tanto semplice quanto micidiale, cioè che durante i giorni della contestazione del G8 del luglio 2001 si fosse consumato un reato collettivo definito “devastazione e saccheggio”.
Ebbene, si tratta di un reato definito da una norma del codice penale risalente al periodo fascista, applicato in pochissime occasioni nella storia dell’Italia democratica e repubblicana e che prevede pene pesantissime. Ovvero, agli imputati non vengono contestati tanto i singoli fatti, bensì il contesto generale, definito appunto di “devastazione e saccheggio”, in cui questi fatti si sono consumati.
Proprio per questa ragione, già tempo fa, gli ex-portavoce del Genoa Social Forum, compreso il sottoscritto, ci eravamo pubblicamente autodenunciati. Cioè, se davvero si trattava di un contesto generale e di un’azione preordinata, allora bisognava processare gli organizzatori, che appunto erano i componenti del Gsf, e non qualche ragazzo. Ovviamente, questa autodenuncia non fu mai presa in considerazione, per il semplice motivo che il teorema dell’accusa non ha né capo, né coda e che questo processo serve a unica cosa: trovare qualche capro espiatorio, gettarlo in galera e fare dunque da contrappeso politico agli altri processi genovesi, quelli relativi ai fatti di Bolzaneto e della Diaz, che vedono sul banco degli accusati dei responsabili delle forze dell’ordine.
Quanti hanno vissuto quelle giornate genovesi conoscono bene la verità. In quei giorni allucinanti si era consumata un’azione repressiva degna del Cile di Pinochet. Ma è proprio quella verità che si vuole mettere sotto il tappeto, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, salvando così i responsabili politici del misfatto. E così, il processo per l’omicidio di Carlo Giuliani è stato insabbiato ancora prima del suo inizio e la commissione parlamentare d’inchiesta non è mai partita.
Tutto questo fa male, anzitutto alla democrazia. Ma è davvero inaccettabile che ora debbano essere alcuni giovani a pagare il prezzo di queste ripugnanti manovre politiche.”
comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 27/10/2007, in Casa, linkato 1103 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 27 ott. 2007 (pag. Milano)
Rifondazione Comunista esprime il suo completo sostegno alle rivendicazioni dei sindacati inquilini che oggi manifestano sotto la sede di Regione Lombardia, in vista della discussione in Consiglio, martedì prossimo, dell’ennesimo progetto di legge di riforma della normativa sulle case popolari lombarde.
Il provvedimento voluto dal centrodestra sta provocando una diffusa inquietudine, se non aperta rabbia, tra gli inquilini delle case popolari, specie delle aree metropolitane, poiché prevede un aumento generalizzato dei canoni d’affitto per fasce di popolazione già ora in notevoli difficoltà economiche. E, francamente, non reggono le proiezioni e le cifre comunicate dalla Giunta Formigoni, che tentano di minimizzare l’impatto dei rincari, perché si dimenticano sistematicamente che gli inquilini delle case popolari non pagano soltanto il canone, ma altresì le spese, comprese quelle di amministrazione, nella più totale assenza di trasparenza da parte degli enti gestori.
A rendere poi l’aumento degli affitti oltremodo odioso è il fatto che il centrodestra chiede agli inquilini, cioè ai più deboli, di sborsare più quattrini, mentre mancano qualsiasi iniziativa e norma rispetto all’Aler e ai gestori comunali, tese ad impegnarli alla trasparenza e alla riduzione dei diffusi sprechi. In altre parole, tutto il peso della tanto invocata “sostenibilità economica” del sistema andrebbe a gravare sulle spalle dei locatari, mentre gli enti gestori andranno avanti come prima e, anzi, potranno determinare unilateralmente la quantità di spese da scaricare sugli inquilini stessi.
Ma il provvedimento non si limita a una semplice operazione di cassa, da riversare appunto integralmente sugli affittuari, bensì intende realizzare un ulteriore passo verso lo smantellamento dell’edilizia residenziale pubblica. Infatti, è prevista anche la vendita del 20% delle case popolari lombarde, cioè 34mila alloggi sugli attuali 170mila. Se a questo aggiungiamo che, un anno fa, la Regione ha tagliato del 75% i fondi per la costruzione e la manutenzione di case popolari, i conti sono presto fatti: gli inquilini pagheranno canoni più alti, spesso insopportabili rispetto alla loro condizione economica, e in cambio non riceveranno un bel niente, mentre l’offerta pubblica di alloggi per far fronte all’emergenza abitativa tenderà a ridursi drasticamente negli anni a venire. Visto che già oggi soltanto il 4% dei cittadini in graduatoria riesce ad accedere effettivamente alla casa popolare, l’effetto sarebbe devastante.
Tutto ciò ci pare socialmente irresponsabile e moralmente insostenibile. Per questo esprimiamo la nostra vicinanza ai cittadini delle case popolari e la nostra netta opposizione al progetto della Giunta Formigoni, battendoci in Consiglio per delle modifiche sostanziali.
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Il seguente testo rappresenta un contributo alla discussione, nata con l’assemblea autoconvocata da diversi compagni e compagne di Rifondazione di Milano, ed è stato scritto per il blog www.fareasinistra.it.
A volte noi disperiamo. Ed essi confidano nella nostra disperazione
(Heriberto Montano)
Care compagne, cari compagni,
non avevo sottoscritto il documento “La sinistra che verrà vogliamo farla insieme”, perché non condividevo alcuni passaggi, ma ho partecipato all’assemblea del 15 ottobre all’Arci Corvetto, perché di luoghi e momenti di confronto libero c’è un terribile e urgente bisogno. In questo senso, quella sera una dose di ragione ce l’avevano coloro i quali dicevano che importante non era tanto quello che c’era scritto nel documento, quanto che fossimo lì a parlarci.
E il fatto che la partecipazione era numericamente significativa e che l’età media dei presenti era decisamente inferiore a quella che di solito riscontriamo nelle riunioni di partito, ha senz’altro confermato che lo spirito del documento e della (auto)convocazione raccoglieva un’esigenza e un sentire diffusi.
Ma il difficile viene ora, poiché quella assemblea ha evidenziato con forza che non c’è soltanto bisogno di parlarsi e di confrontarsi senza vincoli e veli, ma soprattutto di fare, di agire. In altre parole, si tratta di assumere la serata del 15 non come una felice parentesi, bensì come un punto di partenza, che possa innescare processi e partecipazione, senza che le parole e le pratiche corrano su binari separati.
Ebbene, se sono rose fioriranno, come si usa dire, ma questo dipende, in ultima analisi, da noi stessi. Quindi, come sollecitato, cerco di dare il mio piccolo contributo alla riflessione.
Penso sia consapevolezza diffusa e condivisa che viviamo un momento storico in cui è posta la questione dell’esistenza e del futuro della sinistra, cioè di una soggettività e di un progetto politici in grado di farsi interpreti e organizzatori degli interessi delle classi subalterne nella prospettiva di un’alternativa di società. Una questione non nuova, a dire la verità. Rifondazione Comunista stessa era nata proprio in questa prospettiva e, in fondo, anche la stagione dei movimenti, da Seattle e Genova in poi, poneva il problema della ricostruzione di un orizzonte politico e sociale sottratto alla miseria del pensiero unico e del governo dell’esistente. Questo e non altro rappresentava, infatti, l’esclamazione collettiva “un altro mondo è possibile”.
Una questione non nuova, appunto, che affonda le sue radici negli avvenimenti epocali della fine del secolo scorso, nelle sconfitte politiche del movimento operaio, nel crollo inglorioso dell’obbrobrio del socialismo reale e nelle modifiche intervenute nella composizione dei soggetti sociali di riferimento delle sinistre. Ma oggi quella questione si staglia in tutta la sua drammaticità di fronte a noi, in Italia e in Europa. Come sempre accade nella storia, il cambio nei rapporti di forza sociali necessità di tempo prima di produrre tutti i suoi effetti sul piano delle coscienze e della cultura. Ma oggi ci siamo, i nodi sono venuti al pettine, l’egemonia culturale appartiene ormai alle destre e ai soggetti sociali che esse rappresentano e assistiamo a uno spostamento del baricentro dell’intero quadro politico e culturale a destra.
Se non teniamo conto di questo quadro generale è difficile, anzi impossibile, leggere la situazione politica contingente. Appare, infatti, evidente che l’esperienza del governo dell’Unione ha natura transitoria. L’alleanza era nata essenzialmente per mandare a casa Berlusconi e, una volta raggiunto l’obiettivo, i diversi progetti politici che vi convivono hanno ripreso la loro autonomia. O meglio, soprattutto il progetto del Partito Democratico lo ha fatto, cestinando in un batter d’occhio gli accordi programmatici e imponendo la sua regia e le sue scelte all’azione di governo. Il PD guarda al dopo, sta preparando il dopo, e in questo senso il logoramento sistematico delle sinistre è funzionale alla prospettiva di un nuovo sistema politico basato sulla competizione, all’americana, tra due grandi aggregazioni politiche, molto simili tra di loro e ambedue concordi sulle grandi scelte di fondo, che si scontrano per il governo dell’esistente. Un siffatto progetto non può tollerare una sinistra forte e una prospettiva di alternativa viva, né sul piano politico, né su quello sociale. Ecco perché vi è una forte analogia tra quello che avviene sul piano politico e su quello sindacale, dove ogni tendenza sindacale non compatibile con l’idea neocorporativa e subalterna (sindacalismo di base, Fiom, sinistre interne varie) deve essere schiacciata con ogni mezzo.
Ma tutto questo era in qualche modo prevedibile, poiché gli anni di protagonismo dei movimenti non hanno modificato le posizioni prevalenti nei Ds. Colpisce dunque l’impreparazione e l’improvvisazione con le quali il nostro partito ha affrontato la fase del governo Prodi, affidandosi di fatto alla navigazione a vista e finendo con l’appiattirsi sulla dimensione istituzionale, vista anche la scelta di collocare quasi l’intero gruppo dirigente nelle istituzioni. E il prezzo maggiore del continuismo del governo lo stiamo pagando proprio noi, perché gran parte del peso delle speranze e delle aspettative di cambiamento gravano sulle nostre spalle. E quando vieni percepito, soprattutto dalla tua gente, come simile o uguale agli altri, che promettono tante cose e poi fanno il contrario, allora perdi credibilità. Ne sono dimostrazione i risultati elettorali delle ultime amministrative, con un forte astensionismo nel nostro elettorato, e la vera e propria crisi di rapporto con le situazioni di movimento (da Vicenza alla Val di Susa).
Tutto questo per dire che il problema primario che oggi abbiamo di fronte non è tanto quello di capire se è meglio mantenere Rifondazione o costituire, nelle forme possibili, un nuovo soggetto della sinistra. Ambedue le ipotesi, infatti, per non diventare rispettivamente un ripiegamento identitario o un’acrobazia politicista, devono fare i conti con la natura della crisi delle sinistre e con l’attuale perdita di credibilità e di radicamento sociale.
Per dirla in altre parole, è sufficiente calare il ragionamento generale nella realtà che viviamo tutti giorni, cioè quella milanese e lombarda. Anzi, proprio qui si riescono a cogliere meglio i processi e i pericoli, perché il nostro territorio ha anticipato e anticipa quanto avviene sul piano nazionale. Qui sono nate le nuove destre che hanno dilagato, da Berlusconi alla Lega. Qui si leggevano sin dall’inizio e con maggior chiarezza le dinamiche del centrosinistra, con un PD che corre velocemente a destra, convergendo sul “modello Formigoni” e cavalcando il securitarismo, e con una sinistra incapace di uscire dalla logica della resistenza, cioè dalla difesa degli spazi fisici e politici esistenti. Insomma, il PD risponde alla crisi della sinistra, fuoriuscendo dalla sinistra, mentre noi ci chiudiamo nei fortini assediati, che diventano sempre di meno. Ed è sempre dalle nostre parti dove i soggetti sociali sono cambiati prima e più a fondo, dov’è saltato con più forza il tessuto di relazioni sociali e la precarietà si è impadronita ampiamente del lavoro e delle esistenze.
Oggi le destre riescono a comunicare con i ceti popolari, sono presenti nei quartieri. Rispondono al disagio e alle insicurezze di lavoratori, pensionati e giovani, parlando alla pancia e fornendo nemici facili e abbordabili: il rom, l’immigrato, il diverso eccetera. È razzismo e securitarismo, ma soprattutto è guerra tra i poveri.
Ma mentre tutto questo accade, noi siamo sempre meno presenti sul territorio e nei quartieri popolari. Non parliamo più alla nostra gente, perché di nostra gente si tratta, non di ricchi e borghesi. E non risolviamo il problema andando nei quartieri a dire “non prendertelo con l’immigrato, devi essere più solidale”. No, non funziona, perché la persona a cui parli vive un disagio reale, fa fatica ad arrivare alla fine del mese, non guarda al futuro con serenità e sente la politica e le istituzioni lontane dalla sua quotidianità. Ma noi, di Rifondazione e della sinistra in generale, compresa quella “antagonista”, siamo sempre meno presenti, sempre meno capaci di interloquire con il disagio, di abbozzare risposte, di organizzare vertenze e lotte. Un esempio tra i tanti? A Milano la questione casa è di primaria importanza per i ceti popolari, di ogni fascia d’età. Ma, a parte singoli compagni, il partito è completamente assente dalla questione, sia in termini di presenza organizzata, che di iniziativa e proposta politica. Anzi, la federazione milanese non dispone nemmeno di un dirigente responsabile della questione.
Oggi la priorità delle priorità è quella di ricominciare dal basso, ma per davvero, non semplicemente scrivendolo su qualche manifesto o documento. Non ci sarà né Rifondazione, né sinistra di alternativa, né sinistra plurale, né niente se non si comincerà dalla ricostruzione di una nostra internità ai nostri referenti sociali e ai loro problemi, stando nei luoghi di lavoro e sui territori. Vanno riconquistate le nostre casematte, che stanno nella società e non nei palazzi.
Ahinoi, la federazione milanese, nonostante le felici intuizioni della conferenza d’organizzazione, continua come prima e lo stesso processo di confronto con le altre forze della sinistra risente di un certo verticismo e politicismo; ovvero, non riesce a uscire dagli ambiti propri del “ceto” politico e istituzionale. Certo, non è facile fare altrimenti, ma bisogna pure iniziare da qualche parte e sperimentare pratiche, e soprattutto occorre collocarci dal punto di vista dei soggetti sociali e meno da quello delle mediazioni istituzionali e degli equilibrismi politici. E bisogna farlo subito, perché il tempo è implacabile.
In questo senso, anche i comitati che contestano l’uso e l’abuso del territorio urbano a fini speculativi, il centro sociale che ricostruisce il murale cancellato, dei lavoratori che scioperano o qualsiasi altro segno tangibile di conflittualità e vertenzialità, persino a prescindere da ogni eventuale giudizio politico di merito, non sono mai un problema, ma sempre una preziosa occasione di confronto e relazione.
Forse il compito di un ambito informale e aperto di confronto come quello nato il 15 ottobre può servire a questo, a dare un contributo in quella direzione. Ma occorre fare in fretta, anche per evitare che altri compagni e compagne si facciano vincere dalla rassegnazione.
Ovviamente, nessuno è ingenuo e tutti e tutte sappiamo che Milano non è un isola, né lo è la federazione milanese. Per forza di cose bisogna fare i conti con quanto accade nella discussione e nella pratica del partito a livello nazionale, ma noi siamo qui ed è qui dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. E così facendo, misurandoci con il fare e rompendo la logica degli schieramenti interni precostituiti e fossilizzati, forse riusciamo a dare un contributo anche più ampio.
di Luciano Muhlbauer
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