Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ieri lunedì 8 aprile il Csa Vittoria di Milano ha subito un attentato incendiario. Per fortuna nessuno si è fatto male e i danni materiali al centro sociale sono limitati, ma la gravità dell’atto è sotto gli occhi di tutti. Allo stato nulla si sa circa la possibile identità dei responsabili. Tuttavia, tutti sappiamo dell’impegno e dell’attività del centro sociale a sostegno delle lotte degli operai delle cooperative di facchinaggio. Forse c’entra, forse no. Comunque sia, questi atti si realizzano contro chi fa le cose, contro chi dà fastidio al potente o prepotente di turno, e lo scopo è sempre quello dell’intimidazione. Per questo, mentre siamo impegnati nella campagna contro lo sgombero di un altro centro sociale milanese, lo Zam, è importante, anzi fondamentale non stare in silenzio e non lasciare da soli i compagni e le compagne del Vittoria. Esprimo tutta la mia solidarietà con il Csa Vittoria!
Luciano Muhlbauer
Di seguito il comunicato del Csa Vittoria:
PROVOCAZIONI E REPRESSIONE NON CI FERMERANNO MAI!
Oggi lunedi 8 aprile abbiamo subito l'ennesima provocazione che per il pronto intervento di qualche abitante del quartiere non ha avuto conseguenze più gravi.
Sono state incendiate alcune bottiglie di liquido infiammabile che hanno danneggiato sciogliendolo una dei finestroni del nostro centro sociale.
Non sappiamo chi sia stato, se un fascista o un prezzolato dalla mafia delle cooperative. Certo è che questo atto provocatorio per noi si inserisce in un clima repressivo che sta particolarmente colpendo compagni e realtà impegnate sul terreno dello conflitto di classe al di fuori della compatibilità politica ed economica borghese.
Sabato infatti eravamo in corteo a Piacenza con centinaia di compagni e lavoratori in solidarietà con i 3 compagni, tra cui il coordinatore nazionale del SiCobas, a cui è stato comminato il divieto per 3 anni di entrare nel territorio piacentino dove sono situati i magazzini dell' Ikea e di altri hub strategici del comparto della logistica, siamo tutt'ora sotto processo per la lotta vincente ai magazzini della Bennet di Origgio del 2008, perchè il movimento di lotta che si è sviluppato in questi anni tra i lavoratori delle cooperative, ritrovando un protagonismo di classe, sta facendo sempre più paura ai padroni e ai loro servi di ogni razza.
Questa provocazione va inquadrata in questo contesto e, come già scrivevamo nel nostro appello alla partecipazione al corteo di Piacenza, la repressione è un elemento strutturale del dominio di classe, per cui ci interessa poco correre dietro al provocatore di turno.
Ma il modo migliore per rispondere è continuare sempre con maggior determinazione il percorso intrapreso mella prospettiva di una trasformazione rivoluzionaria dell'esistente.
i compagni e le compagne del C.s.a. Vittoria
Milano, 8 aprile 2013
A Milano un altro sgombero sta per arrivare, un altro spazio sociale rischia di essere chiuso con la forza. Stavolta tocca a Zam, quello di via Olgiati 12, quartiere Barona, una delle esperienze di movimento più feconde di questi anni.
Dicono che la proprietà, dopo anni di abbandono e incuria, abbia ora un qualche progetto immobiliare e quindi lo sgombero pare essere imminente. Questione di giorni o settimane, dicono.
ZAM, che sta per Zona Autonoma Milano, era nato il 29 gennaio 2011. Allora in via Olgiati al 12 c’era solo una delle tante aree dismesse della metropoli. Una volta vi si producevano affettatrici e bilance professionali, quelle della Avery Berkel, ma poi l’azienda chiuse e l’ex stabilimento rimase vuoto e abbandonato per lungo tempo. I ragazzi e le ragazze di Zam gli hanno ridato vita due anni fa, occupandolo e riempendolo di attività, culturali, politiche e altro ancora. Oggi c’è persino una palestra per l’arrampicata libera.
Zam, tra le tante cose, è stato anche il prodotto di una nuova generazione di attivisti di movimento, meno segnata delle sconfitte del passato di quelle precedenti e forse per questo più capace di curiosità e apertura. E non è un caso, credo, che attorno a Zam sia poi nato un piccolo network di realtà, animato spesso da giovani e giovanissimi.
Beninteso, a Milano non c’è solo Zam e dintorni, per fortuna ci sono anche altre realtà che producono attivismo sociale, politico e culturale, che animano spazi e luoghi, che praticano socialità e conflitto in un tempo che ci vorrebbe tutti e tutte disgregati e docili. Ma, appunto, a Milano c’è anche Zam e il suo dinamismo è stato senz’altro un valore aggiunto per la città e per l’insieme del movimento, al di là di ogni altra considerazione.
Non penso che l’idea di sgomberare Zam sia il frutto di una congiura politico-questurina, anche se una certa politica, da sempre allergica agli spazi sociali, sicuramente farà il tifo per le ruspe e per i manganelli. No, molto più banalmente, si vuole cancellare Zam per fare posto ad un affare immobiliare. Ma, in fondo, è politica anche questa, o forse persino di più.
Il vero problema è però un altro. Cioè, Milano saprà dire qualcosa o assisterà passivamente all’evolversi degli eventi? La città, la sua amministrazione, le forze politiche, sociali, civiche, associative eccetera penseranno si tratti di una vicenda di rilievo pubblico oppure la relegheranno nel regno del contenzioso tra privati?
Sono domande di cruciale importanza in una città, dove due anni fa una straordinaria voglia e volontà di cambiamento riuscì a porre fine al ventennale dominio delle destre e dove in campagna elettorale echeggiarono parole come “a Milano c’è spazio” oppure “Milano come Berlino”.
Beninteso, non è questione di uno spazio, ma degli spazi. E non è questione di bandi sì o bandi no, perché i bandi vanno benissimo, a patto di non scambiarli con il rimedio universale.
Comunque, oggi siamo soltanto agli inizi ed è appena partita la campagna di e per Zam. Ora occorre fare il primo passo, cioè prendere parola e posizione, magari soltanto facendo girare il materiale informativo, i comunicati (qui il video e il primo comunicato stampa di Zam: Stay Zam – I sogni non si sgomberano). Poi, a breve, dovrebbe arrivare anche un appello.
Per quanto mi riguarda, se non si fosse capito, sto dalla parte di Zam.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 28/03/2013, in Lavoro, linkato 1898 volte)
Doveva succedere prima o poi, era nell’aria e nell’andazzo delle cose, ma ora che è accaduto davvero fa effetto lo stesso. Anzi, la notizia, cioè il fattaccio, avrebbe meritato la prima pagina, per quello che rappresenta adesso e, soprattutto, per quello che implica per il futuro, ma “La Repubblica”, l’unico quotidiano che oggi ne parla, l’ha relegata a pagina 36. E così, soltanto pochi avranno saputo che in un’azienda in provincia di Venezia, la fonderia Pometon di Maerne, è stato siglato un contratto separato di nuovo tipo, che prevede il versamento di una sorta di pizzo alla Fim-Cisl, pena la riduzione del salario alla mera paga base prevista dal contratto nazionale.
Beninteso, non stiamo parlando di economia sommersa o di caporalato nella raccolta di pomodori, bensì di industria, di metalmeccanici e di un contratto aziendale firmato alla luce del sole il 14 marzo scorso.
Ma vediamo come sono andate le cose. Un anno fa la proprietà della Pometon ha deciso di fare piazza pulita di tutta la contrattazione aziendale e ha dunque disdetto unilateralmente tutti i contratti integrativi esistenti e vigenti. Dopodiché ha chiesto ai sindacati presenti in azienda, fondamentalmente Fiom e Fim, di discutere un nuovo contratto integrativo, senza tener conto del passato e sulla base della piattaforma padronale. La Fiom ha detto di no, la Fim ha detto di sì e il risultato è stato l’ennesimo accordo separato, firmato dalla sola Fim-Cisl, che prevede ovviamente meno salario e più orario, con l’aggiunta del solito e odioso trattamento differenziato, in peggio, per i nuovi assunti.
Fin qui nulla di nuovo, direte voi, da Pomigliano in poi queste cose succedono abitualmente. Giusto, ahinoi, ma questa volta hanno osato fare più, poiché non si sono accontentati di firmare un contratto separato a nome di tutti o di togliere i diritti sindacali a chi non era d’accordo. No, questa volta hanno inserito una clausola che dice che il contratto vale soltanto per i lavoratori che hanno in tasca la tessera della Cisl o che, in alternativa, aderiscono individualmente al contratto separato, mediante il versamento di un “contributo sindacale straordinario” di circa 200 euro. Per il disturbo e la fatica della contrattazione da parte della Cisl…
E gli altri, gli iscritti Fiom, quelli che non volessero prendere la tessera della Cisl o pagare 200 euro? Ebbene, faranno una brutta fine, rimanendo senza contratto integrativo, visto che quelli precedenti sono stati azzerati in blocco, e avranno la sola paga base prevista dal contratto nazionale. In altre parole, subiranno un taglio secco della retribuzione nell’ordine delle centinaia di euro al mese!
Per ora la Cisl si accontenta di aver rotto un tabù e di aver stabilito un precedente e quindi non incasserà direttamente il pizzo, ma verserà i soldi in una fondo a disposizione della Rsu. Inoltre, il ricorso al tribunale da parte della Fiom ha buone possibilità di essere accolto. Eppure, non è proprio il caso di sottovalutare la vicenda, perché si tratta di una prima volta, destinato a sdoganare un metodo ritenuto finora –giustamente- inaccettabile e a fare scuola. Vi ricordate di Pomigliano? Allora dicevano che era un’eccezione, nel frattempo è diventata la regola…
Per questi motivi occorre prendere sul serio, molto sul serio, il fattaccio alla Pometon. Perché ci dice che dopo il contratto separato, dopo la negazione dei diritti e delle libertà sindacali per chi dissente e dopo il divieto di assunzione per chi ha la tessera sindacale “sbagliata”, ci sono ancora tante altre cose, come l’obbligo di pagare il pizzo alla Cisl se non vuoi aver il salario decurtato. Insomma, al peggio non c’è mai fine se stiamo a guardare!
Forse dovremmo essere un po’ più preoccupati dello stato della democrazia nel nostro paese, che non è una questione di streaming, bensì di diritti e libertà da difendere e affermare nella quotidianità, a partire dai luoghi di lavoro e di vita.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 21/03/2013, in Pace, linkato 1381 volte)
Ci sono molti modi per sostenere la lotta del popolo palestinese contro l’occupazione e per il suo diritto a uno Stato, alla libertà e alla giustizia. Uno di questi è l’affido a distanza di bambini che vivono nella Gaza assediata. Ebbene, sono tempi di crisi, tutti e tutte facciamo fatica con i nostri bilanci familiari e questo purtroppo comporta che si riducano anche le disponibilità economiche per poter sostenere gli affidi a distanza. Proprio in questi giorni, infatti, il comitato milanese di Salaam Ragazzi dell’Olivo ha lanciato un grido d’allarme in questo senso, chiedendo di attivarsi per sostenere il progetto di affido a distanza. Conosco Salaam, mi fido di loro e sostengo da anni un affido a distanza. E, soprattutto, sono convinto che proprio in questi tempi ci sia un grande bisogno di non lasciare da soli i palestinesi e di sostenerli, specie i bambini di Gaza, costretti a crescere sotto assedio permanente.
Rilancio dunque l’appello di Salaam, che potete leggere qui sotto, e vi invito a prenderlo in considerazione e/o a rilanciarlo tra i vostri contatti.
Luciano Muhlbauer
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Cari amici della Palestina,
vi inviamo questo appello rivolto a voi, ma anche con la richiesta di diffonderlo, al più presto!
Infatti, in questo periodo di crisi economica, abbiamo difficoltà a mantenere attivi tutti gli affidi in corso, per cui stiamo cercando nuove persone o gruppi disponibili ad impegnarsi nel progetto di affido a distanza di un bambino/a o adolescente palestinese, in modo di continuare a garantire il sostegno alle famiglie palestinesi di Gaza.
Saluti a tutti/e
Mariagiulia Agnoletto, presidente Salaam Ragazzi dell’Olivo - Comitato di Milano - Onlus
PROGETTO DI AFFIDO A DISTANZA DI BAMBINE/I PALESTINESI DI GAZA
“perché le bambine e i bambini palestinesi possano crescere liberi nella loro terra”
Salaam Ragazzi dell’Olivo-Comitato di Milano-Onlus è una associazione di volontariato, che da molti anni opera con attività e progetti in Palestina, finalizzati alla solidarietà a favore dell’infanzia e del popolo palestinese.
Ci siamo impegnati, in particolare, con il “progetto Shady di affido contestualizzato”, nel territorio del campo profughi di Jabalia e dei villaggi circostanti (nel nord della striscia di Gaza).
“Affido contestualizzato” significa inserire l’affido a distanza del singolo bambino o adolescente in un progetto che coinvolge una comunità territoriale.
Il soggetto collettivo palestinese con cui dal 2000 abbiamo scelto di attuare questo progetto è il Remedial Education Center di Jabalia (R.E.C.): un’associazione laica e democratica, che opera nella striscia di Gaza e che si occupa di rispondere ai bisogni dei bambini/e e ragazzi/e, che presentano disagio psichico e difficoltà di apprendimento a causa delle condizioni sociali, economiche e familiari in cui sono costretti a vivere e crescere sotto il controllo e l’oppressione israeliana.
Questo tipo di progetto ci permette anche di instaurare relazioni, scambi reciproci e di sostenere una struttura dell’associazionismo palestinese, che svolge un ruolo significativo all’interno della società civile locale.
Come sapete la striscia di Gaza è una grande “prigione a cielo aperto”, da dove sono bloccati i movimenti delle persone e gli scambi commerciali, dove le incursioni militari israeliane all’interno dell’area sono continue (l’ultimo gravissimo attacco “Pilastro di difesa” del novembre 2012, ha portato l’uccisione di 177 persone, tra cui 40 bambini, 1.700 feriti, case, scuole e infrastrutture distrutte), con il conseguente continuo peggioramento delle condizioni di vita quotidiana delle famiglie palestinesi.
La popolazione di Gaza necessita ancor più della nostra solidarietà umana, economica, politica e quindi, in questo momento, ci sembra ancora più importante proseguire e consolidare questo progetto.
Invitiamo persone singole, famiglie, associazioni, gruppi e chiunque creda in un futuro di libertà e di pace per il popolo palestinese ad impegnarsi nell’affido a distanza di un bambino/a palestinese all’interno di questo nostro progetto e a diffondere l’iniziativa.
Salaam Ragazzi dell’Olivo - Comitato di Milano - Onlus
Milano, 15 marzo 2013
di lucmu (del 18/03/2013, in Lavoro, linkato 1603 volte)
Sono tempi duri per i diritti e le libertà sindacali in Italia e in Europa, questo lo sapevamo, ma quanto successo a Aldo Milani, sindacalista e coordinatore nazionale del SiCobas, ha dell’incredibile e, soprattutto, dovrebbe suscitare vivo allarme. Già, perché alcuni giorni fa Milani è stato fatto oggetto di un foglio di via obbligatorio da parte del Questore di Piacenza e questo significa che non potrà più mettere piede nel territorio comunale per i prossimi tre anni, pena l’arresto immediato.
Tanto per capirci, il foglio di via è una misura di natura amministrativa e può essere applicato in via preventiva a soggetti considerati “dediti alla commissione di reati”. Ebbene, nella fattispecie tali “reati” altro non sono che i fatti tipici di una qualsiasi vertenza sindacale che comprenda anche blocchi o picchetti e si riferiscono in particolare alle recenti lotte dei facchini del polo logistico dell’Ikea di Piacenza. E dappertutto, che io sappia, fatti del genere possono portare sì a denunce o manganellate, ma non certo a un divieto preventivo di fare attività sindacale.
Ma appunto, non siamo dappertutto, bensì in un settore economico di rilevanza strategica, cioè quello della logistica al servizio della grande distribuzione e della circolazione delle merci in generale, dove vige un regime di inteso sfruttamento e di assenza di diritti e tutele, poiché la quasi totalità dei lavoratori, in maggioranza migranti, non viene assunta dalle aziende, bensì inquadrata nelle cooperative che lavorano in appalto e subappalto. Ovviamente, in queste condizioni il sindacato è praticamente inesistente oppure poco più di una finzione, spesso più utile alle aziende che ai lavoratori.
Tuttavia, da qualche anno qualcosa sta cambiando, grazie anche all’impegno di alcuni sindacalisti di base, tra cui Aldo Milani, che hanno iniziato a promuovere e sostenere processi di autorganizzazione nel settore. All’inizio sembrava quasi un mission impossible, ma da un po’ di tempo gli sforzi stanno dando i loro frutti e si sedimentano coscienza e organizzazione. In poche parole, dal basso sta nascendo un processo di sindacalizzazione.
Una buona notizia e un fatto di democrazia, direi. Ma evidentemente non tutti la vedono così, anzi, in tempi di liberismo e austerity, di Sacconi, Fornero e Marchionne, un processo di sindacalizzazione laddove il sindacato non esisteva è praticamente un atto sovversivo, ovviamente da trattare come tale.
Ai lavoratori delle cooperative della logistica non viene riconosciuta nemmeno la dignità sindacale delle loro lotte. No, quando si mobilitano perché licenziati in tronco vengono brutalmente repressi, come era accaduto a Basiano l’anno scorso. Quando costruiscono una vertenza al polo logistico dell’Ikea, allora dopo le botte arriva il foglio di via al sindacalista. Insomma, il diritto costituzionale dei lavoratori e delle lavoratrici di potersi organizzare liberamente per loro non vale. Anzi, loro non fanno nemmeno sindacato, ma per definizione commettono soltanto reati.
Tra quello che succede nell’industria “tradizionale” e quello che avviene nella logistica, in fondo, l’unica differenza è che nel primo caso si tenta di eliminare i diritti e le libertà che ancora ci sono, mentre nel secondo caso si vuole impedire che diritti e libertà ci possano essere. Ma l’obiettivo finale è evidentemente il medesimo e generale.
In questi giorni l’attenzione pubblica è rivolta altrove, a Roma, alle cronache parlamentari e vaticane. Eppure, sull’Italia che c’è e sull’Italia che verrà ci dicono molte più cose vicende come quel foglio di via. Ecco perché bisogna prendere posizione e parola, ora, subito. E sarebbe bene, forse persino lungimirante, se lo facesse anche la Cgil, perché alcuni silenzi sono davvero ingiustificabili.
È giusto e necessario esprimere la solidarietà con Aldo Milani e non lasciare perdere la vicenda del foglio di via, anche perché potrebbe diventare un pericoloso precedente. Ma soprattutto bisogna sostenere la battaglia degli operai della logistica e un’occasione per farlo è già alle porte, perché il 22 marzo si svolgerà il primo sciopero nazionale dei lavoratori della logistica, indetto dal SiCobas e da ADL Cobas.
Luciano Muhlbauer
Sabato 16 marzo saranno passati esattamente dieci anni da quella notte del 2003, quando Davide “Dax” Cesare, militante del centro sociale O.R.So., fu aggredito e ucciso da alcuni neofascisti. Una notte allucinante, una “notte nera”, iniziata con le lame di via Brioschi e terminata con l’incredibile violenza poliziesca all’ospedale San Paolo. Dieci anni dopo i compagni e le compagne di Dax e il movimento milanese lo ricordano con tre giorni di iniziative il 15, 16 e 17 marzo, al cui centro ci sarà il corteo nazionale di sabato 16 marzo (h. 15.00, in piazza XXIV Maggio). Ma la storia di Dax non riguarda soltanto familiari, amici, compagni e al massimo l’antagonismo milanese, anzi, la storia di Dax riguarda tutta la città. A distanza di dieci anni, infatti, Milano non ha ancora fatto i conti con quella notte. E penso sia ora che inizi a farli seriamente, che Milano provi a saldare il suo debito con Dax e con quanti e quante allora subirono violenza.
Per la tre giorni di iniziative del 15-16-17 marzo il sito di riferimento è http://daxvive.info/, per sapere cos’è successo il 16 marzo 2003, nel caso non lo sapeste, vi consiglio di leggere Dax, la storia, a cura di Milano in Movimento.
Qui di seguito, invece, trovate un mio ricordo, una mia riflessione, perché appunto penso che Milano abbia un debito da saldare, con Dax e con se stessa.
Milano è in debito con Dax
Milano è in debito con Dax e con tutti quelli e quelle che nella notte tra il 16 e 17 marzo 2003 subirono violenza, prima in via Brioschi e poi all’ospedale San Paolo. A distanza di dieci anni, infatti, Milano non ha ancora fatto i conti con quella nottata, con l’omicidio fascista di Davide Cesare e con l’ingiustificabile violenza poliziesca.
Beninteso, molti e molte sanno come sono andate le cose e conservano memoria, nel cuore o nelle lotte, ma sono comunque troppo pochi. Sono, siamo minoranza in una città dove a Dax, ai suoi familiari e ai suoi amici, sono stati per lunghi anni negati persino la memoria pubblica e quel minimo di rispetto che si è soliti riconoscere a chiunque sia stato assassinato. E non mi riferisco tanto e soltanto a una verità giudiziaria che non fa giustizia, che non restituisce la storia vera di quella notte, benché questa fosse nitidamente rintracciabile negli stessi atti processuali relativi al San Paolo, ma anche e soprattutto a quel militante e miserabile contrasto da parte dell’amministrazione comunale di centrodestra, specie del suo vicesindaco, contro ogni manifestazione pubblica di memoria.
Il risultato di tutto ciò è che oggi la maggioranza dei milanesi non sa nulla di Dax oppure che ricorda solo vagamente una storia che c’entra un fico secco con la realtà dei fatti, che parla di una rissa davanti al bar finita male e poi di un’altra rissa ancora davanti a un ospedale, di gente che voleva trafugare un cadavere, di forze dell’ordine aggredite o cose del genere. Insomma, siamo dispiaciuti per il ragazzo, ma la politica non c’entra e, certo, però, questi centri sociali fanno sempre casino.
Un bel rovesciamento della realtà, un fulgido esempio di revisionismo storico in tempo reale, frutto non della spontaneità delle cose, ma di atti soggettivi e consapevoli di alcuni e di troppi silenzi di altri. E oggi, penso, sia necessario e giusto ricordare tutto ciò, perché i dieci anni che abbiamo alle spalle a Milano sono stati anche questo, cioè insulto, negazione, silenzio, arroganza, viltà e miseria del potere. È stato come voler uccidere Dax una seconda volta e il fatto che non ci siano riusciti non rappresenta in alcun modo un attenuante.
Frugo nella mia memoria e viene fuori quella che potremmo chiamare la guerra dei murales, combattuta tra il 2007 e il 2008. Poca cosa, potrebbe pensare qualcuno, invece no, almeno per me, perché in realtà si è trattata di guerra alla memoria. Ma andiamo con ordine.
Alla Darsena c’era un murale che ricordava Dax. Nulla di strano, era il suo quartiere, il Ticinese. Il murale non dava fastidio a nessuno e non c’era nemmeno un cantiere da aprire in quel posto, ma aveva un difetto: si vedeva bene. Era una specie di monito, perché significava che non si era disposti a dimenticare. E così, un bel giorno di inizio settembre del 2007 a Palazzo Marino decisero che questo murale non era ulteriormente tollerabile, che andava ristabilito il silenzio. Cioè, il Comune di Milano lo fece cancellare, ovviamente in nome del “decoro urbano”.
Sì, lo so, ora qualcuno dirà che la politica non c’entrava niente, che era normale che il Comune cancellasse murales e scritte. Invece no, anzi, nella prassi dell’allora Sindaco Moratti e, soprattutto, del suo vice De Corato il “decoro urbano” era molto selettivo. Ne sapeva qualcosa l’Anpi milanese, che proprio in quel periodo si rivolgeva ripetutamente al Comune per sollecitare, inutilmente, la cancellazione di scritte ingiuriose contro la Resistenza o inneggianti al fascismo. E poi, anche se fosse stato consuetudine cancellare scritte e murales, il decoro civile e morale avrebbe consigliato di rispettare la memoria di un ragazzo assassinato nel quartiere soltanto quattro anni prima.
E poi, va ricordato il clima di quegli anni, il bieco revisionismo storico che la faceva da padrone a Palazzo Marino, alimentato principalmente dalla voglia di rivincita degli ex missini, raccolti in An e capeggiati dal longevo vicesindaco De Corato, ma che coinvolgeva direttamente anche gli allora Sindaci berlusconiani, sia Gabriele Albertini che Letizia Moratti.
I murales che ricordavano giovani di sinistra ammazzati dai fascisti o dalle forze dell’ordine non li sopportavano proprio e, infatti, soltanto un mese dopo la cancellazione del murale di Dax sulla Darsena, in un’altra zona della città il Comune avrebbe fatto cancellare anche un murale dedicato a Carlo Giuliani. Ma successero fatti anche più gravi, dei quali voglio qui ricordare soltanto uno, anche perché le cicatrici di quella vicenda sono ancora ben visibili nel panorama cittadino.
Non vi è mai capitato di trovarvi in piazza Fontana in compagnia di conoscenti che, un po’ meravigliati, vi hanno chiesto “ma come mai ci sono due lapidi dedicate a Giuseppe Pinelli?”, con frasi simili, ma con significato chiaramente diverso. Già, perché ce ne sono due lì, una a firma “gli studenti e i democratici milanesi” che recita “Ucciso innocente nei locali della Questura di Milano” e l’altra, a firma del Comune di Milano, che recita invece “Innocente morto tragicamente nei locali della Questura di Milano”.
Ebbene, le cose andarono così: una notte di marzo del 2006, come i ladri di pollo e su ordine del Sindaco Albertini, gli uomini del Comune rimossero la lapide originaria, quella degli studenti e dei democratici, che si trovava lì dal 1976, e la sostituirono con una nuova, del Comune, che appunto raccontava un’altra verità. Per fortuna, la provocazione di Albertini non passò, ci fu una sana reazione e alcuni giorni più tardi, il 23 marzo, militanti anarchici e della sinistra milanese, ricollocarono la vecchia lapide, di cui esisteva un’altra copia, al suo posto. Da allora, appunto, in piazza Fontana ci sono due lapidi, quella giusta, che parla della verità storica e della memoria dei milanesi, e quell’altra, che parla della totale mancanza di rispetto e dell’assenza di spessore morale degli amministratori milanesi di allora.
Ma torniamo al murale di Dax sulla Darsena, la cui cancellazione si inserisce certamente in un quadro più generale, ma che tuttavia conserva una sua specificità, o meglio, una sua specifica miseria. Già, perché si può ben comprendere che i revisionisti, post-fascisti o berlusconiani che fossero, alzassero il tiro su vicende storiche che rappresentano momenti e fatti costituenti della memoria di un’intera nazione, come la Resistenza contro il nazifascismo o la strage di Piazza Fontana, ma perché prendersela così tanto con la memoria di Dax? Già, perché la vicenda del murale di Dax mica era finita lì.
Come già successe l’anno precedente nel caso della lapide di Pinelli, anche gli amici di Dax non fecero mancare la loro risposta e in occasione del quinto anniversario dell’omicidio di Davide il murale tornò sulla Darsena. Ovviamente, nessuno si faceva troppe illusioni sul comportamento del Comune e un po’ tutti si aspettavano che prima o poi De Corato avrebbe preso un’altra delle sue iniziative. Prima o poi sì, ma nessuno, almeno credo, si aspettava che il Comune avrebbe scelto la maniera più provocatoria possibile per cancellare il murale appena rifatto. Infatti, l’operazione “decoro urbano” scattò la mattina del 17 marzo 2008, cioè a poche ore dalla fine delle iniziative e mobilitazioni in ricordo di Dax e senza nemmeno fare finta di rispettare almeno il dolore dei familiari.
Ormai era chiaro, la memoria di Dax era diventato un obiettivo legittimo della guerra culturale ed ideologica degli ex missini. E, infatti, appena una settimana più tardi toccò anche a un altro nuovo murale che nel quartiere ricordava Dax, cioè quello di piazza Vetra. In quel caso, agli occhi degli ex-neo-post fascisti che popolavano l’amministrazione cittadina, c’era anche l’aggravante che il murale in questione non si limitava a ricordare Dax, ma comprendeva anche un omaggio al comandante partigiano Giovanni Pesce, deceduto nell’estate precedente.
Ma appunto, perché prendersela tanto con la memoria di Dax? In fondo, una qualsiasi amministrazione cittadina appena decente, anche se non amica, avrebbe potuto scegliere un’altra strada, versare qualche occasionale lacrima di circostanza e concedere qualche murale in qualche angolo della città. Invece no, hanno scelto la guerra, senza forse nemmeno accorgersi che così facendo si sono mostrati uomini e donne molto piccoli e insignificanti. Non credo che ci sia una risposta unica per spiegare questo comportamento, perché in tutto questo c’è sì la lotta per l’egemonia culturale, ma ci sono anche delle cose molto più banali e squallide, che tutti gli ex o i post non riescono a lavare, e ci sono, ovviamente, le complicità con i gruppi militanti dell’estremismo di destra, che si traducono in copertura politica o concessione di strutture pubbliche.
E poi, diciamoci la verità, in quegli anni non c’è stata soltanto l’ostilità delle destre, ma anche il troppo silenzio dall’altra parte. La battaglia per mantenere viva la memoria di Dax è stata spesso condotta da pochi e accompagnato dal silenzio o dall’indifferenza di molti. E anche questo fa parte del problema, perché i silenzi, le sottovalutazioni, il nascondere la testa sotto la sabbia si sarebbero poi riprodotti anche in altre occasioni ritenute evidentemente “scomode”, come nel caso dell’omicidio razzista di “Abba” Abdoul Guibre nel 2008.
La storia di Dax è una storia milanese. Il 16 marzo 2003 Davide Cesare non è caduto vittima di rissa, ma di un’aggressione fascista. Lui e chi era con lui non furono attaccati a caso, ma perché antifascisti. Al San Paolo non ci fu alcuna difesa da parte delle forze dell’ordine, bensì una violenza poliziesca ingiustificata e ingiustificabile, non dissimile da quella che vivemmo a Genova nel 2001. Questa è la verità che non solo il movimento conosce, ma che anche i fatti ci consegnano. Eppure, lunghi anni di negazioni, di riscritture, di cancellazioni e di silenzi, a volte complici, a volte solo ingenui, hanno fatto sì che questa verità sia oggi ignorata dalla maggioranza dei milanesi.
Credo sinceramente che dieci anni dopo sia giunto definitivamente il tempo che Milano saldi il suo debito con Dax, con la memoria e con chi ancora oggi è costretto a pagare il prezzo delle menzogne. Ed è una questione che riguarda tutti e tutte, istituzioni, stampa, forze organizzate, cittadinanza. È una questione che riguarda Milano.
di Luciano Muhlbauer
Ci eravamo lasciati all’indomani degli scrutini con l’impegno di riparlare dei risultati elettorali e dello stato della sinistra. E quindi, rieccoci, a mente appena un po’ più fredda e con molte analisi ancora da fare. Tuttavia, penso che il dibattito non possa aspettare e che, anzi, sia urgente. Vi propongo dunque alcune mie riflessioni di questi giorni, che non contengono soluzioni o ricette già pronte, ma che, più modestamente, vogliono essere un contributo, un punto di vista. Un punto di vista partigiano, beninteso, e con una convinzione che ribadisco sin dalla premessa: a sinistra è tutto da rifare.
La doppia sconfitta lombarda
La nostra sconfitta alle regionali lombarde brucia parecchio, perché si tratta di una doppia sconfitta. Primo, quelli che hanno governato per 18 anni e dopo tutto quello che hanno combinato - dal sacco della sanità passando dalle tangenti fino alla ‘ndrangheta - hanno rivinto. Secondo, la sinistra, intesa come Etico e Sel, non è più rappresentata in Consiglio regionale. E più guardi i numeri, più questa sconfitta appare significativa, anche perché si tratta della Lombardia, terra natia di quelle destre che hanno spadroneggiato nell’ultimo ventennio.
Ecco cosa ci dicono i numeri, soprattutto quelli assoluti, perché le percentuali spesso ingannano:
1. il tracollo di consensi subito dal centrodestra a livello nazionale (dai 17 mln di voti del 2008 ai 9,9 mln del 2013 alla Camera) non si ripete a livello lombardo, dove la perdita è molto più limitata. Formigoni nel 2010 ottenne 2,7 mln di voti, Maroni ha ottenuto 2,2 mln di voti, soprattutto grazie alla tenuta dell’area leghista in senso lato. Infatti, la perdita di voti della Lega è stata compensata dal buon risultato della lista Maroni Presidente (se sommiamo i voti della Lega e della lista Maroni Presidente arriviamo a 1.253.770 voti, che superano persino il 1.117.227 della Lega del 2010);
2. è senz’altro vero che Umberto Ambrosoli è andato molto meglio di Penati nel 2010, ma non dimentichiamo che quest’ultimo aveva costruito una coalizione molto più ristretta di Ambrosoli e, soprattutto, assolutamente priva di appeal, per usare un eufemismo. E se quindi allarghiamo il confronto al compianto Sarfatti, che correva con una coalizione di centrosinistra larga, il risultato è che siamo fermi al 2005: Ambrosoli (2013) 2.194.169 voti, Penati (2010) 1.603.666 voti, Sarfatti (2005) 2.278.173 voti;
3. il Movimento 5 Stelle registra in Lombardia, in particolare alle regionali, un risultato sicuramente positivo, ma molto inferiore rispetto al resto d’Italia (775.211 voti e il 14,33% alle regionali, mentre alla Camera nei tre collegi lombardi raccoglie 1.126.147 voti);
4. le forze a sinistra del Pd, cioè Etico e Sel, si attestano su percentuali estremamente modeste: Etico 52.152 voti (0,96%), Sel 97.627 voti (1,8%). Inoltre, ambedue le forze sono caratterizzate da un accentuato milanocentrismo del consenso elettorale, particolarmente evidente nel caso di Etico, che paga anche il prezzo del simbolo nuovo e di primarie regionali che erano state scarsamente sentite fuori da Milano (l’unico luogo dove Etico supera il 2% di consensi è infatti Milano città, dove ottiene 14.239 voti che corrispondono più o meno ai 14.199 ottenuti dalla lista Federazione della Sinistra nel 2010).
Insomma, in Lombardia la destra ha retto, nonostante la gravità degli scandali, e l’opposizione, nonostante una situazione che sulla carta era la più favorevole possibile, ha perso. E questo ci riporta al peccato originale del centrosinistra lombardo, che non si chiama Ambrosoli, come ora qualcuno tenta di raccontare, bensì debole e inconsistente opposizione negli anni precedenti!
Beninteso, non sto dicendo che nessuno si sia mai opposto a nulla, perché questo sarebbe non solo ingeneroso ma soprattutto falso, ma mi pare palese che sia mancata una proposta alternativa e una battaglia continuativa dentro e fuori il palazzo e che sia invece prevalso il tirare a campare all’opposizione e troppo spesso la rincorsa del compromesso se non peggio. Tant’è vero che, da parte dell’opposizione, la ricerca di un candidato e di una coalizione è iniziata soltanto all’ultimo minuto, praticamente dopo la fine anticipata della legislatura. E questo nonostante le elezioni anticipate fossero state il fatto più annunciato dell’anno…
In altre parole, se un regime cade a causa delle indagini della magistratura, che ha fatto il suo mestiere, questo non significa che il consenso popolare si sposti automaticamente a un’opposizione politica che il suo mestiere non l’aveva fatto. E pochi mesi di campagna elettorale, anche con facce nuove, evidentemente non sono sufficienti per cambiare questo dato, specie quando si parte con l’ingiustificata convinzione, da parte di troppi, di aver già vinto e di doversi occupare soltanto della spartizione del bottino.
Per quanto riguarda la sinistra, cioè noi, si paga il prezzo di una serie di fatti, a partire da quell’insensato niet da parte del gruppo dirigente di Sel alla proposta di costruire un percorso elettorale comune attorno all’esperienza delle primarie di Andrea Di Stefano, per arrivare al poco tempo a disposizione per far conoscere un simbolo nuovo di zecca, cioè quello di Etico. Tuttavia, questi elementi sono soltanto delle aggravanti e guai ad usarli come alibi per non discutere del problema di fondo! A meno di non pensare davvero che bastino a spiegare esaustivamente perché una parte non indifferente di elettori di sinistra abbia scelto di dare il voto al Movimento 5 Stelle o di astenersi.
La chiusura del cerchio del 2008
“Il cerchio del 2008 si è chiuso” mi ha messaggiato mercoledì mattina Roberto Maggioni, quello di RadioPop. Aveva ragione, penso avesse ragione. Quell’sms sintetizza un discorso lungo e complesso, iniziato con la fine del governo Prodi, o forse con l’inizio del governo Prodi. Cioè, con quel governo durato appena due anni e con una sinistra radicale (termine orribile, ma tanto per capirci) che nel 2006 entrò in parlamento con un consenso del 10% e che nel 2008 ne uscì con la débacle della Sinistra Arcobaleno. Da allora in poi fu una storia di divisioni e scissioni, di compagni che tornavano a casa o che cercavano di costruire nuove soggettività politiche, di chi rimase con Rifondazione, come chi scrive, di chi imboccò la strada di Sel o di altre esperienze ancora, magari più piccole e meno conosciute, ma non per questo meno meritevoli di rispetto.
Furono tante le lacerazioni e le rotture e tutte nel nome dell’unità, paradossalmente, ma forse neanche tanto, perché la fine della Rifondazione pre-Prodi e post-Genova, che aveva agito come centro di gravità politico per una pluralità di sinistra politica e anche di movimento, fece pensare ai più che la strada giusta o obbligata per ricostruire una forza di sinistra fosse a questo punto la separazione organizzativa e la sconfitta dell’altro sul campo.
Ebbene, dopo cinque anni e dopo questo voto, nel pieno della crisi italiana, europea e globale, cioè quando più che mai vi sarebbe necessità ed esigenza di sinistra, qual è il bilancio politico? Un fallimento, su tutta la linea.
Della Lombardia, Regione chiave, abbiamo già parlato e non c’è nulla da aggiungere.
Sul piano nazionale, Rifondazione Comunista aveva tentato la strada della Federazione della Sinistra, che però si era rilevata presto un vicolo cieco. A questo giro è stata tentata l’ipotesi Rivoluzione Civile, che peraltro comprendeva anche Di Pietro che con la sinistra c’entra poco, ma anche questa è andata male, anzi malissimo, risultando indigesta a gran parte degli elettori di sinistra e non raggiungendo l’obiettivo di entrare in Parlamento. Ora Rivoluzione Civile è un capitolo chiuso.
Ma se Atene piange, Sparta non ride e anche il bilancio di Sel è piuttosto critico. L’idea era quella di un nuovo centrosinistra e questo presupponeva ovviamente un nuovo Pd e diversi rapporti di forza. Cioè, si trattava di arrivare al famoso big bang o, più concretamente, di sconquassare il Pd per mezzo delle primarie e della figura di Nichi Vendola. Oggi Sel rientra in Parlamento grazie all’alleanza con il Pd, ma con un risultato molto al di sotto delle aspettative e in una posizione ininfluente e subalterna, mentre a sconquassare il Pd ci pensano Renzi e Grillo.
Per quanto riguarda le altre soggettività più piccole, figlie di quella storia di divisioni, come Sinistra Critica o il Pcl, ebbene, mi pare che il bilancio sia altrettanto magro.
Insomma, le strade imboccate non hanno portato da nessuna parte e le divisioni interne alla sinistra, ovviamente accompagnate dalle relative polemiche, sono diventate un’ulteriore palla al piede, visto che sempre meno uomini e donne di sinistra riuscivano a comprenderle e a tollerarle. Senz’offesa per nessuno e senza rancore per alcunché, mi pare dovremmo prenderne atto.
La debolezza politica dei movimenti
Peccheremmo però di politicismo se ci fermassimo alle considerazioni sopra esposte, perché il problema della sinistra nel nostro paese non riguarda -e coinvolge- soltanto le forze politiche in senso stretto, ma anche i movimenti e le forze sociali. Anzi, forse soprattutto loro, perché una sinistra degna di questo nome semplicemente non può esistere a prescindere dai movimenti e dal conflitto sociale. E poi, siamo in Italia, cioè il paese nel quale i movimenti e la loro politicità avevano segnato profondamente lo scenario politico soltanto un decennio fa.
Oggi, invece, la situazione è molto diversa e non perché i movimenti non esistano più o non siano esisti in questi ultimi anni, anzi, ma perché troppo frammentati, troppo poco incisivi politicamente e privi di un centro di gravità condiviso che potesse facilitare la costruzione di consensi e azioni comuni. E non ha aiutato sicuramente l’assenza di livelli di conflitto sociale paragonabili a quelli di altri paesi europei, in buona parte dovuta a quel potente anestetico rappresentato da un movimento sindacale confederale, i cui gruppi dirigenti sono privi di autonomia politica e tendenzialmente collaterali a governi o partiti.
Dopo l’esaurimento del ciclo di movimento proveniente da Genova e dalle lotte contro la guerra e dopo la vicenda del governo Prodi, che ebbe un effetto deprimente anche sui movimenti sociali, in Italia non si sono più manifestati movimenti/conflitti dall’analoga forza aggregativa e politica. Né la lotta contro il Tav in Val di Susa, né l’Onda anomala studentesca e nemmeno le mobilitazioni innescate dalla Fiom a partire dal referendum truffa di Pomigliano sono riuscite a trasformarsi in fatto costituente di un nuovo ciclo generale, mentre nel nostro paese non sono mai sbarcati veramente i movimenti tipici di questi tempi di crisi, come Occupy o gli Indignados.
Le ragioni di queste debolezze e assenze sono molteplici, ma a volte ci mettiamo del nostro, come quel 15 ottobre 2011 a Roma. Quel giorno si tenne la partecipatissima manifestazione nazionale convocata da un cartello di forze di movimento e sociali. Poteva essere l’inizio di una sorta di indignados italiani o qualcosa del genere, ma finì tra i fuochi d’artificio di piazza San Giovanni. Qualche settimana più tardi nacque il governo Monti con i voti di Pd-Pdl-Udc, si aprì una nuova fase politica, ma i movimenti erano finiti in fuorigioco, politicamente afoni e marginalizzati. Insomma, debolezza politica è anche questa.
Ebbene, ora anche il governo Monti è finito, abbiamo votato, il Pd ha raccolto quello che ha seminato, Berlusconi è risuscitato e Grillo e Casaleggio hanno fatto boom. Inevitabile che di questo si debba parlare molto anche e soprattutto nei movimenti e, infatti, la discussione è già iniziata. E come sempre, visto che ci conosciamo e che le divisioni sono ahinoi tante anche nei movimenti, c’è il rischio che questa si sviluppi lungo linee di frattura precostituite.
Comunque sia, mi pare che per ora, in questi primi giorni, si stiano delineando grosso modo due poli. Il primo, pur riconoscendo le ambiguità e le contraddizioni del M5S, ne valorizza però fortemente la funzione antisistema e ritiene che i movimenti possano approfittare degli spazi aperti dai 5 stelle. O per dirla con Franco Bifo Berardi, in un intervento del 27 febbraio pubblicato anche su Infoaut: ”La funzione importante e positiva che il movimento ha svolto è rendere il paese ingovernabile per gli antieuropei del partito Merkel-Draghi-Monti”. Il secondo polo può essere ben rappresentato dall’analisi di Wu Ming, in particolare dall’intervista rilasciata al Manifesto il 1 marzo. Secondo loro, “la nascita del grillismo è una conseguenza della crisi dei movimenti altermondialisti di inizio decennio. Man mano che quel fiume si prosciugava, il grillismo iniziava a scorrere nel vecchio letto”. Inoltre, la strategia di Grillo non aprirebbe spazi per movimenti radicali, ma anzi spingerebbe l’indignazione “lontano dalle piazze italiane”.
Per quanto mi riguarda, penso sia evidente, in base a quanto sopra argomentato, che il mio punto di vista è più vicino a quello di Wu Ming, ma di Bifo o di altri approcci simili salverei però l’avvertenza implicita che arroccarsi o peggio demonizzare il M5S sia una grandissima cazzata. Anche perché, a guardare bene, ambedue gli approcci riconoscono di fatto il dato di fondo, quello più importante: cioè, che il M5S occupa uno spazio che i movimenti non sono riusciti a riempire. Appunto.
Che fare?
Già, che fare? L’ho già scritto in premessa e lo ripeto: non ho ricette e soluzioni pronte. E penso che non sia nemmeno questo il punto in questo momento. No, ora e qui c’è bisogno di aprire una discussione e questo presuppone un atto preliminare, da parte di tutti e tutte, ovunque collocati. Cioè, dobbiamo riconoscere che è il problema non sono gli altri, ma che il problema siamo noi, la sinistra così com’è. Insomma, un ciclo si è chiuso e dobbiamo aprirne un altro. E dobbiamo farlo senza separare parole e pratiche e con una certa urgenza, perché viviamo in un tempo di cambiamenti e di instabilità e non è affatto detto che in assenza di un punto di vista di sinistra, organizzato e incisivo, la matassa si possa sbrogliare in senso favorevole ai ceti popolari. Anzi, sono convinto dell’esatto contrario! Per questo, insisto, a sinistra è tutto da rifare.
Luciano Muhlbauer
Abbiamo perso, su tutta la linea. In Lombardia ha perso Ambrosoli e ha vinto Maroni. Quindi continueranno a governare gli stessi che lo fanno già da 18 anni e che solo qualche mese fa erano stati costretti alle elezioni anticipate da scandali e ‘ndrangheta. E ha perso la sinistra, cioè ha perso Etico a Sinistra, ma anche Sel, ambedue investiti e prosciugati dall’onda del movimento 5 stelle e ambedue non entrano in Consiglio regionale. Insomma, abbiamo perso noi, ho perso io.
Non c’è nulla di peggio che dare la colpa ad altri quando si perde. Non serve dire che i lombardi e gli italiani non capiscono una mazza quando ridanno fiducia ai Berlusconi, alla Lega e agli affaristi formigoniani. Ed è sbagliato, molto sbagliato inveire contro i 5 stelle, perché se molti uomini e donne di sinistra hanno deciso, magari anche all’ultimo istante, di votare loro e non noi, allora la colpa non è di Grillo, dei Maya o del campo scivoloso, ma soltanto della nostra inadeguatezza.
La sinistra esce a pezzi, asfaltata e rimane soltanto l’esigenza di rifare tutto. Sì, rifare tutto, perché lo 0.96% di Etico e l’1,8% di Sel sono lo specchio di qualcosa che non va nel profondo. In politica non esiste cassazione, c’è al massimo il giudizio d’appello e mi sa tanto che a questo giro ce lo siamo giocato. Ne riparleremo più avanti, a mente più fredda, non solo in Lombardia, beninteso, perché il problema, com’è sotto gli occhi di tutti, è ben più ampio e riguarda la sinistra tutta, in ogni sua articolazione, politica, sociale e di movimento. È in ultima analisi il problema dell’inadeguatezza dentro la crisi italiana e europea.
Per ora mi fermo qui e mi prendo qualche giorno per ricaricare le batterie e riflettere.
Ma prima di chiudere davvero devo e voglio fare un’altra cosa, la cosa più importante in questo momento: ringraziare tutte quelle e tutti quelli che hanno condiviso con me questa strana, brutta e velocissima campagna elettorale. Ringrazio chi si è recato al seggio e ha votato Etico, scrivendo a fianco il mio nome. Nonostante l’H e il misero risultato della lista, l’avete fatto in 2724, secondo i dati ufficiosi della Prefettura. Ringrazio in particolare quante e quanti in questa campagna ci hanno messo la faccia, il tempo e l’impegno, che ci hanno creduto, che si sono sbattuti, in rete o nelle strade, persino sotto la neve. E ringrazio ovviamente quelle e quelli che hanno costituito il cosiddetto staff, perché sono stati grandi e ci hanno messo anima, cuore e competenza.
A presto.
Luciano Muhlbauer
Questo è l’ultimo appello al voto, ma forse quello più importante, perché l’unica certezza che abbiamo è che l’esito delle elezioni regionali verrà deciso nelle ultime ore. E non si tratta di un esito qualsiasi di un’elezione qualsiasi, bensì della risposta alla domanda se in Lombardia dopo lunghissimi 18 anni vogliamo porre fine al letamaio formigoniano-leghista oppure se vogliamo che tutto continui come prima per altri 5 anni. Tradotto in concreto, questo significa che dobbiamo scegliere se far vincere Ambrosoli oppure Maroni. Tertium non datur a questo giro!
In altre parole, la campagna elettorale non finisce alle ore 24.00 di oggi venerdì 22 febbraio, bensì alle ore 14.59 di lunedì 25 febbraio, cioè un minuto prima della chiusura delle urne! Beninteso, per le liste e per i candidati finisce ovviamente oggi a mezzanotte, come vuole la legge e com’è giusto che sia, ma per il resto dell’umanità lombarda questa volta non è così. Anzi, fino all’ultimo minuto dobbiamo cercare di convincere amici e amiche, parenti, conoscenti, colleghi e colleghe, compagni e compagne o anche gente incontrata per caso che è necessario andare a votare e votare bene. Cioè, che bisogna andare a votare per mandare a casa chi in Lombardia occupa il potere e la cosa pubblica da 18 anni e per fare questo è necessario che Ambrosoli abbia almeno un voto in più di Maroni.
Spiegatelo a tutti e tutte, soprattutto a chi travolto dal disgusto o dallo sconforto non vuole andare a votare o a chi pensa che la cosa giusta da fare sia impugnare la scheda elettorale come un randello e un vaffa. No, ritengo sbagliato, molto sbagliato sottrarsi alla domanda delle domande e far finta che in Lombardia non esista un serissimo problema di bonifica democratica e di chiusura di un ciclo politico che ha trascinato nel fango l’istituzione pubblica. No, non è indifferente se vincono ancora Lega-Cl-berlusconiani-postfascisti oppure no. Nel primo caso, tutto continua come prima e le belle parole sparse in campagna elettorale rimarranno soltanto parole, nel secondo caso almeno abbiamo la possibilità di tradurle in qualche fatto.
E invitiamo a votare ETICO A SINISTRA, perché se vogliamo discontinuità con il passato non basta cacciare Maroni e Formigoni, ma dobbiamo avere anche una sinistra forte. E se poi votate a Milano, città o provincia, è anche possibile esprimere la preferenza al sottoscritto, scrivendo in stampatello MUHLBAUER a fianco del simbolo di ETICO, sul quale avrete messo una croce (vedi come si vota).
Che sia chiaro, questo non è un appello ordinario, di quelli che si fanno sempre all’ultimo momento prima del voto. No, questo è un appello straordinario e serissimo, perché questa volta davvero ci giochiamo tanto, questa volta è sul serio possibile liberare la Lombardia e darci un po’ di ossigeno, a patto però che usiamo il nostro voto e che lo usiamo bene. A questo giro, appunto, tertium non datur: o vince Ambrosoli oppure vince Maroni!
Luciano Muhlbauer
In allegato il facsimile della scheda per le elezioni regionali che troverai domenica e lunedì al seggio, con una simulazione del voto. Basta fare come nel facsimile e così voterai per far vincere Ambrosoli ed esprimerai il voto di lista per Etico e la preferenza per me, cioè per Luciano Muhlbauer.
È iniziata l’ultima settimana di campagna elettorale, quella decisiva. Già, perché siamo letteralmente al testa a testa tra Maroni e Ambrosoli e gli indecisi sono ancora molti, ma ultimamente (avete notato?) il capo leghista è vistosamente meno pimpante e un po’ più preoccupato di prima.
Ebbene sì, perché stavolta possiamo farcela davvero a chiudere con questi 18 anni di occupazione del potere e a mandare a casa Lega-Cl-berlusconiani-postfascisti. Ma dobbiamo impegnarci, sbatterci, parlare con chi ci sta attorno, convincere, perché mai come questa volta la voglia di non andare a votare o di usare il voto come un vaffa è forte. Comprensibilmente, aggiungo, considerati il triste spettacolo offerto dal sistema politico e la durezza dell’impatto della crisi occupazionale.
Ma -perché c’è un ma grande come una casa- qui in Lombardia la domanda alla quale tutti dobbiamo rispondere è estremamente concreta ed è una soltanto: vogliamo che il letamaio formigoniano continui, con la faccia di Maroni, oppure vogliamo cercare di cambiare? In altre parole, dobbiamo scegliere tra una certezza, la continuità incarnata da Maroni, e una possibilità, quella di aprire una fase nuova con la vittoria di Umberto Ambrosoli. E tra quella certezza e quella possibilità non ho dubbi e scelgo la possibilità. Ritengo, anzi, che sia un errore imperdonabile chiamarsi fuori e dichiararsi indifferenti di fronte alla prospettiva di altri cinque anni di ciellini, leghisti, berlusconiani e postfascisti!
Possiamo vincere, ma non basta vincere. Perché la possibilità del cambiamento abbia carburante, perché la voce di lavoratori, precari, studenti e movimenti risuoni nell’istituzione lombarda, occorre vincere con una sinistra forte. Cioè, con un buon risultato della lista Etico a Sinistra. E anche da questo punto di vista questi ultimi giorni sono decisivi.
Questi giorni sono importanti, molto importanti. Usiamoli e usiamoli bene. Spieghiamo perché si deve andare a votare e come si vota, perché anche questo non è sempre chiaro. Ma soprattutto spiegate a tutti e tutte che possiamo farcela, che il vento sta cambiando, che ci manca poco, che stavolta si gioca sul serio. Poi discuteremo tutto il resto, ma ora, per favore, mandiamoli a casa!
Luciano Muhlbauer
In allegato il facsimile della scheda per le elezioni regionali che troverai domenica e lunedì al seggio, con una simulazione del voto. Basta fare come nel facsimile e così voterai per far vincere Ambrosoli ed esprimerai il voto di lista per Etico e la preferenza per me, cioè per Luciano Muhlbauer.
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