Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Marchionne ha vinto, ma non ha stravinto e tanto meno convinto. Niente plebiscito, niente trionfi. Nonostante il referendum fosse un ricatto bello e buono (o fai come dico io oppure ti chiudo la fabbrica), nonostante il tifo per il sì di governo, mezza opposizione e buona parte del sistema mediatico e, infine, nonostante una partecipazione al voto massiccia, di oltre il 94% degli aventi diritto, il sì ha prevalso soltanto di misura, cioè con uno striminzito 54%, e grazie all’apporto determinante del voto degli impiegati.
Infatti, quel 54% andrebbe depurato dal voto degli impiegati, il cui seggio ha visto un’affermazione bulgara dei sì (421 sì, 20 no), anche in considerazione del fatto che a Mirafiori gli impiegati sono toccati soltanto marginalmente dalle “innovazioni” di Marchionne e, soprattutto, che svolgono spesso mansioni di capi.
Ebbene, senza quel plebiscito nel seggio degli impiegati, il sì non ce l’avrebbe fatta, come dimostrano i numeri: hanno votato 5.119 lavoratori (il 94,2% degli aventi diritto), i sì sono  stati 2.735 (54,05%), i no 2.325 (45,95%) e le schede bianche e nulle 59.
In particolare, il no ha vinto in tutti i quattro seggi del reparto montaggio (complessivamente 1.576 no e 1.382 sì) e in uno dei due seggi del reparto lastratura. In altre parole, il voto negativo è stato più forte proprio laddove l’intensità del lavoro è maggiore e dove l’accordo incide maggiormente sulle condizioni di lavoro.
Insomma, sette mesi dopo il primo referendum-ricatto di Pomigliano, quando i sì prevalsero con il 62%, anche in quel caso con il contributo decisivo del seggio di impiegati e capi, l’offensiva degli amerikani Marchionne ed Elkann sembra perdere vigore persuasivo, mentre continua invece in piedi la resistenza di quella Fiom -e dei sindacati di base presenti nel gruppo Fiat-, data per spacciata già tante volte, derisa dai “modernizzatori” del Pd, attaccata e insultata dai Sacconi e dai Bonanni e messa sul banco degli accusati persino nella stessa Cgil.
Con questo non vogliamo ovviamente cantare vittoria, che sarebbe una sciocchezza da apprendisti stregoni. La crisi picchia duro, la precarietà, la cassa integrazione e la disoccupazione sono in agguato dappertutto e il fronte di quelli che pensano che questo sia il momento per poter osare il tutto e subito, cioè la cancellazione dei diritti e delle libertà dei lavoratori e delle lavoratrici, è ampio, potente e trasversale.
Ma guardare alla realtà per quella che è, prendere atto che delle volte dire di no ai ricatti non è solo necessario e giusto, ma anche e soprattutto possibile, è un esercizio di sano realismo, che deve animarci a moltiplicare i nostri sforzi per generalizzare lo sciopero dei metalmeccanici del 28 gennaio.
Infatti, quella di Mirafiori è stata una battaglia fondamentale, che peralto ha pesato integralmente sulle spalle degli operai e delle operaie della Fiat di Mirafiori, ma in fondo, in un senso o nell’altro, non è che un inizio. Insomma, la strada è ancora lunga e faticosa, ma Pomigliano prima e Mirafiori ora ci dicono che possiamo e dobbiamo percorrerla.
 
Luciano Muhlbauer
 
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale dell’accordo separato su Mirafiori, oggetto del referendum-ricatto del 13-14 gennaio e firmato il 23 dicembre scorso tra Fiat Group Automobiles S.p.A. e Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione Capi e Quadri Fiat.
 

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di lucmu (del 22/01/2011, in Lavoro, linkato 1096 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su Liberazione del 22 gennaio 2011 con il titolo “Mirafiori, un no che pesa”.
 
Nella politica e nella vita esistono meteore e fatti costituenti. Pomigliano e Mirafiori appartengono indubbiamente alla seconda fattispecie. Con essi, molto semplicemente, è cambiato il quadro entro il quale dobbiamo ragionare, progettare ed agire.
Certo, per molti versi è piovuto sul bagnato, perché una moltitudine di lavoratori e lavoratrici, tra precarietà, outsourcing e polverizzazione dell’impresa, sta vivendo da molto tempo quanto Marchionne pretende oggi dagli operai. Ma, come insegnano i classici, ci sono dei momenti in cui l’accumulo di quantità si traduce in un salto di qualità e quanto sta avvenendo in Fiat rappresenta e incarna esattamente questo.
Mettere in discussione l’insieme dei diritti e delle libertà conquistati dai lavoratori negli anni ’60-’70, o persino quelli codificati nella Costituzione repubblicana, non in un qualche sottoscala di periferia, ma al centro, in un luogo simbolico e sfidando sulla pubblica piazza la più combattiva categoria sindacale, significa innescare una valanga che tende a travolgere e ridisegnare tutto.
Infatti, a soli sei mesi dal referendum di Pomigliano, la cosiddetta “eccezione” è sbarcata a Mirafiori e domani toccherà, come ha subito chiarito Marchionne, anche a Cassino e Melfi. Peraltro, nel frattempo l’accordo capestro è pure peggiorato, considerato che ora l’abolizione dell’elezione dei delegati sindacali e l’espulsione dalla fabbrica dei dissidenti, cioè di Fiom e sindacati di base, sono norma contrattuale.
L’operazione di Marchionne, inoltre, era fuoriuscita quasi subito dai confini Fiat, trasformandosi in richieste sempre più diffuse di derogare al contratto nazionale e sfociando il 29 settembre scorso in un apposito accordo nazionale tra i ligi Fim e Uilm e Federmeccanica. Ma non era che l’inizio.
E così, all’indomani del referendum-ricatto di Mirafiori, il Ministro Sacconi ha precisato che il contratto aziendale “non è tanto deroga al contratto nazionale, ma legittima uscita da esso”. Poi, il giorno dopo, Federmeccanica, in accordo con Confindustria, ha chiesto pubblicamente ai sindacati di introdurre il principio della “alternatività” tra contratto aziendale e nazionale.
In altre parole, la valanga sta travolgendo anche i contratti separati di chi, come Cisl e Uil, ha pensato di poter cavalcare la tigre. A meno che, ovviamente, Bonanni non fosse sin dall’inizio pienamente consenziente rispetto alla riduzione dei sindacati a semplici strutture di vigilanza dell’azienda. Ma in tal caso, dovrebbe spiegarlo ai suoi iscritti.
Insomma, siamo all’idea della tabula rasa. Niente più diritti e libertà sul luogo di lavoro e niente contrattazione collettiva, ma soltanto contratti individuali e comando esclusivo del padrone. Una concezione totalitaria dell’impresa, che non tollera rappresentanza autonoma del lavoro, conflitto e democrazia, e che gode del tifo militante del Governo Berlusconi, il quale si appresta a varare la revisione dello Statuto dei Lavoratori.
Con quella concezione non si può trattare o mediare. In gioco è il modello sociale - e non solo - per il dopo-crisi e, pertanto, il pareggio non è previsto. Così stanno le cose, altro che la lotta di classe non c’è più, e far finta di non capirlo è di una miopia tremenda.
Eppure, sebbene il fronte sociale e politico pro-referendum fosse talmente ampio e trasversale da sembrare invincibile, l’offensiva di Marchionne ha trovato una resistenza straordinaria e sorprendente proprio nei soggetti più ricattati, perché in cassa integrazione e minacciati di chiusura della fabbrica, cioè gli operai e le operaie di Pomigliano e Mirafiori. Anzi, nonostante la pistola puntata e una campagna mediatica senza precedenti, il “no” di Mirafiori è stato ancora più rumoroso di quello di Pomigliano.
Ed è stata quella resistenza operaia, con il suo carico di dignità e determinazione, ad aver cambiato a sua volta il quadro generale. Non solo ha rimesso al centro del dibattito politico il lavoro e la questione sociale, diradando per un attimo i fumi tossici del bunga bunga, ma ha anche provocato, anzitutto grazie all’azione limpida ed intelligente della Fiom, una convergenza di lotte e movimenti, a partire da quello degli studenti. Insomma, ha agito da centro di gravità, favorendo l’emergenza di un possibile fronte sociale alternativo.
Oggi e qui la possibilità di definire un modello, un percorso e una pratica alternativi passa necessariamente da lì. E, aggiungiamo, da lì passano anche le strade per rifare una sinistra politica all’altezza della situazione.
Per questo è importante e prezioso il seminario/meeting nazionale di “Uniti contro la crisi” che inizia oggi al Cso Rivolta di Marghera (Ve). Ma soprattutto è fondamentale e decisivo lavorare per la riuscita e la generalizzazione dello sciopero nazionale dei metalmeccanici del 28 gennaio, proclamato dalla Fiom, utilizzando a questo fine anche le proclamazioni di sciopero di tutte le categorie promosse dai sindacati di base.
 
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di lucmu (del 25/01/2011, in Lavoro, linkato 1040 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 25 gennaio 2011 con il titolo “L’Ilo smentisce Marchionne e Sacconi”.
 
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) ha pubblicato in questi giorni il suo rapporto annuale sulle tendenze globali dell’occupazione. Si tratta ovviamente di un’analisi dei grandi numeri e degli andamenti di fondo, ma ciononostante ci pare legittimo e utile confrontare alcune sue conclusioni con il discorso ed i postulati del modello Marchionne. In fondo, anche quest’ultimo pretende di essere generale e globale.
Ci riferiamo in modo particolare alla promessa, ben presente nella discussione attorno al referendum sull’accordo di Mirafiori, di miglioramenti salariali per gli operai. Infatti, anche i più decisi fautori del “sì” si rendevano conto che in ultima analisi non era sufficiente, soprattutto nel dibattito pubblico fuori dalla fabbrica, il ricorso al ricatto del mangiare la minestra o saltare la finestra, ma che occorreva anche offrire, o perlomeno evocare, qualche contropartita. E così, a Mirafiori e dappertutto, si cominciava a raccontare che la strada indicata da Marchionne non solo avrebbe garantito l’occupazione, ma altresì aumenti salariali.
I più spregiudicati sono stati, per ovvi motivi, i capi di Cisl e Uil, che hanno sostenuto addirittura che l’accordo separato di Mirafiori, firmato il 23 dicembre scorso, avrebbe garantito già di per sé un miglioramento salariale. Una balla bella e buona, che sta in piedi soltanto ricorrendo a qualche disinvolta acrobazia matematica. Infatti, basta far finta che la contrattazione aziendale di secondo livello e le relative voci salariali integrative, tipo i premi risultato, non siano mai esistiti ed aggiungere al conto invece la monetizzazione dei 10 minuti di pausa cancellati e l’aumento degli straordinari obbligatori e, guarda un po’, il gioco è fatto.
Non a caso, il Ministro Sacconi e lo stesso Marchionne sono più cauti sul punto, collocando i promessi aumenti salariali (o “partecipazioni agli utili”) nel futuro, quando gli impianti saranno pienamente sfruttati, la produttività sarà al massimo e, ovviamente, le automobili prodotte verranno vendute sul mercato.
Ancora più cauti sono taluni economisti non proprio maldisposti nei confronti delle tesi di Marchionne, come il prof. Paolo Manasse, che nel suo intervento su Lavoce.info sostiene che il piano Fiat porterà nel breve periodo ad una riduzione del salario reale (“dovuta al peggioramento della posizione contrattuale dei lavoratori”), ma poi nel medio periodo, in virtù dell’accresciuta produttività del lavoro, ci potrà essere un aumento del salario reale.
Insomma, tralasciando qui Bonanni, che ricorda piuttosto il famoso venditore di automobili usate dei telefilm americani, tutti stanno riesumando la promessa che fu del principale antenato dell’attuale crisi, cioè del neoliberismo rampante degli ’80: accettate i sacrifici oggi e domani sarete ricompensati. Sappiamo tutti com’è andata a finire.
O, per dirla in termini più scientifici, fate aumentare all’azienda la produttività del lavoro, mediante l’allungamento dell’orario di lavoro (il taglio delle pause, aumento delle ore straordinarie obbligatorie ecc.) e ritmi più intensi (la nuova metrica del lavoro Ergo-Uas), e domani guadagnerete come tedeschi.
Ma quanto è credibile questa promessa? A nostro modo di vedere, molto poco. E non lo diciamo in virtù dei precedenti poco edificanti in tema di promesse, ma guardando ad alcuni dati empirici e facendo un ragionamento.
I dati empirici ce li fornisce proprio il rapporto 2011 dell’Ilo, che disegna un quadro tutt’altro che rassicurante, poiché conferma che i segni di ripresa che alcuni indicatori macroeconomici, come il Pil, hanno mostrato su scala globale nel 2010, non si sono affatto tradotti in una ripresa analoga dell’occupazione, così come il ritorno della produttività del lavoro a valori positivi non si è tradotto in aumenti salariali. E questo vale soprattutto per le economie più sviluppate, come quelle europee.
Per dirla con le parole del rapporto Ilo: “il ritardo della ripresa del mercato del lavoro è dimostrata non soltanto dallo scarto fra crescita del prodotto e crescita dell’occupazione, ma anche dalla mancata corrispondenza, in numerosi paesi, fra gli aumenti di produttività e la crescita dei salari reali. Ciò può influire negativamente sulle future prospettive di ripresa a causa dei forti legami esistenti fra la crescita dei salari reali, i consumi e gli investimenti”.
Appunto. E c’è poco di cui meravigliarsi, aggiungiamo noi, poiché è assolutamente illusorio pensare che l’aumento della produttività del lavoro si traduca automaticamente, di per sé, in un vantaggio per il lavoratore, in termini salariali o di riduzione del tempo di lavoro. Perché questo accada, sul piano locale o globale, c’è infatti bisogno che i lavoratori possano organizzarsi, negoziare collettivamente e dunque contendere la destinazione del vantaggio.
In presenza di una polverizzazione estrema dei lavoratori in tante individualità solitarie, da un punto di vista negoziale, prevarrà ancora una volta e, anzi, in maniera più brutale rispetto al periodo pre-crisi la logica del livellamento al ribasso, tipica dell’era della globalizzazione.
Ed eccoci al punto vero, che i Sacconi e i Marchionne hanno sempre tenuto ben presente, anzi in primo piano. Per questo a Pomigliano e Mirafiori non si trattava di negoziare i ritmi, gli orari e la metrica, ma di eliminare il negoziato stesso. Per questo al Governo non interessa favorire una mediazione, ma piuttosto sconfiggere le organizzazioni sindacali indipendenti e tutte le leggi che in qualche modo tutelano il lavoratore, a partire dallo Statuto dei Lavoratori.
Ed ecco perché la resistenza della Fiom e dei sindacati di base non è un capriccio, né “estremismo conservatore”, bensì un punto di partenza necessario per poter guardare al futuro.
 
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Samuel Ruiz Garcia, vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, è morto lunedì scorso, il 24 gennaio 2011, all’età di 86 anni. Sotto la sua guida la diocesi di San Cristobal si era schierata a fianco delle popolazioni indigene del Chiapas (Messico), sfruttate, discriminate e sottoposte alle violenze dei latifondisti e dello Stato. Non le avrebbe mai abbandonate, neanche quando scelsero la via della ribellione e dell’insurrezione con l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln).
È stato sempre dalla parte della giustizia e della liberazione e mai da quella del potere e della sopraffazione, così come fece prima di lui Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador, assassinato nel 1980 dagli squadroni della morte.
Mi pare giusto e necessario rendergli omaggio.
 
Luciano Muhlbauer
 
Qui sotto trovate riprodotto, in lingua castigliana, un breve profilo di Samuel Ruiz, scritto dal giornalista messicano Carlos Fazio e pubblicato sul quotidiano messicano La Jornada.
 
 
Don Samuel, El Caminante
 
di Carlos Fazio
 
Al despuntar 1994, con la novedad de la insurgencia campesino-indígena zapatista, un hombre de la Iglesia católica comenzó a acaparar los noticieros y las primeras planas de la prensa mundial: monseñor Samuel Ruiz García, obispo de San Cristóbal de las Casas, Chiapas, en el sureste mexicano.
Pero, ¿quién era Samuel Ruiz, esa figura signo de contradicciones, venerada casi como un dios por los indígenas de Chiapas y odiada al extremo por los poderosos de su diócesis? No era un desconocido. En las zonas indígenas del continente americano, desde Alaska a la Patagonia, pero también en Asia y África así como en los ambientes ecuménicos de Europa, El Tatic Samuel había cobrado fama de profeta desde el inmediato posconcilio, cuando comenzó a aplicar los acuerdos del Vaticano II.
Luego, con Medellín (1968) y el despertar de una nueva conciencia episcopal latinoamericana, en contraste con una institución cupular, vertical, predominantemente conservadora y legitimadora del poder y de la ideología dominante, como la que existe en México y en otras latitudes, don Samuel impulsaría un modelo de Iglesia más participativa, más autóctona. En su diócesis de San Cristóbal fue el constructor de una Iglesia con rostro indígena.
Hijo de espaldas mojadas, fue ordenado sacerdote en Roma, en 1949. Diez años después, Juan XXIII lo nombró obispo de San Cristóbal. Tenía apenas 35 años. Había sido formado para ser un obispo tradicional, de poder. Pero a poco de empezar a recorrer la diócesis, aquella realidad de miserias y carencias le golpeó. Se practicaba entonces un indigenismo paternalista en el cual el indio era objeto de la acción pastoral. De la mano del Concilio Vaticano II comenzó a intuir que por allí no era su camino de pastor. Pero fue su transitar por los senderos reales y de herradura de la selva Lacandona, lo que lo encaminó a su propia conversión. No pudo ser indiferente ante tanta opresión, miseria, hambre, discriminación y muerte.
En el último tercio del siglo XX, Chiapas era baluarte de terratenientes, madereros y cafetaleros, en una realidad de peones acasillados como en la Colonia. Durante un tiempo don Samuel fue un obispo pescado: pasó con los ojos abiertos en medio de la opresión, sin verla. Hasta que descubrió al indio marginado. Eso ocurrió cuando dejó de ver sólo iglesias llenas y tomó conciencia de la explotación del indígena y del funcionamiento de las estructuras sociales de dominación clasista.
Supo entonces que el camino nuevo era riesgoso y conflictivo, porque vendrían acusaciones y le endosarían etiquetas de “marxista” y de una “politización indebida”. Pero eran los peligros que debía afrontar.
En realidad, como dijo él muchas veces, quienes lo convirtieron fueron los indios. La clave, pues, está en que se convirtió al pobre, a las raíces, a la cultura, al pueblo. Y eso comenzó a mover dentro de sí el espíritu hacia la liberación, la justicia y la paz. Vivió entonces la conversión como un continuum; siempre convirtiéndose durante 40 años.
No fue un camino fácil. Tuvo que dejar atrás inercias, boato, comodidades. Nadie opta por los indígenas sin convertirse a los indígenas, esos “Cristos maltratados” al decir de fray Bartolomé de Las Casas. Fue, Samuel, un obispo de puertas abiertas. Pero nunca un obispo sentado. Al contrario, fue y seguirá siendo para quienes le conocieron un pastor itinerante, peregrino. Le decían El Caminante. Por eso los indios de Chiapas lo vieron llegar, incansable, montado en su caballo el Siete Leguas, a lomo de burro, en Jeep o simplemente a pie.
Profeta seductor, supo ser un teólogo que cambió los libros por la historia –la historia real, concreta– y puso los pies sobre la tierra. Hombre de frontera y acompañamientos, se convirtió en líder sin proponérselo, con una cauda de autoridad moral enorme, porque siempre estuvo en la frontera de la vida y la muerte. Además, el hecho de haberse esforzado por comprender las lenguas tzeltal, tzotzil y un poco de chol y tojolabal –las cuatro lenguas indígenas predominantes en su diócesis–, muestra cuál fue su actitud pastoral: no fue desde arriba y afuera, sino desde adentro y a la par.
El mejor testimonio de ello lo dio el pueblo pobre de Chiapas el 10 de febrero de 2000. Ese día bajaron de las montañas y entraron en caravana a San Cristóbal de las Casas, por los cuatro puntos cardinales, más de 15 mil indígenas. Habían llegado a la ciudad mestiza para despedir al obispo local, El Tatic Samuel, quien el 25 de enero anterior había cumplido 40 años de servicio episcopal. Llegaron a expresarle su fervor y su cariño. La ausencia del nuncio Mullor y la mayoría de los obispos mexicanos no menguó el brillo y calor de los festejos. La multitud ni siquiera se enteró de las ausencias de los dignatarios católicos, acostumbrados como están al abandono de los poderosos.
Al alba de aquél día, el padre Clodomiro Siller abrió el libro Tonal pohuali y consultó el calendario maya, para saber los signos del día –su tiempo y su espacio– que le tocaban esa jornada al festejado. La fecha era 12 flor. Tres veces cuatro. Cuatro es la totalidad cósmica. Tres, la mediación, el viento entre el cielo y la tierra. El signo que se debe vestir en un día como ese es el quetzal, la hermosa ave de plumas verdes que jamás puede estar en cautiverio. El ave de la libertad. Su lectura fue clara: Samuel, el mediador, el indomable.
No daba todavía el mediodía, cuando la figura de El Tatic apareció por la puerta de catedral portando su bandera verde de Jcanan Lum (protector y guía del pueblo), que le habían entregado los indígenas en Amatenango. Le acompañaban los 13 ancianos principales, como denominan a los sabios de las etnias. Habían llegado de las siete regiones pastorales de la diócesis. Detrás iban diez obispos –monseñor Raúl Vera entre ellos– y un grupo de indígenas que enarbolaban las 52 banderas que simbolizan el siglo maya.
Después vino la oración y la liturgia en tzotzil, ch’ol, tzeltal, tojolabal, inglés y español. Pidieron por El Tatic Samuel y el tatic Vera; por los catequistas de la diócesis, perseguidos, encarcelados y asesinados. Otro ruego que se oyó (cuyo eco llega hasta el presente en este México militarizado, paramilitarizado y mercenarizado), fue por “los militares y policías que tienen que cumplir órdenes”, para que “no se extralimiten en contra de sus hermanos”, quizá inspirado en la última homilía del arzobispo de San Salvador, Óscar Arnulfo Romero, quien clamó: “En nombre de Dios, cese la represión”, y fue ejecutado por un grupo clandestino del ejército salvadoreño.
En aquellos días, hace 11 años, más de 60 mil soldados, apoyados por aviones y tanquetas vigilaban día y noche a la población maya, que ha protagonizado varias rebeliones a lo largo de su historia. Hoy el número de soldados es menor, pero aumentó el poder de fuego del Ejército con sus tropas de desplazamiento rápido. El pueblo pobre y el fusil de los poderosos enfrentados en esas inmen- sidades chiapanecas, en una guerra silenciosa que lleva más de cinco siglos.
Habían pasado casi cuatro horas, cuando los 13 ancianos en el templete, junto a don Samuel y don Raúl comenzaron a repartir el fuego nuevo, que marca el fin de un ciclo y el comienzo de otro. El ciclo que terminaba eran los 40 años de Samuel Ruiz al frente de la diócesis. El ciclo por venir despertaba entonces dudas y temores. La sombra de un “desmonte” de signo conservador planeaba sobre San Cristóbal, igual que había ocurrido antes en Cuernavaca, la de don Sergio Méndez Arceo. Fueron las comunidades indígenas, el pueblo pobre, digno y combativo de Chiapas, el que ese día, como muchas veces antes, identificó y honró a don Samuel, de manera sencilla, como un padre de proyección mexicana, latinoamericana y mundial, y rindió un caluroso homenaje a su pensamiento y práctica liberadora. Pensamiento, acción y acompañamiento, que en el caso de El Tatic han venido nutriendo a un par de generaciones socio-eclesiales del continente y que por ello, sin duda, forma ya parte de la nueva patrística latinoamericana.
Don Samuel siguió teniendo la espalda ancha y hasta el final supo asumir los momentos de tensión, ¡que no fueron pocos!, con ecuanimidad y hasta con ribetes de humor. “Será su forma de ser o porque es un veterano apaleado. La experiencia enseña a relativizar”, afirmó alguna vez Pedro Casaldáliga. En lo personal, sin compartir su fe, don Samuel nos enseñó el camino de acompañamiento de los indígenas chiapanecos y el pueblo pobre de México.
 
México, 25 de enero de 2011
 
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Criticare Cl non è reato ed è dunque illegittimo che l’amministrazione regionale lombarda, governata da quasi 16 anni dal capo di Cl, Roberto Formigoni, abbia sanzionato un suo funzionario soltanto perché ha osato criticare pubblicamente il gruppo politico. Questa è la morale e il succo della sentenza del Tribunale di Milano del 20 gennaio scorso che ha dato pienamente ragione a Enrico De Alessandri e condannato Regione Lombardia.
Enrico De Alessandri, funzionario di Regione Lombardia, era stato sanzionato e temporaneamente sospeso dal lavoro nell’ottobre del 2009, perché ritenuto colpevole di aver violato le norme disciplinari contenute nel contratto collettivo, nel codice di comportamento e in quello etico, nonché diversi articoli del codice civile. Insomma, in sostanza avrebbe “denigrato” il suo datore di lavoro, cioè Regione Lombardia.
Ma cosa aveva fatto di tanto grave il dott. De Alessandri? Semplice, aveva scritto un libro, dal titolo “Comunione e Liberazione: assalto al potere in Lombardia” (scaricabile da www.teopol.it). Beninteso, non aveva pubblicato materiale riservato dell’amministrazione regionale, ma si era basato su materiali pubblici, tra cui anche atti istituzionali e politici di Consiglieri regionali, compresa anche la mia denuncia del 2008 circa il finanziamento pubblico per la costruzione ex novo una scuola privata a Crema.
Ma si sa, dopo 16 anni di potere ininterrotto la differenza tra cosa pubblica e cosa di Cl diventa sempre più labile. Tant’è vero che l’amministrazione regionale aveva fatto ricorso al codice disciplinare, equiparando una critica a Cl a una “denigrazione” della Regione Lombardia.
Ebbene, a questo uso illegittimo e privatistico dell’istituzione da parte di Comunione e Liberazione erano seguite, prima, delle denunce ed interrogazioni in sede istituzionale e, poi, un ricorso in sede giudiziaria da parte del funzionario offeso. Il 20 gennaio scorso, infine, il Tribunale di Milano, sezione Lavoro, ha dichiarato l’illegittimità della sanzione disciplinare ed ha condannato Regione Lombardia.
È illuminante, peraltro, leggere le motivazioni del giudice, che dicono sostanzialmente che le contestazioni di Regione Lombardia erano soltanto generiche e non indicavano mai le frasi che avrebbero violato le norme e “denigrato” l’istituzione. In altre parole, aggiungiamo noi, la sanzione era priva di fondamento ed ispirata unicamente a motivi di carattere politico.
Da parte nostra esprimiamo la nostra piena soddisfazione, perché ristabilendo il rispetto della legge, il tribunale ha chiarito che un funzionario regionale non è un dipendente di Comunione e Liberazione, bensì un cittadino che può esprimere liberamente le sue opinioni.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Venerdì 28 gennaio c’è lo sciopero generale dei metalmeccanici, proclamato dalla Fiom il 29 dicembre scorso, all’indomani dell’accordo separato di Mirafiori. Ci saranno manifestazioni regionali in tutta in Italia. In Lombardia, il corteo si terrà a Milano, con partenza alle ore 9.30 da Porta Venezia, per terminare in piazza Duomo, dove interverrà anche Maurizio Landini.
Ma venerdì in piazza non ci sarà soltanto la Fiom e neanche i soli metalmeccanici. Ahinoi, non è ancora lo sciopero generale e generalizzato che ci vorrebbe e che la Cgil –e tutte le sue categorie- non ha voluto e non intende tuttora promuovere, ma i metalmeccanici non saranno soli. Diversi soggetti, sindacali e di movimento, si sono infatti assunti la responsabilità di estendere e generalizzare la mobilitazione, perché di fronte a un attacco generale ci vuole una risposta generale.
 
Questa è in estrema sintesi la situazione (mi scuso in anticipo per eventuali dimenticanze):
 
Scioperi
Nella categoria dei metalmeccanici lo sciopero nazionale è stato proclamato anche da Usb e Cub. Lo Slai Cobas l’ha fatto in alcuni stabilimenti.
Inoltre, esistono specifiche proclamazioni di sciopero nei comparti Scuola e Università, da parte di Cobas Scuola e Cub (che ha proclamato lo sciopero anche tra i bancari).
Ma soprattutto ci sono le proclamazioni di sciopero generale di tutte le categorie (ad esclusione dei trasporti) di Confederazione Cobas, Usi-Ait e Cib-Unicobas (per maggiori dettagli, anche tecnici, rinviamo al nostro articolo del 13 gennaio scorso), che hanno dunque fornito la “copertura” necessaria affinché anche altre strutture sindacali e singoli  delegati o lavoratori potessero promuovere lo sciopero sul proprio posto di lavoro e/o territorio. Cosa che è avvenuta, anche a Milano, sebbene non siamo ovviamente in grado, data la frammentarietà della situazione, di poter fornire un quadro dettagliato.
 
Mobilitazione – la piazza milanese
La mobilitazione per la giornata del 28 va ben oltre i metalmeccanici, come aveva peraltro proposto la stessa Fiom sin dal 29 dicembre, coinvolgendo settori del sindacalismo di base (ovviamente, ci sono anche lavoratori e delegati della Cgil, ma nessuna categoria della Cgil ha invitato a scioperare!) e, soprattutto, dei movimenti (Uniti contro la crisi, studenti, centri sociali, associazioni, singoli cittadini).
Per quanto riguarda la piazza milanese, l’appuntamento principale, anche se non unico, è il corteo che partirà alle 9.30 da P.ta Venezia, per concludersi poi in piazza Duomo con un comizio finale, che prevede diversi interventi, compreso quello di Landini.
In P.ta Venezia ci saranno ovviamente gli operai della Fiom da tutta la Lombardia e ci sarà la maggioranza dei lavoratori del sindacalismo di base che domani scioperano (diversi luoghi di lavoro di Usb, Conf. Cobas, Slai Cobas, SiCobas), in buona parte presenti nello spezzone degli autoconvocati deciso nell’assemblea tenutasi al liceo Carducci il 25 gennaio, che al termine del comizio proseguirà fino a p.zza Santo Stefano. Ci saranno, inoltre, la Rete Studenti di Milano, San Precario, diversi centri sociali, gruppi di precari e insegnanti ecc.
Per completezza di informazione, vi segnaliamo altri due appuntamenti per la mattinata del 28 gennaio, convocati in luogo diverso dalla manifestazione di P.ta Venezia:
- la Cub organizza un presidio ad Arcore, davanti alla Villa S. Martino, a partire dalle ore 10.00;
- il Coordinamento dei Collettivi Studenteschi ha organizzato un corteo con appuntamento alle ore 9.30 in L.go Cairoli.
 
Ci vediamo in piazza domani!
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 29/01/2011, in Movimenti, linkato 1528 volte)
A Milano c'è un nuovo spazio sociale, si trova in via Olgiati 12 ed è stato occupato oggi pomeriggio da un centinaio di ragazzi e ragazze riuniti nel collettivo ZAM.
Anche se la destra che malgoverna la città griderà probabilmente allo scandalo, in realtà si tratta di una buona, anzi ottima notizia. Infatti, è stato restituito alla vita e al territorio uno dei tanti luoghi di questa città abbandonati all'incuria e al degrado.
Nella fattispecie si tratta di uno ex-stabilimento della Avery Berkel, azienda produttrice di affettatrici e bilance professionali, ormai vuota da anni.
Ora l'ex azienda torna a nuova vita, grazie all'impegno di studenti e precari, e ci auguriamo che sia una vita lunga.
 
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
 
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Nella serata del 31 gennaio, il Consiglio Comunale di Sesto San Giovanni (MI) ha approvato alla quasi unanimità una mozione, presentata dalla Lega, che vieta nei luoghi pubblici il “burqa e altre forme simili di vestiario”, poiché “costituiscono, secondo la nostra cultura, una forma di integralismo oppressivo della figura femminile e di costrizione della libertà individuale”.
Un voto che rappresenta un’autentica bomba politica, visto che la cosiddetta ex-Stalingrado d’Italia è governata tuttora da una maggioranza di centrosinistra e da un Sindaco, Oldrini, che viene dal Pci e che da giovane passò sette anni a Cuba come corrispondente dell’Unità.
In fondo, nemmeno la Lega e il Pdl osavano sperare tanto e, infatti, ci hanno messo un giorno per reagire ed esultare. Un regalo inaspettato e gradito, insomma, visto che i difensori estremi del diritto berlusconiano ai bunga bunga e della riduzione della donna a velina hanno potuto vestire all’improvviso le vesti dei difensori della dignità della donna.
E un autogol clamoroso degli strateghi del centrosinistra sestese, visto che hanno consentito a Salvini e De Corato di rilanciare immediatamente l’idea a Milano, in piena campagna elettorale e in pieno caos Pgt ed emergenza smog.
Ma questo incredibile assist tattico alla destra milanese, in fondo, altro non è che il figlio legittimo di un dato ben più grave, cioè dello smarrimento culturale e della subalternità da parte di settori significativi del centrosinistra su alcuni temi non certo marginali del dibattito pubblico, come quello dell’immigrazione e del rapporto con l’Islam. Uno smarrimento reso ancora più pesante dal contestuale mutismo sui sconvolgimenti in atto dall’altra parte del Mediterraneo, che sta spazzando via dittatori corrotti, fino a ieri amici dell’Europa.
Che senso ha dichiarare guerra a burqa, niqab e altro alle porte di Milano? Si pensa davvero che così si possano difendere i diritti e le libertà delle donne e contrastare le correnti integraliste nelle comunità islamiche? Non è piuttosto vero che così si rischia di contribuire all’emarginazione e all’invisibilità delle donne che oggi portano il velo integrale, come ha giustamente ricordato ieri anche Pisapia, e che si fa un regalo alle tesi jihadiste, allo stato ampiamente minoritarie nelle comunità islamiche milanesi?
E che senso ha assecondare le pulsioni leghiste in tema di attribuzioni di poteri in materia di sicurezza e ordine pubblico ai Sindaci o di sovvertimento strisciante del principio costituzionale della libertà religiosa e di culto?
Insomma, quanto accaduto lunedì sera a Sesto ha poco o nulla a che vedere con la difesa della dignità delle donne e molto invece con il clima da campagna elettorale e con quella merce pregiata che rappresenta la paura e l’islamofobia.
 
Luciano Muhlbauer
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo originale della mozione approvata dal Consiglio comunale di Sesto San Giovanni
 

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di lucmu (del 09/02/2011, in Politica, linkato 2412 volte)
Non mi candido a consigliere alle elezioni amministrative di Milano. So che molti compagni e compagne, amici e amiche, elettori ed elettrici davano quasi per scontata la mia candidatura, come se si trattasse di una sorta di secondo tempo dopo le regionali dell’anno scorso, e il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista me l’ha anche proposta ufficialmente una settimana fa. Ma alla fine, dopo averci riflettuto parecchio e non senza travagli, perché consapevole delle implicazioni, ho scelto di non accettare la proposta. E con le righe che seguono voglio condividere con voi le ragioni della mia decisione, che sono di natura politica e che pertanto, penso, non riguardino soltanto il sottoscritto.
E premetto subito, per sgomberare il campo da ogni possibile malinteso, che questa scelta non comporta in alcun modo un mio ritiro dall’attività sociale e politica che, anzi, continua come prima, a partire dall’impegno a favore di Giuliano Pisapia e per mandare a casa Moratti, De Corato & Co.
 
Un anno fa, dopo il risultato negativo delle regionali, nel ringraziare gli elettori, scrissi queste parole: “la certezza è che a sinistra così non si può andare avanti, che occorre una scossa, un fatto nuovo, aria fresca, capacità unitaria e un atto di liberazione dall’autoreferenzialità degli apparati”. Ho cercato di essere fedele alle mie valutazioni, oggi più valide che mai, e nei mesi successivi avevo tentato, per quello che una persona poteva, di lavorare in quella direzione, compresa la costruzione di un’unica lista della sinistra alle elezioni comunali di Milano.
Beninteso, non credo e non ho mai creduto che l’immane compito del rifare la sinistra, perché di questo si tratta, fosse una questione di liste elettorali, ma essendo oggi e qui le elezioni comunali l’evento politico più rilevante in ordine di tempo, specie in considerazione del fatto che il dominio della destra in città copre ormai il tempo di un’intera generazione, ritenevo necessario che qualche fatto nuovo si materializzasse proprio in quella occasione.
Ed erano pure emersi degli elementi che, in teoria, avrebbero dovuto, o potuto, favorire una prospettiva del genere. Non solo c’era finalmente un candidato sindaco che a sinistra non provocava i crampi allo stomaco, per usare un eufemismo, e al quale sarebbe stato estremamente utile avere una lista di sinistra unica ed aperta, ma soprattutto l’arido campo della politica era stato innaffiato da uno straordinario fermento sociale. La resistenza, la dignità e la voglia di futuro di operai, studenti, ricercatori, precari e migranti, anzitutto, era ed è un’occasione per ricominciare con il piede giusto.
Tutti elementi e fatti che spingevano nella direzione auspicata, mentre i movimenti rimettevano al centro i soggetti sociali e le questioni che contano davvero, a partire dal lavoro e dal reddito, provocando una valanga di balbettii tra gli alchimisti della sinistra di palazzo.
Eppure, tutto questo non è stato sufficiente per smuovere le cose a Milano. Il gruppo dirigente locale di Sel ha preferito barricarsi nel proprio orto e crogiolarsi al calore dei sondaggi d’opinione e il Prc/FdS, benché impegnato seriamente sul terreno unitario, ha pagato il prezzo della sua crisi e dell’immobilismo nazionale. Altri soggetti organizzati della sinistra milanese si erano a priori sottratti alla discussione.
Ma soprattutto è mancata un’altra cosa, considerato che era estremamente arduo immaginarsi che i gruppi dirigenti della sinistra potessero produrre un fatto nuovo se lasciati da soli. Cioè, è mancata una presa di parola e di iniziativa da parte della cosiddetta società civile, dall’associazionismo ai movimenti.
O meglio, le parole ci sono state e pure qualche iniziativa, ma si è palesata anche la drammatica incapacità di tradurre la grande e spesso sottovalutata ricchezza, in termini di partecipazione ed attività sociale, culturale e territoriale, in pressione politica sufficiente a condizionare finanche i deboli gruppi dirigenti della sinistra milanese. Insomma, è un po’ l’altra faccia della medaglia di una Fiom costretta, invece, a fare sul piano nazionale supplenza a una sinistra politica che ancora non c’è.
Tutte queste considerazioni non sono, ovviamente, degli atti d’accusa, ma piuttosto delle prese d’atto. Cioè, degli appunti da cui ripartire ed utili per ridisegnare i percorsi.
Per quanto mi riguarda, ho quindi scelto di non candidarmi alle comunali di Milano, perché penso che la questione non sia cercare un taxi che ti porti a una poltrona, bensì trovare un percorso che dia senso e prospettiva a quello che fai tu e che fanno quelli e quelle con i quali hai condiviso e condividi lotte, dolori, gioie e speranze.
Oggi non so come saranno quei percorsi, ma so che dovremo ridisegnarli insieme, facendo tesoro dell’esperienza, mai perdendo di vista le condizioni e i sogni che si vogliono portare e rappresentare nella sfera politica e mai cedendo alla tentazione di rinchiudersi nei fortini, magari pure fatiscenti.
E so un’altra cosa, da fare subito, in questi mesi: cioè, fare il possibile perché a maggio Giuliano Pisapia possa indicare la porta d’uscita alla Moratti e a De Corato.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 15/02/2011, in Lavoro, linkato 1201 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 15 febbraio 2011
 
In casa Bonanni c’è un po’ di nervosismo a proposito dell’intesa separata sul pubblico impiego, firmata il 4 febbraio scorso da Cisl, Uil, Ugl e alcune sigle autonome con il Governo Berlusconi. Infatti, in questi giorni le postazioni di lavoro dei dipendenti pubblici vengono letteralmente inondate da comunicati, in cui la Cisl lamenta che “si sta facendo un gran polverone” invece di apprezzare il “grande risultato”.
La colpa di tutto questo trambusto sarebbe, ovviamente, di quelle organizzazioni sindacali (Cgil, Usb, Cisal ed altre) che non hanno firmato il testo predisposto da Brunetta e non certo di un accordo di cui praticamente nessuno ha capito la presunta bontà, tranne un Presidente del Consiglio in piena crisi bunga bunga.
Dall’altra parte, mettetevi nei panni di uno dei 3,5 milioni di dipendenti pubblici, al quale era stato spiegato poco più di sei mesi fa che il suo stipendio (base ed accessorio) sarebbe rimasto bloccato per tre anni (in realtà, quattro), senza che Cisl e Uil abbiano mosso anche solo mezzo dito, e ora si sente dire che Cisl e Uil hanno realizzato una grande conquista, firmando un accordo che “impedisce la diminuzione dello stipendio”. Ammetterete che quel lavoratore, per lo meno, rimane un po’ perplesso e disorientato.
Ma cosa c’è scritto -e cosa non c’è scritto- in quella paginetta di accordo? Anzitutto, c’è una dichiarazione di condivisione piena da parte dei firmatari del decreto legislativo n. 150/2009, meglio conosciuto come “riforma Brunetta”, compreso il suo famigerato articolo 19, secondo il quale in ogni ente il 25% dei dipendenti è da considerarsi a priori e a prescindere come di “merito basso” e dunque da privare completamente del salario accessorio.
Ma subito dopo aver affermato questo, si passa al comma 2. e 3., dove si dice che l’applicazione dell’articolo 19 non deve portare ad una diminuzione della retribuzione complessiva e pertanto dovrà essere finanziato “esclusivamente” da risorse aggiuntive (che però Tremonti allo stato non mette a disposizione).
Chiaro? La storiella dello stipendio bloccato, ma che non si riduce, sparso a piene mani da Governo e sindacati complici fino a ieri, non era affatto vera. Anzi, applicando la riforma Brunetta in tutte le sue parti subito, come avevano detto da sempre i sindacati indipendenti dal governo, ci sarebbero stati dei tagli drastici per una parte significativa di lavoratori pubblici, a prescindere dal merito, beninteso. E questo in pieno clima pre-elettorale. Ecco quindi la ragione per cui Bonanni e Brunetta si sono dati una mano.
Tuttavia, non è vero comunque che non ci saranno perdite salariali in questi anni di blocco delle retribuzioni e della contrattazione, alla faccia di quello che raccontano i sindacati complici. Anzitutto, la riforma Brunetta, con l’attiva collaborazione di Cisl e Uil e, molte volte, anche della Cgil, ha già provocato nel 2010 la ridefinizione in senso peggiorativo dei sistemi premianti in molti enti. E, soprattutto, per il solo effetto del blocco delle retribuzioni ci sarà mediamente un perdita in termini di potere d’acquisto di circa 1.600 euro per dipendente, secondo le stime più caute della Cgil.
A quanto c’è scritto nell’intesa del 4 febbraio va però aggiunto anche quello che non c’è scritto, quello che drammaticamente manca. Anzitutto manca un qualsiasi accenno ai tanti precari e alle tante precarie che popolano la pubblica amministrazione e che spesso garantiscono il funzionamento dei servizi, ma ai quali viene negata una prospettiva di stabilizzazione e che ora rischiano il posto di lavoro. E non è soltanto questione di equità e giustizia, ma anche di efficienza dei servizi, considerato che la stretta sul pubblico impiego, contenuta nella legge n. 122 del 30 luglio 2010 (ex dl 78/2010), prevede altresì il blocco del turn over, per cui nei prossimi due anni su 300mila uscite potranno essere fatte al massimo 60mila assunzioni.
Infine, arriviamo al silenzio più assordante in quella intesa: nemmeno una parola sulle elezioni dei rappresentanti sindacali (Rsu)! Infatti, in tutto il pubblico impiego le Rsu sono scadute a novembre dell’anno scorso, ma non state convocate ancora nuove elezioni, a causa principalmente del veto di Bonanni. Alla luce di questo fatto le considerazioni della Cisl, per cui l’accordo “dà più voce ai rappresentanti dei lavoratori”, suonano davvero come una presa per i fondelli.
Ma proprio con la vicenda del mancato rinnovo delle Rsu si chiude il cerchio con quanto Cisl e Uil fanno nel resto del mondo del lavoro. A Mirafiori l’accordo separato tra Marchionne e Bonanni & Co., infatti, ha abolito tout court le elezioni dei rappresentanti dei lavoratori.
In altre parole, non siamo di fronte a tante storie diverse, ma a diversi episodi della medesima storia. Ecco perché non è giustificabile che si continui, da parte della Cgil, ad eludere il tema dello sciopero generale e che si punti invece, ancora una volta, a un semplice sciopero di categoria, come quello del pubblico impiego proclamato per il 25 marzo prossimo.
 
P.S. segnalo inoltre che per l’11 marzo prossimo è già stato proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie da parte dell’Usb, che avrà come una delle questioni centrali proprio il pubblico impiego.
 
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare l’intesa separata del 4 febbraio scorso, la legge 122/2010 e il d.lgs 150/2009
 
 

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