Blog di Luciano Muhlbauer
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Che si alzasse un’ondata di polemiche da parte delle destre e della Lega, dopo l’attentato incendiario che ieri mattina ha danneggiato la sede milanese del gruppo neonazista Lealtà Azione, stava nella normalità delle cose. E non sorprende neanche che si tirasse in ballo il Sindaco Pisapia, accusato di non essere connivente con i gruppi neofascisti come lo erano invece i suoi predecessori, anche se le parole della consigliera provinciale Capotosti (FdI) hanno francamente passato il segno. Ma quello che non può essere in nessun caso tollerato e permesso è che da parte dei gruppi dell’estremismo neofascista e neonazista vengano indicati dei bersagli da colpire, con tanto di nome e cognome.
Ha iniziato la Destra per Milano, il gruppo di Jonghi Lavarini, che, giusto per essere originale, ha indicato come “responsabile morale” Saverio Ferrario, il principale animatore dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre.
Poi sono arrivati quei gentiluomini di Forza Nuova, cioè quelli che appena due giorni fa hanno appeso a Pescara dei cappi contro la Ministra Kyenge, i quali sul loro sito milanese hanno pubblicato una sorta di fatwa contro persone e realtà colpevoli di monitorare e denunciare le attività dei gruppi militanti del neofascismo milanese. Ovviamente, in cima alla loro lista c’è il solito Saverio Ferrari, ma poi tocca subito a delle realtà di movimento, cioè Milano In Movimento e Zam, e al sito curato dai compagni e dalle compagne di Dax.
Manco a dirlo, anche Forza Nuova se la prende con Pisapia, accusandolo delle solite cose, con l’aggiunta, degna della statura morale dei neonazisti, di essere amico dei pedofili (sic).
Ebbene, i neofascisti milanesi hanno fatto nomi e cognomi, hanno indicato bersagli. Non lo fanno tanto per la vicenda dell’incendio doloso di via Govone, ma perché non riescono a sopportare che ci siano degli antifascisti, che ci sia qualcuno che non sta zitto, che cerca di contrastare i loro piani, anche solo con l’informazione.
Da parte mia esprimo la massima solidarietà a chi è stato fatto oggetto di minacce, più o meno velate.
A chi, invece, è passato a emettere fatwa, contro singole persone e realtà collettive, va rammentato che verrà ritenuto responsabile di eventuali conseguenze.
 
Luciano Muhlbauer
 
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di lucmu (del 15/07/2013, in Politica, linkato 1060 volte)
Due fatti di questi giorni la dicono lunga sullo stato della nazione, molto più di tante disquisizioni. E non è questione di “limiti superati” o di qualcuno che ha “sbagliato”, poiché i protagonisti delle vicende sono il vicepresidente del Senato e ex Ministro di quel partito, la Lega, che governa mezzo Nord (Lombardia, Piemonte e Veneto) e il Ministro degli Interni in carica, che rappresenta il partito e la persona di Silvio Berlusconi. Ma andiamo con ordine, richiamando a memoria i fatti.
 
Fatto n. 1. Roma, fine maggio. Con una velocità procedurale mai vista e con un dispiegamento di forze dell’ordine degno di un’operazione contro Al Qaeda vengono prima catturate e poi espulse la moglie e la figlia del principale dissidente kazako, che vive in esilio a Londra. Tutta la vicenda è illegale, poiché Alma Shalabayeva e sua figlia Alua non potrebbero essere espulse, e per giunta l’operazione è stata sollecitata dall’ambasciata del Kazakistan, che ha contattato direttamente il capo gabinetto del Viminale.
Il Ministro Alfano dichiara che non ne sapeva nulla (e così dice anche il Ministro degli Esteri, Bonino), nonostante il coinvolgimento diretto dei massimi livelli dirigenziali del Ministero e della Polizia di Stato e la mobilitazione di mezza Questura di Roma.
Rimane il fatto che grazie a questa operazione la moglie e la figlia di uno dei principali oppositori sono ora ostaggi del dittatore kazako, Nursultan Äbiþulý Nazarbaev. Forse vi chiederete cosa c’entri il governo italiano con il tiranno kazako. Ebbene, non lo so, ma so che Nazarbaev e Berlusconi si considerano “amici” e che Alfano è il rappresentante di Berlusconi nel governo, nonché il capo supremo di coloro i quali hanno gestito l’espulsione lampo…
 
Fatto n. 2. Treviglio, 13 luglio, festa della Lega Nord. Roberto Calderoli fa il suo comizio e, ovviamente, non ce la fa a non dedicarsi a uno dei principali sport leghisti di questi tempi, cioè insultare il Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Ha detto che lei assomiglia a un “orango”. Poi si è scusato, però, e ha spiegato che non voleva offenderla e che “citare l’orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista” (vedi intervista Corsera di oggi)…
Già, Calderoli ha voluto strafare visto che Bossi gli aveva appena dato del “democristiano” e così avrà pensato che bisognava tornare ai bei vecchi tempi, in cui lui mostrava in Tv magliette anti-Maometto e si dedicava a cose edificanti come organizzare Maiale Day contro le moschee. Ma il punto non è questo, bensì il fatto che lui sta facendo esattamente la stessa cosa che fa tutta la Lega, sin dall’annuncio della nomina a Ministro di Cécile Kyenge. Ebbene sì, da ben prima che Kyenge potesse iniziare a parlare di ius soli o di altre proposte politiche, perché in realtà il peccato originale e imperdonabile è il colore della sua pelle. Appunto, come dice Calderoli, “è un giudizio estetico”!
Infatti, la Lega non si è scandalizzata più di tanto e Salvini si è limitato a dire che in realtà il problema sono i giornalisti che ne parlano, mentre il Presidente lombardo, Maroni, ha pensato bene di sottolineare che Calderoli si era scusato (sic).
 
Ebbene, questo è il breve riepilogo dei fatti, che ovviamente già conoscevamo. Ma è sempre bene metterli in fila, così non corriamo il rischio di sottovalutarli. Il quadro d’insieme che ne viene fuori è desolante, perché ci parla dell’Italia di questi tempi, delle macerie del ventennio berlusconiano-leghista e delle poco magnifiche sorti dei governi delle larghe intense.
Non me ne frega nulla del paese normale di veltroniana memoria, vorrei semplicemente un paese che recuperi un minimo di dignità. Un posto dove gente che si comporta come Calderoli o Alfano va cacciata via dalle responsabilità pubbliche, senza tanti bla bla bla, come se fosse una cosa normale.
Temo, ahimè e ahinoi, che anche un minimo di dignità oggigiorno sia merce rara…
 
Luciano Muhlbauer
 
P.S. a proposito, ho fatto un giro sul blog di Beppe Grillo, dove a volte si trovano cosa interessanti e utili, altre volte un po’ meno. C’è qualcosina sulla vicenda kazaka, ma sugli insulti di Calderoli a Kyenge, nulla. Neanche una parola, almeno fino al momento della pubblicazione di questo post. E penso che non sia una cosa bella e che, anzi, faccia parte del problema.
 
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Su questo blog abbiamo denunciato ripetutamente l’uso sempre più spinto e sproporzionato di strumenti repressivi per contrastare e disincentivare le lotte sociali. Il caso più estremo ed eclatante è senz’altro il ricorso ad una figura di reato inventata dal fascismo e mai abolita in periodo democratico, cioè quella di “devastazione e saccheggio”, che sta generando degli autentici mostri, come dimostra l’esito complessivo dei processi sul G8 di Genova (vedi il mio articolo Marina, Alberto e Gimmy siamo noi). Ma appunto, è soltanto il caso più estremo, poiché esistono innumerevoli modi per criminalizzare il conflitto sociale:  per un precario o un operaio anche una multa salata per blocco stradale può risultare devastante.
Per questo, specie in questi tempi di crisi occupazionale e sociale, è maledettamente importante non sottovalutare quello che sta succedendo e non stare con le mani in mano. Occorre prendere un’iniziativa e quella avviata dall’Osservatorio sulla Repressione, insieme ad altre realtà, mi pare vada nella giusta direzione. Il Manifesto per un censimento delle denunce e l’amnistia per le lotte sociali pone il problema e vuole avviare un percorso.
Per quanto mi riguarda aderisco in pieno all’iniziativa e, quindi, vi propongo di fare altrettanto, qualora ovviamente ne condividiate il senso e l’obiettivo.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Manifesto per un censimento delle denunce e l’amnistia per le lotte sociali
 
Negli ultimi mesi, fra alcune realtà sociali, politiche e di movimento, ma anche singoli compagni e avvocati, è nato un dibattito sulla necessità di lanciare una campagna politica sull’amnistia sociale e per l’abrogazione del Codice Rocco. Da tempo l’Osservatorio sulla repressione ha iniziato un censimento sulle denunce penali contro militanti politici e attivisti di lotte sociali.
Ora abbiamo la necessità, per costruire la campagna, di un quadro quanto più possibile completo, che porterà alla creazione di un database consultabile on-line. Ad oggi sono state censite 17 mila denunce.
 
Il nuovo clima di effervescenza sociale degli ultimi anni, che non ha coinvolto solo i tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale ma anche ampie realtà popolari, ha portato a una pesante rappresaglia repressiva, come già era accaduto nei precedenti cicli di lotte. Migliaia di persone che si trovavano a combattere con la mancanza di case, la disoccupazione, l’assenza di adeguate strutture sanitarie, la decadenza della scuola, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il saccheggio e la devastazione di interi territori in nome del profitto, sono state sottoposte a procedimenti penali o colpite da misure di polizia. Così come sono stati condannati e denunciati militanti politici che hanno partecipato alle mobilitazioni di Napoli e Genova 2001 e alle manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma.
 
Il conflitto sociale viene ridotto a mera questione di ordine pubblico. Cittadini e militanti che lottano contro le discariche, le basi militari, le grandi opere di ferro e di cemento, come terremotati, pastori, disoccupati, studenti, lavoratori, sindacalisti, occupanti di case, si trovano a fare i conti con pestaggi, denunce e schedature di massa. Un “dispositivo” di governo che è stato portato all’estremo con l’occupazione militare della Val di Susa. Una delle conseguenze di questa gestione dell’ordine pubblico, applicato non solo alle lotte sociali ma anche ai comportamenti devianti, è il sovraffollamento delle carceri, additate dalla comunità internazionale come luoghi di afflizione dove i detenuti vivono privi delle più elementari garanzie civili e umane. Ad esse si affiancano i CIE, dove sono recluse persone private della libertà e di ogni diritto solo perché senza lavoro o permesso di permanenza in quanto migranti, e gli OPG, gli ospedali di reclusione psichiatrica più volte destinati alla chiusura, che rimangono a baluardo della volontà istituzionale di esclusione totale e emarginazione dei soggetti sociali più deboli.
 
Sempre più spesso dunque i magistrati dalle aule dei tribunali italiani motivano le loro accuse sulla base della pericolosità sociale dell’individuo che protesta: un diverso, un disadattato, un ribelle, a cui di volta in volta si applicano misure giuridiche straordinarie. Accentuando la funzione repressivo-preventiva (Fogli di via, Daspo, domicilio coatto), oppure sospendendo alcuni principi di garanzia (leggi di emergenza), fino a prevederne l’annientamento attraverso la negazione di diritti inderogabili. È ciò che alcuni giuristi denunciano come spostamento, sul piano del diritto penale, da un sistema giuridico basato sui diritti della persona a un sistema fondato prevalentemente sulla ragion di Stato.
 
Non è quindi un caso che dal 2001 a oggi, con l’avanzare della crisi economica e l’aumento delle lotte, si contano 11 sentenze definitive per i reati di devastazione e saccheggio, compresa quella per i fatti di Genova 2001, a cui vanno aggiunte 7 persone condannate in primo grado a 6 anni di reclusione per i fatti accaduti il 15 ottobre 2011 a Roma, mentre per la stessa manifestazione altre 18 sono ora imputate ed è in corso il processo.
 
Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future urtando quelle presenti. Le organizzazioni della classe operaia, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alle campagne per l’amnistia per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Oggi sollevare il problema politico della legittimità delle lotte, anche nelle loro forme di resistenza, condurre una battaglia per la difesa e l’allargamento degli spazi di agibilità politica, può contribuire a sviluppare la solidarietà fra le varie lotte, a costruire la garanzia che possano riprodursi in futuro. Le amnistie sono un corollario del diritto di resistenza. Lanciare una campagna per l’amnistia sociale vuole dire salvaguardare l’azione collettiva e rilanciare una teoria della trasformazione, dove il conflitto, l’azione dal basso, anche nelle sue forme di rottura, di opposizione più dura, riveste una valenza positiva quale forza motrice del cambiamento.
 
In un’ottica riformatrice le amnistie politiche sono sempre state strumenti di governo del conflitto, un mezzo per sanare gli attriti tra costituzione legale e costituzione materiale, tra le fissità e i ritardi della prima e l’instabilità e il movimento della seconda. Sono servite a ridurre la discordanza di tempi tra conservazione e cambiamento, incidendo sulle politiche penali e rappresentando passaggi decisivi nel processo d’aggiornamento della giuridicità. È stato così per oltre un secolo, ma in Italia le ultime amnistie politiche risalgono al 1968 e al 1970.
 
Aprire un percorso di lotta e una vertenza per l’amnistia sociale – che copra reati, denunce e condanne utilizzati per reprimere lotte sociali, manifestazioni, battaglie sui territori, scontri di piazza – e per un indulto che incida anche su altre tipologie di reato, associativi per esempio, può contribuire a mettere in discussione la legittimità dell’arsenale emergenziale e fungere da vettore per un percorso verso una amnistia generale slegata da quegli atteggiamenti compassionevoli e paternalisti che muovono le campagne delegate agli specialisti dell’assistenzialismo carcerario, all’associazionismo di settore, agli imprenditori della politica. Riportando l’attenzione dei movimenti verso l’esercizio di una critica radicale della società penale che preveda anche l’abolizione dell’ergastolo e della tortura dell’art. 41 bis.
 
Chiediamo a tutti e tutte i singoli, le realtà sociali e politiche l’adesione a questo manifesto, per iniziare un percorso comune per l’avvio della campagna per l’amnistia sociale.
 
A coloro che hanno a disposizione dati per il censimento chiediamo inoltre di compilare la scheda che può essere scaricata qui.
 
Schede e/o adesioni vanno inviate a:
 
 
PRIME ADESIONI AL MANIFESTO
(per ulteriori aggiornamenti visita il sito www.osservatoriorepressione.org)
 
Adesioni collettive:
ACAD, Associazione contro abusi in divisa onlus
Acoustic Impact, gruppo musicale
Assalti Frontali, gruppo musicale
Associazione Solidarietà Proletaria (ASP)
ATTAC Italia
Azione antifascista Teramo
Banda Bassotti, gruppo musicale
BandaJorona, gruppo musicale
Baracca Sound, gruppo musicale
Blocchi Precari Metropolitani, Roma
Centro sociale 28 maggio, Rovato (BS)
Coordinamento regionale dei Comitati NoMuos
Comitato Amici e Familiari Davide Rosci
Comitato di Quartiere Torbellamonaca, Roma
Comitato Piazza Carlo Giuliani, Genova
Communia, Spazio di mutuo soccorso, Roma
Confederazione dei Comitati di Base (COBAS)
Confederazione COBAS Pisa
Confederazione COBAS Terni
Consiglio Metropolitano di Roma
Coordinamento Regionale USB Umbria
CPOA Rialzo, Cosenza
CSA Depistaggio, Benevento
CSA Germinal Cimarelli, Terni
CSOA Angelina Cartella, Reggio Calabria
Ginko (Villa Ada Posse) & Shanty Band, gruppo musicale
ISM – Italia
Ital Noiz Dub System, gruppo musicale
L@p Asilo 31- Laboratorio per l’Autorganizzazione Popolare Asilo 31, Benevento
Lavoratori Autorganizzati Ministero dell’Economia e delle Finanze
Legal Team Italia
LOA Acrobax, Roma
Madri per Roma città aperta
Movimento No Tav
Occupazioni Precari Studenti OPS area Castelli romani
Osservatorio sulla repressione
Radici nel cemento, gruppo musicale
Radio Maroon, gruppo musicale
RAT – Rete Antifascista Ternana
Redgoldgreen, gruppo musicale
Rete Bresciana Antifascista
Rete 28 aprile Fiom - opposizione Cgil
Spazio Popolare Occupato S. Ermete, Pisa
Terradunione, gruppo musicale
Tribù Acustica, gruppo musicale
Unione Sindacale di Base (USB)
USB Bergamo
Wu Ming - scrittori
99 Posse, gruppo musicale
 
Adesioni individuali:
Alessandro Dal Lago
Alessandra Magrini (AttriceContro), Roma
Alfredo Tradardi, coordinatore ISM – Italia
Alfonso Perrotta, Roma
Anna Balderi, Ladispoli
Andrea Bitonto
Antonino Campenni, ricercatore Università della Calabria
Antonio Musella, giornalista, Napoli
Assia Petricelli
Beppe Corioni
Bianca «la Jorona» Giovannini, musicista
Carlo Bachschmidt, consulente tecnico processi G8
Carlo Pellegrino, medico chirurgo
Carlo TompetriniCarmelo Eramo, insegnante
Caterina Calia, avvocato, Roma
Cesare Antetomaso, Giuristi Democratici
Checchino Antonini, giornalista di Liberazione
Claudia Urzi, insegnante
Claudio Dionesalvi, insegnante
Claudio Guidotti, Roma
Cosimo Maio, Benevento
Cristiano Armati, scrittore
Cristina Povoledo, Roma
Daniela Frascati, scrittrice
Daniele Catalano
Daniele Sepe, musicista
Dario Rossi, avvocato, Genova
Davide Rosci, detenuto per i fatti del 15 ottobre 2011
Davide Steccanella, avvocato, Milano
Demetrio Conte, Counselor ed educatore, Milano
Don Vitaliano Della Sala, parroco
Donatella Quattrone, blogger
Elena Giuliani, sorella di Carlo Giuliani
Emanuela Donat Cattin, Milano
Emidia Papi, USB
Enrico Contenti, ISM-Italia
Ermanno Gallo, scrittore, cittadino
Erri De Luca, scrittore
Fabio Giovannini, scrittore e autore televisivo
Federico Mariani, Roma
Federico Micali
Francesca Panarese, Benevento
Francesco Barilli, coordinatore reti-invisibili.net
Francesco Caruso, ricercatore Università della Calabria
Francesco Romeo, avvocato, Roma
Franco Coppoli, COBAS Terni
Franca Gareffa, Dipartimento sociologia Università della Calabria
Franco Piperno, docente di Fisica, Università della Calabria
Fulvia Alberti, regista
Gabriella Grasso, Milano
Gigi Malabarba
Gilberto Pagani, avvocato, presidente Legal Team Italia
Giovanni Russo Spena, responsabile giustizia PRC
Giulia Inverardi, scrittrice
Giulio Bass, musicista
Giulio Laurenti, scrittore
Giuseppina Massaiu, avvocato, Roma
Gualtiero Alunni, portavoce Comitato No Corridoio Roma-Latina
Guido Lutrario, USB, Roma
Haidi Gaggio Giuliani, Comitato Piazza Carlo Giuliani
Italo Di Sabato, Osservatorio sulla repressione
Laura Donati
Lello Voce, poeta
Lorenzo Guadagnucci, giornalista, Comitato Verità e Giustizia per Genova
Luciano Muhlbauer
Ludovica Formoso, praticante avvocato, Roma
Luigi Fucchi, coordinamento regionale USB Umbria
Manlio Calafrocampano, musicista
Marco Arturi, Rete 28 aprile, Torino
Marco Bersani, Attac Italia
Marco Clementi, storico
Marco Di Renzo, Roma
Marco Rovelli, scrittore e musicista
Marco Spezia, Tecnico della sicurezza su lavoro, Sarzana (SP)
Mario Battisti, Roma
Mario Pontillo, responsabile carceri PRC
Massimo Carlotto, scrittore
Mc Shark, Terradunione, musicista
Michele Baronio, attore
Michele Capuano, regista-scrittore
Michele Vollaro, storico e giornalista
Miriam Marino, scrittrice, Rete ECO, AMLRP
Nando Grassi, insegnante, Palermo
Nicoletta Crocella, responsabile edizioni Stelle Cadenti
Nunzio D’Erme, Roma
Paola Staccioli, Osservatorio sulla repressione
Paolo Caputo, ricercatore Università della Calabria
Paolo Di Vetta, Blocchi Precari Metropolitani
Paolo Persichetti, insorgenze.wordpress.com
Paolo “Pesce” Nanna, comico periferico
Pasquale Vilardo, avvocato, Toma
Pino Cacucci, scrittore
Rasta Blanco, musicista
Renato Rizzo, segreteria romana Unione Inquilini
Riccardo Infantino, insegnante
Roberto Ferrucci, scrittore
Roberto Vassallo, Direttivo CGIL Milano, RSU FIOM Almaviva Milano
Rodolfo Graziani, Terni
Salvatore Palidda, Università di Genova
Serge Gaggiotti (Rossomalpelo), cantautore
Sergio Bellavita, portavoce nazionale Rete 28 aprile Fiom
Sergio Bianchi, casa editrice DeriveApprodi
Sergio Riccardi, Roma
Silvia Baraldini, Roma
Simonetta Crisci, avvocato, Roma
Stefano Ciccantelli, coordinatore circolo SEL Pineto (TE)
Stefano Poloni, Milano
Tamara Bartolini, attrice
Tatiana Montella, avvocato
Tiziano Loreti, Bologna
Valentina Perniciaro, blogger baruda.net
Valerio Evangelisti, scrittore, Bologna
Valerio Mastandrea, attore
Valerio Monteventi, Bologna
Vincenzo Brandi, ingegnere, ISM-Italia
Vincenzo Miliucci, COBAS, Roma
Vittorio Agnoletto
Wsw Wufer, musicista
 
per aderire manda mail a amnistiasociale@gmail.com
 
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In Italia c’è un numero crescente e sempre più significativo di lavoratori e lavoratrici che sono de facto esclusi dal sistema di diritti, regole e tutele previsto dalla legislazione sul lavoro. Per loro l’italianissimo Statuto dei Lavoratori ha la stessa valenza del codice della strada della Nuova Zelanda. Sulla carta vale anche per loro il diritto costituzionale di sciopero e di libera associazione sindacale, ma guai a esercitarlo, perché poi arriva il licenziamento e, se va male, pure le botte della polizia. Ed è tutto in regola, tutto legale.
Si tratta di lavoratori in nero o precari o, in misura crescente, dipendenti da imprese e cooperative che lavorano in regime di appalto, subappalto e subsubappalto. È una parte del mondo del lavoro in continua espansione, dove decenni di conquiste sociali sono state spazzate via e dove vigono livelli salariali inferiori e spesso infami (ovvio, perché in ultima analisi il senso del tutto è proprio questo). Si tratta di una piaga che invade e pervade ormai tutta l’economia, dal privato al pubblico, e tende ad essere persino dominante in alcuni settori strategici, come nella logistica e nella movimentazione merci.
Non è un caso che in questi anni alcune delle lotte più dure si stiano dando nella logistica. Lì, come ti muovi, scatta immediatamente e pesantemente la repressione. Infatti, il settore è troppo importante e le aziende coinvolte troppo potenti. Già, perché quei lavoratori, privi dei diritti più elementari, pur dipendendo contrattualmente da imprese e cooperative sconosciute, di fatto lavorano nella movimentazione merci di autentici giganti, come l’Ikea, LegaCoop, il Gigante, la Granarolo eccetera.
Vi ricordate, per esempio, del brutale intervento di polizia di un anno fa contro i facchini in sciopero a Basiano, nel milanese? Comunque, i fatti sono molti e testimoniano di un nascente movimento di lotta nel settore, che nel frattempo ha realizzato anche due scioperi nazionali, grazie al sostegno di alcuni sindacati di base (SiCobas, Adl Cobas, Conf. Cobas Lav. Privato).
La tensione più alta è stata raggiunta finora in Emilia-Romagna, regione che ospita molti snodi logistici, con la lotta ai magazzini dell’Ikea di Piacenza e gli scioperi e i blocchi a Bologna. In quelle occasioni, oltre gli ormai consueti interventi delle forze dell’ordine, c’è stato anche un salto di qualità nel tentativo di limitare l’esercizio dei diritti sindacali: a marzo il Questore di Piacenza ha dato un foglio di via a un dirigente sindacale del SiCobas, Aldo Milani, e poco tempo dopo, in seguito agli scioperi alla Granarolo e alla LegaCoop di Bologna, è intervenuta persino la Commissione di Garanzia Sciopero, decretando che le norme restrittive della legge 146/90 vanno d’ora in avanti applicate anche nella logistica.
Ma poi, appunto, lo strumento principale di repressione dei lavoratori rimane sempre il licenziamento. E così, per far capire a tutti che bisogna stare zitti e buoni e che è vietato scioperare, sono stati licenziati 51 operai che lavoravano per la movimentazione merci della Granarolo di Bologna. Su questa vicenda si e sviluppata una battaglia generale e il 29 giugno scorso c’è stata anche una giornata di mobilitazione davanti alla Granarolo, dove sono state decise nuove mobilitazioni e scioperi ed è stato lanciato un appello sul piano nazionale per una campagna di boicottaggio dei prodotti Granarolo (qui il resoconto dell’assemblea del 29).
 
Ebbene, io penso che quei lavoratori non vadano lasciati da soli, che vada sostenuta la loro mobilitazione, che peraltro non è per la luna, ma molto più banalmente per il rispetto dei diritti più elementari, come un salario decente, il rispetto dei contratti (a proposito di “esigibilità”…), il posto di lavoro. Questo significa concretamente sostenere la campagna per la riassunzione dei 41 licenziati a Bologna. E uno strumento immediato c’è: sospendiamo fino al reintegro dei 51 l’acquisto dei prodotti Granarolo (i prodotti sono tanti e per sapere quali sono basta consultare la lista).
Per chi sta a Milano, segnalo inoltre un presidio a sostegno della campagna di boicottaggio, organizzato dal Csa Vittoria e dal SiCobas, per sabato 6 luglio, alle ore 16.00, all’Ipercoop di viale Umbria.
 
Luciano Muhlbauer
 
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La lotta paga! Un tempo queste parole si sentivano spesso, non per una questione ideologica, ma perché l’esperienza concreta e la vita insegnavano che era così. Poi arrivarono le sconfitte, gli arretramenti e anche le rese. I tempi stavano cambiando. Oggi moltissimi lavoratori, precari, studenti e disoccupati non ci credono più a quelle parole, perché non le hanno vissute. Anzi, in molti luoghi è andata persino persa la memoria del fatto che i diritti non sono delle gentili concessioni, ma il frutto di dure lotte.
Anche per questo è importante far conoscere le esperienze concrete che invece ci ricordano che la lotta paga, anzi, che in ultima analisi la lotta, cioè il mettersi in gioco in prima persona, collettivamente, è l’unica maniera possibile per ottenere un risultato, per sé stessi e per gli altri.
Vi ricordate degli otto operai di un appalto Inps che circa un mese fa occuparono per due giorni gli uffici della Direzione regionale dell’Inps a Milano? Ebbene sì, hanno vinto la loro battaglia e hanno conquistato il loro reintegro nel posto del lavoro. Sono stati bravissimi, gli faccio i miei complimenti.
Eppure, un mese fa non era facile immaginarsi una vittoria. Il mondo degli appalti, delle cooperative che vanno e vengono, è un mondo bastardo, dove le leggi sul lavoro, come lo Statuto dei Lavoratori, sono sistematicamente e istituzionalmente eluse, cioè non valgono. E la cosa peggiore è che quel mondo è ormai dappertutto, è entrato persino in enti pubblici come l’Inps, che sarebbe poi l’ente che deve controllare la regolarità contributiva delle aziende…
Un mese fa, durante l’occupazione degli uffici, ero rimasto molto colpito dalla reazione del direttore regionale dell’Inps. Mi aspettavo altro da un dirigente pubblico, visto che aveva di fronte otto lavoratori che da tempo lavoravano nelle sedi Inps, facendo i facchini. Cioè, non contestava le loro ragioni, quando gli raccontavano che erano stati licenziati perché avevano denunciato delle irregolarità e perché si erano iscritti a un sindacato. No, semplicemente aveva risposto come avrebbe potuto rispondere un direttore qualsiasi di un centro commerciale qualsiasi: “va bene, ma io cosa c’entro?”, “non siete dipendenti dell’Inps, ma di un’altra azienda”. Già, è questa la “meraviglia” del sistema degli appalti e succede persino all’Inps (sic).
Ma gli otto lavoratori non avevano ceduto, avevano insistito. L’Inps ha dovuto fare qualcosa e anche Questura, Prefettura e Direzione territoriale del lavoro sono rimasti coinvolti. E alla fine, hanno vinto la battaglia.
Fa bene leggere le loro parole di gioia (vedi i comunicati riprodotti in calce), ma soprattutto è bene far conoscere questa storia. È una storia piccola, di otto lavoratori di un appalto di facchinaggio, ma è una storia estremamente preziosa, perché in realtà, parla di tutti noi.
 
Luciano Muhlbauer
 
 
Il comunicato dei lavoratori e quello del sindacato ADL:
 
Noi 8 lavoratori del facchinaggio in appalto INPS REGIONE LOMBARDIA eravamo stati esclusi nel cambio appalto del 14 maggio 2013 dal nostro legittimo posto di lavoro, perché sindacalizzati e perciò scomodi in appalti gestiti senza nessuna correttezza, giustizia e criterio.
Oggi 18 giugno 2013, dopo una lotta molto dura, ABBIAMO RICONQUISTATO CON LA LOTTA IL NOSTRO LAVORO. E tutti e 8 siamo stati riassunti a tempo indeterminato e full time.
Ringraziamo i compagni e le compagne che ci sono state vicino in questa lotta e ci fa molto piacere citarli: Rosa Piro, Luciano Muhlbauer, Massimo Gatti, Angelo Pedrini, Luigia Pasi, Stella, il Ganazzoli, Vittorio, Nati, più altri devoti a San Precario, Matteo ed altri della F.A.I., Beppe, Cuz ed altri SoS Fornace, Matteo ed altri del Boccaccio ed il nostro funzionario sindacale Giuseppe Tampanella.
La nostra LOTTA è una lotta di tutti e tutte e ci auguriamo che la vittoria sia di stimolo per chi tentenna e subisce e per chi combatte a testa alta per i propri diritti e dignità.
Questa lotta a noi lavoratori ci ha insegnato che bisogna costruire un tavolo permanete di sostegno a tutti coloro che rivendicano i loro diritti, senza bisogno di bandiere ma con la consapevolezza che la forza è data dal metodo e dalla solidarietà.
Oggi festeggiamo ma da domani saremo a sostenere i compagni e le compagne della CRESPI per cui la ditta ha aperto le procedure di mobilità dopo anni di sperperi e cattiva gestione.
 
Paolo Denini, delegato sindacale ADL Milano e Provincia, e tutti i lavoratori
 
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Ieri 18.06.2013 presso la DTL (Direzione territoriale del lavoro) di Milano sono state firmate le conciliazioni per i facchini dell'appalto INPS Regione Lombardia: tutti reintegrati sul proprio posto di lavoro a tempo indeterminato. La lunga lotta portata avanti dai lavoratori organizzati con il sindacato ha pagato!
Iniziata a ottobre 2012 con la denuncia di illeciti retributivi e contributivi, oltre che la mancanza di genuinità e correttezza nella gestione dell'appalto facchinaggio interno all'INPS Lombardia, è stata portata avanti con determinazione anche quando con la scusa del cambio appalto gli stessi lavoratori si sono ritrovati licenziati e costretti ad occupare gli uffici del direttore generale INPS Giuliano Quattrone.
L'azione del 23/24 maggio #OccupyINPS che ha visto gli 8 lavoratori licenziati ingiustamente restare per due giorni negli uffici della direzione regionale Inps ed uscire solo dopo aver avuto certezza di una conclusione positiva della loro situazione, è stata la più importante. Non solo per la radicalità espressa dai facchini, ma in assoluto per la
rete dinamica di realtà sindacali, collettive e (non ultime) singole persone che hanno dato la propria solidarietà attiva alla lotta.
I lavoratori e il proprio sindacato ADL ringraziano tutti coloro che mettendosi a disposizione con le proprie forze, specificità, sincero spirito unitario, hanno dimostrato quali potenzialità ci sia in chi lotta al di fuori delle dinamiche di mera propaganda e dalle logiche di sterili comunicati di sostegno virtuale, contribuendo in modo decisivo all'esito della vertenza.
Grazie Compagn* uniti si vince! non perdiamoci di vista ;)
 
Beppe Tampanella ADL Milano e Provincia
 
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di lucmu (del 20/06/2013, in Movimenti, linkato 1478 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto il 20 giugno 2013.
 
Con la sentenza definitiva su Bolzaneto si è concluso anche l’ultimo dei grandi processi simbolo sul G8 del 2001. Sarebbe dunque tempo di bilanci e di qualche ragionamento, ma in giro sembra esserci poca voglia di farlo. Anzi, paragonato al clamore mediatico che un anno fa aveva accompagnato la sentenza Diaz, quella su Bolzaneto è passata praticamente inosservata.
Nulla di sorprendente, in fondo, perché tutti sapevamo che quella sentenza non avrebbe aggiunto nulla di nuovo. E poi, sono passati parecchi anni, quel movimento non c’è più e i tempi sono cambiati. Tutto comprensibile, per carità, eppure c’è qualcosa che non quadra, che stona terribilmente.
Già, perché alla fine della fiera, dopo tante sentenze e l’accertamento di un numero impressionante di gravi reati contro la persona, gli unici che stanno in galera, peraltro con pene allucinanti fino a 14 anni, sono alcuni manifestanti di allora, presi a casaccio e colpevoli esclusivamente di aver danneggiato delle cose. Si chiamano Marina, Alberto e Gimmy.
Peraltro, il numero degli ex manifestanti carcerati potrebbe pure crescere, visto che i condannati in via definitiva per “devastazione e saccheggio” sono dieci. Degli altri, uno è ancora irreperibile, Ines è agli arresti domiciliari e per cinque è necessario un nuovo passaggio in appello, ma limitatamente a un singolo attenuante.
Penso che abbandonare quelle persone al loro destino sia inammissibile. Umanamente, moralmente e politicamente. L’esito complessivo dei processi genovesi, con la sua manifesta disparità di trattamento, è infatti destinato a fare da precedente, a rafforzare la sensazione di impunità tra il personale degli apparati di sicurezza e a legittimare l’uso di pene sproporzionate ed esemplari contro manifestanti.
Il reato di “devastazione e saccheggio”, risalente al periodo fascista, non è certo l’unico strumento giuridico a disposizione per fini repressivi, ma è senz’altro quello più estremo e discrezionale, poiché non ti punisce per quello che hai fatto, ma per averlo fatto in determinate circostanze. Ed è così che una bagatella, come una vetrina rotta, può trasformarsi in un reato paragonabile all’omicidio. Ebbene sì, perché la pena prevista per devastazione e saccheggio è tra 8 e 15 anni, mentre quella per omicidio preterintenzionale è tra 10 e 18 anni e quella per omicidio colposo non supera i 5 anni.
Quando giustamente ci indigniamo per la brutalità della repressione in Turchia, dovremmo ricordarci anche di questo, specie ora, visto che quel tipo di accusa viene utilizzato in maniera sempre più disinvolta, come sembrano indicare i processi per i fatti di Roma del 15 ottobre 2011.
L’altra faccia della medaglia, altrettanto grave, è l’impunità degli apparati repressivi. Nessuno pagherà per le violenze della Diaz e di Bolzaneto, mentre per l’omicidio di Carlo Giuliani non c’è stato nemmeno il processo. Beninteso, la questione non è invocare la galera per i poliziotti, ma comprendere che l’impunità genera mostri. Siamo sicuri che i casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Ferrulli eccetera non c’entrino con tutto questo? O che non c’entri il fatto che i reparti antisommossa italiani riescano a resistere al numero identificativo sul casco, quando persino i loro colleghi turchi ce l’hanno?
Insomma, qui non si tratta di dibattere sul passato, bensì di costruire ora e qui una battaglia politica per l’abrogazione del reato di “devastazione e saccheggio”, per l’introduzione di norme cogenti che pongano fine all’impunità, a partire da una legge sulla tortura, e per un’amnistia per i reati sociali, che possa restituire la libertà anche a Marina, Alberto e Gimmy.
 
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Quando stamattina è arrivata la notizia, ho dovuta rileggerla più volte. Infatti, era di quelle che fatichi a prendere per buona subito: 7 arresti per i fatti del 6 maggio scorso, quando a Milano i reparti antisommossa avevano fatto irruzione in Università Statale per zittire la protesta contro lo sgombero della libreria autogestita ex Cuem.
Ma come? Quel giorno non ci fu certo una guerriglia urbana, ma soltanto cariche della polizia all’interno dell’ateneo, cosa che peraltro a Milano non succedeva da qualche decennio, contro studenti e giovani che protestavano. Eppure, oggi sette giovani sono stati messi agli arresti domiciliari e altri tre hanno subito delle perquisizioni. In totale, secondo la Questura, sarebbero 32 i giovani deferiti per varie ipotesi di reato (resistenza a pubblico ufficiale, violenza, danneggiamento, lesioni aggravate, istigazione a delinquere, travisamento, porto di oggetti atti a offendere). Da parte mia, esprimo solidarietà agli arrestati e denunciati.
Gli odierni provvedimenti di polizia appaiono di per sé eccessivi e sproporzionati, come peraltro lo era l’ingresso della celere in università il 6 maggio scorso, ma se poi paragoniamo la mano dura contro gli studenti della ex Cuem con la iper-tolleranza mostrata da Questura e Prefettura nei confronti del raduno neonazista di sabato scorso, allora cascano proprio le braccia!
Già, perché sabato scorso a Milano il giro degli Hammerskins, di orientamento dichiaratamente nazista, aveva organizzato un raduno internazionale. La notizia del raduno nazi non era trapelata, il Sindaco ha denunciato che Questore e Prefetto l’avevano tenuto all’oscuro e questi ultimi hanno dichiarato che non c’era problema con quel raduno, che secondo loro si poteva tranquillamente tenere (ma l’apologia di fascismo non era reato?). Morale della storia: il raduno neonazista si è effettivamente svolto, nella città Medaglia d’Oro della Resistenza.
Insomma, il Questore Savina non era mai riuscito a conquistarsi le simpatie dei movimenti e della sinistra milanese, considerato anche che aveva esordito in città con l’irresponsabile intervento al rave di Cusago. Ma lo strabismo mostrato in questi giorni, con gli eccessi repressivi contro l’ex Cuem e con l’accondiscendente tolleranza nei confronti del peggio del peggio del neonazismo nostrano, è la goccia che fa traboccare il vaso. In altre parole, in via Fatebenefratelli c’è un problema grosso come una casa!
 
Luciano Muhlbauer
 
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Stop alla repressione poliziesca del governo Erdogan e solidarietà con il movimento che da quasi due settimane riempie le piazze e  le strade delle città turche. Sono queste le ragioni del presidio che si terrà oggi, mercoledì 12 giugno, dalle ore 18.00, davanti al Consolato della Turchia di Milano, in via Larga 19 (praticamente di fronte agli uffici comunali).
Il presidio è stato convocato in seguito alla drammatizzazione della situazione di ieri, con la scelta del governo turco di sgomberare piazza Taksim e, più in generale, di stroncare il movimento con la forza, compresi l’arresto di molti avvocati e l’imposizione di una censura ancora più rigida sul sistema informativo.
È decisamente giunto il momento di fare sentire anche a Milano la solidarietà con i giovani turchi in movimento e il nostro ripudio totale nei confronti della scelta repressiva e autoritaria del governo Erdogan. Già, perché nella nostra città gli unici a farsi vivi con la loro solidarietà sono stati finora i collettivi e le reti degli studenti.
A piazza Taksim e in tutta la Turchia i giovani si stanno battendo per la laicità e la democrazia, contro l’autoritarismo e contro la mercificazione degli spazi urbani, per appropriarsi del loro futuro. Sono cose che ci riguardano, o no?
Il presidio è stato lanciato dai soli Arci, Cgil, Sel e Rifondazione (sotto potete trovare il comunicato), non per limitare le adesioni, ma semplicemente per accelerare al massimo i tempi e riuscire a realizzare l’iniziativa ancora oggi.
Pertanto, invito tutte le realtà solidali con il movimento turco, che vogliono esprimere il ripudio per la brutale repressione, a partecipare a far circolare le loro adesioni in rete e con propri comunicati.
 
Luciano Muhlbauer
 
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Solidarietà ai manifestanti e ai movimenti di Gezi Park
 
Le drammatiche notizie che giungono dalla Turchia, la feroce repressione messa in atto dal governo contro i cittadini che manifestano pacificamente, ci impongono di rompere il silenzio per chiedere:
  • la fine delle violenze contro i manifestanti;
  • la fine degli arresti di massa e il rilascio di tutti i manifestanti arrestati e la garanzia che contro di loro non vengano avviati procedimenti amministrativi o giudiziari;
  • il pieno rispetto del diritto alla libertà di espressione, di manifestazione e assemblea per tutti i cittadini;
  • la garanzia della libertà di stampa e di espressione per giornalisti, bloggers, attivisti dei social media;
Per chiedere questo ci troveremo tutti alle ore 18 sotto il consolato turco di Milano, in via Larga 19.
In quell'occasione chiederemo un incontro al Console Generale Turco a Milano per esprimere la nostra condanna della politica repressiva messa in atto dalle autorità di Ankara nei confronti dei loro cittadini.
 
Arci, Cgil, Prc, Sel
 
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Non merita sicuramente l’appellativo epocale, ma l’accordo sulla rappresentanza, firmato il 31 maggio scorso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, certifica indubbiamente un cambiamento di fase. Cioè, si chiude il periodo delle divisioni tra la Cgil e Cisl-Uil e si apre una nuova fase all’insegna della ricostituzione del quadro unitario tra le tre confederazioni, del restringimento della sfera di autonomia di lavoratori, delegati e categorie e della compressione della conflittualità sociale.
Insomma, in sintonia con il clima di larghe intese politiche, si ripropone, o si tenta di riproporre, lo schema neocorporativo e concertativo degli anni ’90 del secolo scorso, ma con la significativa differenza che oggi i rapporti di forza sono immensamente peggiori e i margini di manovra vengono continuamente erosi dalle politiche d’austerità. In altre parole, a queste condizioni il massimo che si può concertare è la resa e non è nemmeno detto che sia onorevole.
Molto difficile pensare che i vertici di Cgil, Cisl e Uil non avessero piena coscienza di ciò e ne è dimostrazione il fatto che il terreno concreto dell’accordo fosse proprio la questione della rappresentanza e della democrazia, cioè del chi e del come decide. Peraltro anche un altro accordo “storico”, quello del 23 luglio 1993, conteneva un nucleo duro dedicato alla questione. Infatti, lo scempio antidemocratico del 33% dei delegati RSU assegnati d’ufficio a Cgil-Cisl-Uil, a prescindere dal voto dei lavoratori, fu introdotto proprio allora.
L’accordo del 31 maggio va dunque valutato per quello che è e per quello che produrrà, da un punto di vista politico e da un punto di vista sostanziale.
 
La subalternità al quadro politico
Sembra quasi un controsenso parlare di subalternità al quadro politico nel momento storico in cui i partiti attraversano una crisi di credibilità e di legittimità senza precedenti e la politica appare più che mai ininfluente, anzi irrilevante, rispetto agli interessi sociali ed economici dominanti. Eppure, è proprio così. Anzi, fa sempre impressione constatare il basso livello di autonomia degli organismi dirigenti confederali dai partiti e dai governi. Beninteso, non tutte le grandi scelte sindacali si spiegano così, ci mancherebbe altro, ma è praticamente impossibile fare la storia recente delle divisioni e delle ricomposizioni dei gruppi dirigenti confederali senza tenere conto dell’evoluzione del quadro politico.
Il decennio di conflitti tra la Cgil e la Cisl, con la Uil di solito schierata con la seconda, è iniziato grosso modo nel 2003, con le grandi mobilitazioni della Cgil in difesa dell’art. 18. Erano gli anni del secondo governo Berlusconi e della riforma liberista del mercato del lavoro, ma anche dei movimenti no global e contro la guerra. I DS erano stretti tra i movimenti, la critica della base e un Berlusconi saldamente in sella e avevano necessità di fare opposizione. Nessuno invitava la Cgil a fermarsi, mentre la Cisl, fedele alla sua impostazione corporativa e collaborazionista, iniziava a rafforzare i rapporti con il centrodestra. Bonanni e il Ministro Sacconi facevano praticamente squadra e alla fine del decennio al Ministero del Lavoro c’era il pieno di dirigenti e funzionari targati Cisl.
L’esperienza del governo Prodi (2006-2008) era stata troppo breve e precaria per poter modificare il quadro, anche se in quella fase la Cgil aveva ovviamente abbassato parecchio la conflittualità. Poi era tornato Berlusconi e quindi anche l’antiberlusconismo, compreso quello sindacale.
La svolta iniziava a prendere corpo lentamente, ma inesorabilmente, a partire dal primo governo delle larghe intese, che vedeva il Pd in maggioranza. Già ai tempi di Monti il tasso di conflittualità espresso dalla Cgil era scandalosamente basso. Per intenderci, basso non rispetto alle aspettative di qualche estremista, bensì rispetto a quello che succedeva nel resto d’Europa. Persino il sindacato democristiano belga era più combattivo! Da noi invece, neanche uno sciopero generale, nemmeno contro la scandalosa riforma delle pensioni, e la stessa manomissione dell’articolo 18 da parte della riforma Fornero passò in maniera piuttosto indolore. Infine, è arrivato il governo Letta e con esso anche l’accordo del 31 maggio.
Certo, non tutto si spiega con il quadro politico ed è anche vero che la segreteria Camusso, nata prima dei governi delle larghe intese, aveva sin dall’inizio la mission strategica della ricostruzione dell’unità confederale e del rientro nei ranghi dei riottosi, a partire dalla Fiom. Tuttavia, è lampante che il quadro politico e, in particolare, il posizionamento del Pd eserciti un condizionamento determinante sui gruppi dirigenti della Cgil e, in ultima analisi, inibisca la costruzione di una battaglia sociale contro le politiche d’austerità.
 
Una democrazia escludente
Ma arriviamo al merito dell’accordo del 31 maggio. A suo favore si è detto che finalmente, dopo il pubblico impiego, anche nel settore privato sia stata regolata la rappresentanza sindacale, cioè che in qualche maniera sia stato attuato l’articolo 39 della Costituzione. Già, ma qui sta anche il primo enorme problema, cioè il primo vulnus. Se i titolari dei diritti e delle libertà sindacali sono i lavoratori, tutti i lavoratori, come si fa a ritenere soddisfacente, da un punto di vista democratico e costituzionale, una soluzione che assegna la regolamentazione dell’esercizio di tali diritti e libertà non a una legge, bensì a un accordo tra Confindustria e alcune organizzazioni sindacali, sebbene maggioritarie?
Non a caso, infatti, diversi giuslavoristi, come ad esempio Piergiovanni Alleva (vedi il Manifesto del 2 giugno scorso), pur valutando positivamente l’accordo, ritengono che un intervento legislativo sia tuttora necessario. Peccato però che a questo punto, con l’accordo del 31 maggio vigente, la speranza di vedere prima o poi una legge sia nel migliore dei casi una pia illusione.
Il fatto che siano delle parti in causa a scrivere le regole del gioco produce di per sé una distorsione e se, poi, questo avviene in un quadro segnato dalla recessione e dalla prospettiva di firmare contratti a ribasso per i lavoratori, allora eccoci di fronte alla realtà di una democrazia sotto tutela ed escludente, dominata anzitutto dalla preoccupazione di non perdere il controllo. E così, si realizza l’apparente paradosso di una situazione dove i contratti nazionali continuano a perdere forza e importanza rispetto ai contratti aziendali, ma contestualmente le organizzazioni sindacali tendono ad accentuare il controllo centrale e burocratico, riducendo l’autonomia e la forza dei livelli aziendali, Rsu e lavoratori, e delle categorie.
L’accordo del 31 maggio disegna un sistema escludente e autoreferenziale. Anzitutto esclude a monte tutte le organizzazioni sindacali diverse da Cgil, Cisl e Uil o che comunque, in un secondo momento, non accetteranno la linea dettata dalle tre confederazioni. Cioè, se non condividi l’accordo del 31 maggio, sei fuori.
Vi è poi la cosiddetta “soglia anti-Cobas”, per dirla con le parole di Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24 Ore. Il sistema prevede la misurazione della rappresentatività facendo una media tra la percentuale degli iscritti al sindacato e la percentuale di voti ottenuti nelle elezioni RSU, su base nazionale e per comparto contrattuale. Se superi il 5% allora puoi sederti al tavolo delle trattativa per il contratto nazionale, altrimenti sei fuori.
In linea di massima è lo stesso sistema già vigente nel Pubblico Impiego, ma con qualche significativa differenza. Anzitutto, nel privato il datore di lavoro non ha alcun obbligo di fare la trattenuta della quota sindacale in busta paga per un lavoratore iscritto a un sindacato non firmatario di contratti nazionali, come di solito sono i sindacati di base. E quindi, la certificazione del numero degli iscritti da parte dell’Inps, così come previsto dall’accordo del 31 maggio, semplicemente non è possibile in molti casi. In secondo luogo, al fine del calcolo della percentuale di voti ottenuti alle elezioni RSU non valgono tutti i voti dei lavoratori, ma “esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”.
In conclusione, il sistema non soltanto riproduce nel privato l’esclusione de facto dei sindacati conflittuali e di base, che spesso sono molto radicati e rappresentativi in alcuni luoghi ma che difficilmente raggiungono il 5% su scala nazionale, ma è persino peggiorativo. In questo senso, lascia aperto moltissime preoccupazioni per quello che potrà succedere a livello aziendale, in tema di diritti e libertà sindacali, man mano che gli effetti dell’accordo ricadranno sui livelli inferiori.
 
Delegati sotto tutela
Sarebbe tuttavia un grande errore pensare che l’accordo prenda di mira soltanto le organizzazioni sindacali di base, che negli ultimi due decenni hanno dimostrato di poter organizzare o sostenere lotte straordinarie (la vertenza dell’ospedale San Raffaele di Milano è l’ultimo caso in ordine di tempo), ma che complessivamente non sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di fondo, cioè la rottura del monopolio di Cgil-Cisl-Uil e il rinnovamento democratico e conflittuale del movimento sindacale italiano. Insomma, che sono rimasti troppo spesso ostaggio dei propri limiti e delle proprie divisioni.
No, l’accordo del 31 maggio si preoccupa anzitutto e soprattutto di disciplinare e mettere sotto controllo le realtà aziendali e categoriali che eventualmente non dovessero attenersi alle indicazioni del centro. E non importa che siano Cobas, delegati della Cgil o della Cisl, gruppi autorganizzati di lavoratori eccetera, importa evitare che si possano organizzare focolai di resistenza e di conflitto, laddove il centro ha invece deciso che deve regnare la calma.
Lo so, a qualcuno questo giudizio può sembrare eccessivo e a sostegno della sua critica potrebbe citare il fatto che l’accordo del 31 maggio abolisce la vergogna del 33% garantito a Cgil, Cisl e Uil e prevede l’elezione con voto proporzionale dei delegati RSU. Verissimo, l’abolizione del 33% è una cosa buona e, aggiungerei, anche sacrosanta dopo 20 anni (sic), ma in fondo il 33% ha perso anche la sua utilità in presenza di un sistema di per sé escludente.
Che non ci sia, da parte delle segreterie di Cgil, Cisl e Uil, una grande voglia di rendere protagonisti i lavoratori e i delegati è poi dimostrato da altre due clausole contenute nell’accordo. La prima prevede che laddove non siano già costituite delle RSU elette, “il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo”. La seconda, che rappresenta un’autentica new entry, stabilisce una sorta di mandato imperativo per i delegati RSU. Cioè, “il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica”. Certo, si tratta della solita norma anti-Cobas, ma non solo, perché funzionerebbe egregiamente anche per un delegato eventualmente espulso dall’organizzazione, tanto per fare un esempio. In altre parole, una spada di Damocle e un monito perenne, per non dimenticare mai che alla fin della fiera devi rispondere all’organizzazione sindacale e non certo ai lavoratori che ti hanno eletto.
 
Il referendum che non c’è più
Chi decide sui contratti? Una domanda sempre decisiva, come è giusto che sia, poiché i contratti nazionali, una volta firmati, anche se soltanto da una parte minoritaria del sindacato, hanno efficacia erga omnes. Cioè, valgono per tutti i lavoratori e le lavoratrici del comparto contrattuale.
È quindi una questione di democrazia e di autonomia del sindacato dal padrone, perché la logica dei contratti separati consegna alla parte padronale la libertà di scegliersi il sindacato più accomodante e il contratto più corrispondente ai propri interessi o capricci.
Bene dunque che si abbia voluto porre fine alla pratica dei contratti separati, tanto cara al sindacalismo collaborazionista della Cisl di Bonanni. È stato quindi introdotto il principio che i contratti nazionali sono validi soltanto se firmati da organizzazioni sindacali che abbiano nel loro insieme un livello di rappresentatività di almeno il 50%+1 e se validati dai lavoratori. Ma qui iniziano i problemi, perché la parte decisiva (decisiva almeno per chi scrive), cioè la validazione da parte dei lavoratori, è di un’ambiguità disarmante e, soprattutto, è sparito del tutto il referendum.
L’accordo del 31 maggio parla, infatti, di “consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori”, “le cui modalità saranno stabilite dalle categorie per ogni singolo contratto”. Insomma, un po’ pochino, mi pare. Non solo è sparito il referendum, ma le modalità sono incerte e demandate alle categorie. E alla fine, come dice Alleva, “qualcuno potrebbe essere tentato di mettere su semplici assemblee senza un voto realmente certificato”.
 
Il mantra dell’esigibilità e il conflitto sanzionabile
Una parola sconosciuta ai più, compresi molti attivisti sindacali: esigibilità. Eppure, è una parola che oggi sembra un mantra e che dobbiamo imparare. Vuol dire che i contratti, cioè quanto scritto e previsto dal contratto, debba trovare effettiva applicazione e che le parti che firmano il contratto sono in questo senso vincolati. Ovviamente, perché l’esigibilità possa funzionare, occorre prevedere anche delle sanzioni per chi è inadempiente.
A questo punto tutti quanti avranno capito perché fino a poco tempo fa il tema dell’esigibilità non faceva parte del dibattito pubblico. A dir la verità, qualche sindacalista nel passato ne aveva parlato, ma i padroni non avevano mai accettato un regime sanzionatorio e così, dopo aver conquistato il contratto, dovevi conquistare anche l’applicazione del contratto. Oggi le cose sono cambiate, con i contratti non arriva più maggior salario e maggiori diritti, ma i contratti portano generalmente sacrifici, meno diritti e salario e più orario. E con le cose sono cambiate anche le opinioni dei padroni: ora vogliono l’esigibilità e le sanzioni, da applicarsi a sindacalisti e lavoratori disobbedienti.
Aveva iniziato Marchionne, che anche in questo caso ha fatto da apripista. Il contratto di Pomigliano prevede sanzioni anche contro i lavoratori e non solo contro i delegati e le organizzazioni sindacali. Ovviamente, aggiungerei, perché puoi buttare fuori dalla fabbrica la Fiom e i Cobas, ma non è detto che poi qualche operaio, magari neanche tesserato, non possa disobbedire ai sindacati complici.
Comunque, la storia di sanzionare il lavoratore se sciopera o protesta dev’essere sembrata un po’ eccessiva a tutti nel mondo sindacale e così, l’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 28 giugno 2011 aveva accolto il principio dell’esigibilità, ma escluso che le sanzioni potessero essere applicate ai “singoli lavoratori”.
L’accordo del 31 maggio, che si richiama a quello del 28 giugno 2011, ritorna sull’argomento dell’esigibilità e formalizza la sua applicazione, ma curiosamente (o forse no) si dimentica di riaffermare l’esclusione dalle sanzioni dei singoli lavoratori.
D’ora in poi, vi sarà “la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa” e l’impegno “a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi”. Anche in questo caso, la definizione delle “clausole e/o procedure di raffreddamento” , cioè del regime sanzionatorio, è demandata alla contrattazione di categoria, ma sin d’ora si chiarisce che “le parti firmatarie della presente intesa si impegnano … affinché le rispettive strutture ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello territoriale e aziendale si attengano a quanto concordato”. Insomma, messaggio chiaro e, a questo punto, non poteva essere diversamente.
 
La questione Fiom
Già, la Fiom. Al sindacato metalmeccanico e, in particolare, al suo segretario, Maurizio Landini, è piovuto addosso di tutto in termini di accuse, compresa quella terribile di “tradimento”. Infatti, all’indomani della firma dell’accordo del 31 maggio, Landini aveva espresso un giudizio positivo e questo, inutile e sbagliato negarlo, ha prodotto non poco disorientamento tra quanti e quante in questi anni avevano condiviso battaglie, lotte, difficoltà, gioie e speranze con i metalmeccanici della Fiom.
Capisco l’asprezza dei toni e conosco le leggi della competizione sindacale e politica, ma non condivido per nulla l’introduzione della categoria del tradimento in questo dibattito. E non per una questione di bon ton, ma per il semplice motivo che credo che questa categoria non spieghi assolutamente nulla e non sia utile per guardare avanti. Anzi quella categoria ha qualcosa di troppo rassicurante, permette di individuare facilmente i buoni e i cattivi e, soprattutto, consegna l’illusione che tutto si riduca a una semplice questione di posizionamento nel dibattito. Invece, purtroppo, le cose sono meno semplici.
Non mi sono piaciuti gli applausi acritici della Fiom e penso che il via libera all’accordo, di cui le dichiarazione pubbliche fanno parte, sia il prezzo che i metalmeccanici hanno dovuto pagare alla maggioranza Cgil, per tenersi aperti alcuni spazi nella categoria. Infatti, se leggiamo l’accordo dal punto di vista della Fiom, inteso come sindacato di categoria, anche la serie di rinvii alla contrattazione di categoria assume una valenza diversa, poiché facendo leva sui rapporti di forza tra i metalmeccanici, la Fiom può pensare legittimamente di avere ora qualche carta in più da giocare.
Ma se quanto detto ha un senso, allora dobbiamo aggiungere subito un’altra considerazione. Cioè, la Fiom ha fatto una scelta tattica che è frutto di una debolezza, di una difficoltà, di un arretramento. Beninteso, non sto parlando di arretramenti politico-ideologici-eccetera di qualche dirigente, bensì di rapporti di forza sociali e politici con i quali la Fiom, come tutti noi, si trova a fare i conti.
La Fiom ha combattuto in questi anni una battaglia controcorrente in una situazione sociale difficilissima. Tra gli iscritti dilagava la cassaintegrazione e le fabbriche chiudevano, non doveva sostenere soltanto il conflitto con Federmeccanica e Marchionne, ma anche con Fim e Uilm, mentre la stessa Cgil si è mostrata vieppiù ostile alla linea Fiom. In un certo senso è quasi un miracolo che la Fiom stia ancora in piedi.
C’era un'unica maniera per reggere questa situazione e conquistare una prospettiva: allargare il campo, generalizzare la lotta e il discorso. Penso che sia ciò che la Fiom ha effettivamente tentato di fare in questi anni, conquistandosi un ruolo, un’autorevolezza e un’interlocuzione ben oltre la categoria e il mero terreno sindacale. Ma alla fine non si è determinato un movimento generale in crescita e anche le tante attenzioni ricevute dalla politica non si sono mai tradotte in qualcosa di sostanziale. Forse l’immagine più chiara della situazione l’ha fornita la manifestazione nazionale del 18 maggio scorso: nonostante la difficile situazione, ancora una volta gli operai della Fiom hanno riempito la piazza, ma erano soli, attorno alla Fiom c’era poco o nulla, in termini sindacali e di movimento, e le numerose delegazioni politiche presenti hanno fatto soltanto passerella. Insomma, il 19 maggio era uguale al 17 maggio, cioè non era cambiato nulla da nessuna parte.
Questo credo sia il dato di realtà da cui partire. Certo, forse la Fiom poteva fare meglio in questi anni, forse c’erano alcune scelte da non fare e altre che invece andavano fatte. Forse anche altri avrebbero potuto fare meglio, di più o diversamente, invece di chiedere alla Fiom di fare, magari anche al posto loro. Tutto questo è importante, ma forse non decisivo, perché c’è una situazione più generale e alla lunga nessuno può reggere in solitudine lo scontro. Questo è l’insegnamento di fondo e su questo, forse, dovremmo ragionare.
 
Ebbene, se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui, allora avrete capito che penso che questo accordo sia altamente negativo e che renderà più difficile la vita dei lavoratori e degli attivisti sindacali che vogliono continuare a battersi per un salario dignitoso, i diritti e per una fuoriuscita dall’austerità. E ancora più difficile sarà la lotta per quei lavoratori, sempre di più, che sono esclusi strutturalmente da accordi del genere, perché precari, perché impiegati da cooperative che lavorano in appalto eccetera e pertanto privi dei più elementari diritti sindacali, come accade per esempio ai lavoratori della logistica. Tuttavia, il fatto che dall’alto continuino a piovere restringimenti di diritti e libertà, sui luoghi di lavoro e nella società, significa anche che non sono poi così tranquilli e sereni, che anzi sono inquieti al solo pensiero che ci possa essere una lotta, un’insubordinazione, un conflitto. Ricordiamocelo.
 
Luciano Muhlbauer
 
aggiornamento: il 6 giugno l’accordo è stato sottoscritto anche dalla confederazione sindacale di destra UGL
 
in allegato il testo dell’accordo del 31 maggio 2013
 

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di lucmu (del 31/05/2013, in Politica, linkato 1038 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto il 31 maggio 2013, con il titolo “La Giunta Pisapia ha compiuto due anni: la ‘primavera’ al palo”.
 
Sono passati due anni ed è tempo di bilanci. Bilanci severi, perché tra l’entusiasmo e gli arcobaleni di allora e il freddo e il grigio di oggi non sembrano essere trascorsi soltanto 730 giorni, bensì un’epoca intera. Quel 30 maggio del 2011, infatti, da Milano, ma anche da Napoli o da Cagliari, sembrava alzarsi un’onda, una brezza di speranza, una riappropriazione dal basso della politica. Non avevamo vinto un’elezione, avevamo “liberato” Milano e presto, pensavamo, sarebbe toccato anche al resto del paese. Oggi, invece, abbiamo di fronte il deprimente quadro disegnato da anni di crisi e austerity, da una politica desolata e desolante, da una democrazia in manifesta crisi di credibilità e da sindaci eletti dalla metà della metà dell’elettorato.
In questi due anni a Milano sono cambiate troppo poche cose, ma in compenso il mondo che la circonda si è fatto vieppiù ostile. La recessione ha eroso margini e imposto emergenze, il patto di stabilità sta strangolando il bilancio comunale e, invece del cambiamento, sono arrivati Monti e Letta, le larghe intese Pd-Pdl e la disastrosa ri-vittoria delle destre alle elezioni regionali lombarde. Insomma, le peggiori condizioni immaginabili.
Tutto questo è bene ricordarlo, per correttezza e per realismo, ma è altrettanto bene non usare queste considerazioni come un alibi per le cose che non vanno, che sono tante. Beninteso, non siamo alla fine di un’esperienza, ma siamo senz’altro a un punto critico, in uno di quei momenti in cui i mormorii rischiano di trasformarsi in rumore di fondo, in crepe insanabili, in incantesimo rotto. In altre parole, i nodi stanno venendo al pettine, come hanno confermato in modo lampante una serie di fatti di queste ultime settimane.
Anzitutto, la destra ha rialzato la testa. L’ha fatto riproponendo tutto il suo armamentario securitario e xenofobo, in seguito al triplice omicidio commesso da Mada Kabobo. Per ora la furibonda campagna di Lega e Pdl non ha portato risultati e la città non è ripiombata nel cupo clima decoratiano, ma il punto è che la destra è uscita dall’angolo ed è passata all’offensiva.
Negli stessi giorni Marco Vitale, autorevole esponente del “Gruppo 51”, cioè quella  borghesia illuminata milanese che si era schierata con Pisapia, ha pubblicato un pungente articolo in cui accusava il governo cittadino di non avere strategia e visione e di continuare la “politica dell’amministrazione del condominio”.
Le parole di Vitale hanno sollevato un vespaio. Il Corsera ha rilanciato le critiche e ipotizzato la fine del modello Milano, mentre l’assessore D’Alfonso, ex socialista e autoproclamato ideologo arancione, è intervenuto a modo suo, dando ragione a Vitale, ma dicendo che la colpa era di tutti gli altri, in primis dei consiglieri comunali di maggioranza che sarebbero sostanzialmente degli inetti.
Infine, gli scricchioli sono diventati rumore assordante anche sul lato sinistro, con lo sgombero del centro sociale Zam e le manganellate sulle teste dei manifestanti davanti al portone chiuso di Palazzo Marino. Beninteso, non era il primo conflitto tra centri sociali e amministrazione comunale, ma in questo caso l’elemento simbolico era forte, anche perché ha coinvolto una delle realtà di movimento finora più aperte nei confronti del Sindaco.
Insomma, quella ampia coalizione di forze e cittadini che aveva reso possibile la liberazione di Milano e che lo stesso Sindaco considera “il nostro patrimonio più prezioso” sta scricchiolando alla grande, su un lato e sull’altro. E non basta ribadire l’elenco delle cose fatte, perché risulta troppo insipido in assenza di prospettiva e progetto. O, peggio ancora, se l’unica prospettiva è quella dell’Expo, che ad oggi offre soltanto buchi di bilancio e affari immobiliari.
E non basta nemmeno rispondere al solo Corriere, perché il problema non è il dialogo con i poteri forti, ma anzitutto il recupero di un confronto con quella fondamentale parte della città impegnata nella cittadinanza attiva, nell’associazionismo, nell’attivismo sociale, nelle esperienze di autogestione.
Nulla è ancora perso o disperso, ma occorrono parole e fatti nuovi per ridare slancio a una primavera che oggi assomiglia un po’ troppo all’autunno.
 
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