Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Sabato 15 dicembre si tengono in Lombardia le primarie civiche per decidere chi sarà il candidato presidente che andrà a sfidare ciellini, leghisti e berlusconiani alle elezioni regionali anticipate e quale sarà il profilo programmatico della coalizione che avrà l’arduo compito di produrre un cambiamento e una discontinuità vera dopo quasi 18 anni di governo ininterrotto da parte di Roberto Formigoni e della sua cricca.
Rispetto alle recenti primarie nazionali di Pd e Sel saranno consultazioni più semplici, perché non ci sono trafile burocratiche e preiscrizioni, e più aperte, poiché possono votare anche i sedicenni e non ci sono appelli e carte d’intenti da firmare preventivamente. Insomma, sono un’occasione di partecipazione da cogliere e vi invito pertanto ad andare a votare –e di far votare- alle primarie lombarde. E vi propongo anche di esprimere la vostra preferenza per Andrea Di Stefano.
Ma andiamo con ordine, anche per tentare di contrastare un po’ la carenza di informazione che c’è su queste primarie.
Quando? Dove? Come? Chi?
Si vota in una sola giornata, cioè sabato 15 dicembre, dalle ore 8.00 alle ore 20.00. Unica eccezione, per quanti e quante sabato lavorano tutto il giorno, sono alcuni seggi speciali (a Brescia, Monza, Milano -via Pergolesi, 15, h. 17-22-, Bergamo, Cremona, Crema, Lecco, Lodi e Varese), aperti già venerdì sera. Ma per poter accedere a questi occorre fare richiesta entro giovedì alle ore 20.00 ai coordinamenti provinciali.
Si vota nel seggio più vicino alla propria residenza. Per sapere dov’è occorre fare riferimento al numero della sezione elettorale (lo trovate sulla vostra tessera elettorale) e andare sulla pagina Trova il tuo seggio del sito del patto civico lombardo. Chi invece è sprovvisto di tessera elettorale, perché minorenne o cittadino straniero, si deve recare semplicemente al seggio più vicino alla propria residenza. Chi fosse impossibilitato a recarsi al proprio seggio e intende votare fuori sede, deve fare apposita richiesta al coordinamento provinciale entro giovedì alle ore 20.00.
Per poter votare è sufficiente presentarsi al proprio seggio di appartenenza, munito di carta d’identità (e permesso di soggiorno, per i cittadini non comunitari) e tessera elettorale (per chi ce l’ha, ovviamente), versare almeno un euro come contributo alle spese organizzative e fornire i propri dati anagrafici.
Hanno diritto di voto in queste primarie tutte le cittadine ed i cittadini italiani e dei paesi comunitari, residenti in Lombardia, nonché le cittadine ed i cittadini di paesi non comunitari, residenti in Lombardia e in possesso del permesso di soggiorno e della carta d’identità. Per poter votare bisogna aver compiuto i 16 anni entro il 15 dicembre 2012.
Perché andare a votare alle primarie lombarde?
Ovviamente, non tutti gli uomini e le donne che pensano che occorra voltare pagina dopo il ventennio formigoniano sono anche convinti che bisogna andare a votare alle primarie. E ci mancherebbe altro, visti i tempi che corrono e le troppo delusioni e incazzature accumulate. Poi ci sono state le modalità non proprio edificanti con le quali siamo arrivati a queste primarie (do you remember?), il poco tempo a disposizione per farle vivere sul territorio e per far conoscere i candidati e, infine, una certo senso di overdose da primarie dopo quelle nazionali. Poi ci sono anche le diffidenze di sempre rispetto ad uno strumento considerato troppo amerikano e troppo maggioritario e tante altre cose ancora.
In tutti questi dubbi e in tutte queste sensazioni ci sono sicuramente dei pezzi di verità, ma poi c’è anche un altro pezzo e un altro ragionamento, che penso sovrastino tutti gli altri. Per prima volta dopo tanti anni c’è la possibilità concreta, sebbene per nulla facile o scontata, di produrre un cambiamento in Lombardia, di mandare a casa i responsabili del malgoverno, dell’affarismo e delle false eccellenze. In altre parole, non si va ad elezioni per partecipare, ma per cercare di vincere. Sarebbe stato davvero da pazzi, dunque, se le scelte da fare fossero state affidate a qualche stanza chiusa, se di segreteria o di salotto poco importa, invece che a una contesa e a un confronto pubblico e trasparente sulle persone e, soprattutto, sui programmi.
In altre parole, con tutti i suoi difetti e con tutto il poco tempo a disposizione –ma su questo non possiamo farci molto, visto che si voterà probabilmente già a febbraio-, queste primarie sono comunque un fatto positivo e un’occasione da non sprecare per contribuire dal basso alla definizione delle scelte e alla costruzione del percorso che ci porterà alle elezioni vere e proprie.
Perché votare Andrea Di Stefano?
In queste primarie si sono confrontate tre persone certamente dignitose e di indubbia moralità. Queste caratteristiche ovviamente non bastano per fare un programma di governo, ma visto come siamo messi attualmente in Regione, tra ruberie ed ‘ndrangheta, non è nemmeno poco, anzi!
Ma appunto, non basta, né per governare, né per cambiare. E da questo punto di vista Umberto Ambrosoli, Alessandra Kustermann e Andrea Di Stefano presentano profili e priorità diversi. L’esito delle primarie, con il suo vincitore, ma anche con i suoi numeri e le sue proporzioni, ci diranno dunque molto sul programma della coalizione, che io penso debba essere di rottura e discontinuità con il regime formigoniano non solo nelle persone, ma anche nel modello, nel sistema di potere e nelle priorità sociali e politiche. Ed è esattamente per questo che avevo sostenuto da subito la candidatura di Andrea Di Stefano e che ora vi invito a votarlo alle primarie!
Vi risparmio un altro fiume di parole per argomentare perché ritengo Andrea un ottimo candidato per la presidenza della Lombardia e rinvio a questo proposito, per chi fosse interessato, a quanto avevo scritto il 22 ottobre scorso (vedi Con Andrea Di Stefano per voltare pagina sul serio), aggiungendo soltanto che queste ultime settimane di confronti, assemblee eccetera mi hanno confermato assolutamente nelle mie convinzioni iniziali.
Quindi, prima di chiudere, mi limito ad un’unica considerazione, che mi pare però necessaria alla vigilia del voto di sabato. In queste settimane in molti si sono accorti che la candidatura di Andrea Di Stefano, inizialmente sottovalutata da molti, non era un gioco, ma una cosa seria. E tanti, che magari prima non lo conoscevano, hanno potuto conoscere ed apprezzare la sua competenza e la sua serietà. E così, è successo che in questi giorni qualcuno abbia pensato bene di riesumare argomenti un po’ vecchi e un po’ tristi, ma che evidentemente pensa efficaci: cioè, dipingere Andrea Di Stefano come rappresentante di una sinistra minoritaria e votata alla sconfitta permanente e, in ultima analisi, come uomo incapace di essere il candidato presidente di una coalizione competitiva.
Comunque, non sono soltanto argomenti tristi, ma soprattutto argomenti espressione di una visione distorta della realtà, che postula, alla faccia dell’esperienza concreta, che per vincere in Lombardia sia sufficiente spostarsi al centro. Già, perché in troppi fanno finta di non sapere che la rincorsa del centro è la cifra della politica dominante del centrosinistra lombardo da un po’ di tempo, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, specie quelli delle regionali del 2010.
No, il problema principale per una coalizione che intende battere le destre in Lombardia è convincere e coinvolgere gli elettori che desiderano un cambiamento in Regione, ma che magari si sono arresi alla delusione o alla rassegnazione, che forse non votano più o che votano per protesta. In altre parole, le destre non si battono al centro, ma in basso e in periferia. In fondo, pur nella consapevolezza che la regione non vada confusa con il suo capoluogo, questo è stato anche l’insegnamento della primavera milanese.
Ebbene, qui mi fermo. Mi raccomando, se sabato prossimo non siete proprio dall’altra parte della galassia, andate a votare e votate Andrea Di Stefano!
Luciano Muhlbauer
È di nuovo 12 dicembre, una data che a Milano pesa, o meglio, dovrebbe pesare, anche 43 anni dopo. Già, perché quella bomba che nel 1969 devastò la Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana e rubò la vita a 17 persone, alle quali si sarebbe aggiunto tre giorni più tardi l’anarchico Giuseppe Pinelli, fatto precipitare da una finestra della Questura, non fu soltanto un infame delitto, ma anche un atto costituente e rappresentativo di un intero periodo e, soprattutto, di una precisa modalità scelta dal potere costituito, o da parti fondamentali di esso, per tentare di ostacolare ed impedire il cambiamento sociale e politico, reclamato allora da uno straordinario movimento di studenti ed operai.
Non è un caso, infatti, che la vera matrice della strage, nonostante i depistaggi ufficiali, fosse evidente da subito e in quanto tale denunciata dal movimento: fu strage di Stato e fascista. E non è nemmeno un caso che ancora oggi manchino una verità ufficiale, dei colpevoli da punire e quindi anche degli atti degni di essere chiamati giustizia, sia per la strage di Piazza Fontana, o per quella di Piazza della Loggia di Brescia, che per l’intera stagione della strategia della tensione.
Basterebbe questo, in fondo, per spingerci a vivere il 12 dicembre come un anniversario “pesante”, come un’occasione di mobilitazione o, almeno, di indignazione. Sì, lo so, ora qualcuno dirà che dopo tanti anni continuare a chiedere verità e giustizia è tempo perso, che tanto hanno insabbiato e depistato tutto, che ormai i protagonisti sono molto anziani o già morti e che in fondo possiamo accontentarci della cosiddetta verità storica, che riconosce che la mano era fascista e che la mente si trovava in qualche pezzo dello Stato.
Ebbene, io non sono d’accordo, perché ragionamenti di questo tipo sanno un po’ troppo di rassegnazione, di accettazione dell’inaccettabile, cioè che l’omertà di Stato vale più della vita dei cittadini. E non sono d’accordo perché sono ragionamenti ingenui, poiché ignorano, o fingono di ignorare, che le verità storiche hanno bisogno di cura e di memoria attiva per poter vivere o semplicemente sopravvivere. E questo vale in particolare per la verità storica sulle stragi, che a un certo punto è senz’altro diventata memoria culturalmente egemone, ma mai è stata memoria condivisa e, anzi, in questi ultimi tempi inizia persino ad essere messa in discussione.
Certo, non siamo di fronte a una contestazione radicale e non parliamo neanche di coloro i quali da sempre hanno osteggiato da destra questa verità storica, ma ci riferiamo piuttosto ad un lavorio che toglie un pezzo di qui e ne aggiunge un altro di là, che insinua dubbi, che si fa forte dei tanti anni passati e della voglia di chiudere una vicenda durata fin troppo e di produrre riappacificazione.
Hanno iniziato con il 40° anniversario della strage, che come tutti i numeri belli tondi aveva una notevole forza di suggestione, e hanno usato lo stesso ricevimento al Quirinale di Licia Pinelli, la vedova di Giuseppe, da parte del Presidente della Repubblica, per dire che ormai tutto era a posto, che si poteva chiudere anche l’ultima pratica rimasta aperta. Dopo quella sorta di teoria del pareggio tra Pinelli e Calabresi, sono poi arrivati una produzione cinematografica e qualche nuovo libro “d’inchiesta”, che con indubbia presunzione e con rigore alquanto discutibile, appunto, tolgono un pezzo di qui e ne aggiungono un altro di là. Alla fine, comunque, la memoria risulta modificata e la “verità storica” inizia ad essere riscritta.
Ecco, dunque, un secondo motivo per non lasciar passare sotto silenzio il 12 dicembre, cioè per non permettere a nessuno di riscrivere la verità storica, dopo aver negato quella giudiziaria.
Infine, c’è anche un terzo motivo. Disperdere la nostra memoria, far riscrivere le verità storiche e far trionfare l’oblio non produce riappacificazione e convivenza, ma soltanto nuovi mostri e nuove violenze. Viviamo in un tempo di crisi, non solo economica, ma anche sociale, politica e culturale, e in molte parti dell’Europa si riaffacciano, a volte prepotentemente, movimenti di ispirazione fascista o addirittura nazista, portatori di ideologie violente, autoritarie, antisemite, razziste. Dimenticare ciò che erano queste forze nel nostro paese, non solo nel Ventennio, ma anche negli anni delle stragi, quando misero a disposizione del potere costituito la loro manovalanza assassina per tentare di spezzare ogni speranza di cambiamento, significa privarci degli anticorpi necessari per poter far fronte alle sfide di oggi.
Non è certo nelle nostre intenzioni fare paragoni fuori luogo. L’accoltellamento dell’attivista antifascista del 2 dicembre scorso è vicenda ben diversa dalla strage di Piazza Fontana e il rapporto di complicità e cooperazione tra apparati di Stato e gruppi neofascisti nella strategia della tensione è altra cosa rispetto alla concessione di sedi politiche e di reclutamento a gruppi militanti neofascisti. Tuttavia, sarebbe imperdonabile e irresponsabile sottovalutare la situazione, non cogliere i segnali che ci sono nel nostro paese e anche nella nostra città. E sarebbe peggio ancora non intervenire per stroncare subito ogni elemento di complicità tra istituzioni e gruppi nazifascisti, a partire da quella vergogna della concessione di uno spazio nelle case popolari di viale Brianza ad opera dell’Aler (vedi anche Appello per chiudere le sedi nazifasciste a Milano).
Eccovi dunque tanti motivi validi per dare questo 12 dicembre un contributo perché non si dimentichi, non si consideri accettabile l’impunità per gli stragisti, non si permetta a nessuno di riscrivere la storia e, infine, non si consenta alcuna complicità istituzionale con i gruppi nazifascisti e razzisti.
Questi sono gli appuntamenti milanesi in occasione del 43° anniversario della Strage di Piazza Fontana, dei quali vi segnalo in particolare il corteo di sabato 15 dicembre:
Mercoledì 12 dicembre:
ore 16.15 in poi, Piazza Fontana, commemorazione ufficiale e posa corone. Unici interventi previsti quelli dei familiari delle vittime di piazza Fontana, della Camera del Lavoro e dell’ANPI.
Sabato 15 dicembre:
ore 15.00, P.ta Venezia, corteo cittadino con arrivo in p.zza Fontana, organizzato da Memoria Antifascista, Adesso Basta, Amici e Compagni di Luca Rossi, Associazione Amici e Familiari di Fausto e Iaio, Associazione Culturale Antifascista Dax 16 Marzo 2003, Associazione Culturale Punto Rosso, Associazione di Amicizia Italia Cuba, Associazione Per Non Dimenticare Varalli e Zibecchi, Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, Comitato Antifascista Zona 6, Comitato Antifascista Zona 8, Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, Partigiani in Ogni Quartiere, Teatro della Cooperativa, Zona 3 per la Costituzione
Luciano Muhlbauer
Un appello per chiudere le sedi dei gruppi nazifascisti a Milano, a partire da quelle concesse dalle istituzioni pubbliche, come l’Aler, è stato lanciato da diverse realtà del movimento milanese in seguito all’accoltellamento di un attivista antifascista e alla vigilia dell’anniversario della strage di Piazza Fontana. È un appello assolutamente condivisibile, poiché chiede la fine di ogni complicità istituzionale con i gruppi militanti della destra neofascista e razzista, ed è un appello necessario, perché la sottovalutazione dei tempi che corrono è ancora troppo diffusa. Pertanto ho aderito all’appello e vi invito a fare altrettanto. Il testo dell’appello lo trovate qui di seguito e per firmarlo è sufficiente mandare una mail a 2013@daxvive.info
Luciano Muhlbauer
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CHIUDERE LE SEDI NAZI-FASCISTE È UNA QUESTIONI DI LIBERTÀ.
BASTA CONNIVENZE, BASTA COMPLICITÀ. NO NAZI IN MY TOWN
Dovrebbe occuparsi di trovare casa ai meno abbienti; dovrebbe gestire il patrimonio immobiliare pubblico per alleviare il peso della crisi.
Parliamo dell’Aler, un tempo Iacp; e parliamo di abitazioni comprate con i soldi di tutti, con le tasse dei lavoratori. Per gestire l’Aler hanno nominato ben 17 dirigenti, e nessuno di loro guadagna meno di 100.000 euro all’anno (dunque ognuno ci costa almeno 150.000 euro all’anno). Con il bel risultato di mandare edifici in malora, oppure di lasciarli sfitti, svenderli, o regalarli alla mafia in uso gratuito; ma guardandosi bene dall’aiutare i ceti popolari travolti dalla crisi.
Di recente hanno passato il segno. Hanno dato in locazione (agevolata, molto agevolata) uno spazio ad una (pretesa) associazione culturale di estrema destra, Lealtà e Azione, qui a Milano in Viale Brianza 20, nella zona di città in cui prese le mosse la resistenza antinazista e antifascista, in cui i repubblichini consumarono crimini ed eccidi. Nel loro sito i legionari (si chiamano così!) di Lealtà e Azione citano il rumeno Codreanu, il fondatore della Guardia di ferro, alleati e collaborazionisti del nazismo, rastrellatori di ebrei e zingari. Si tratta di una filiale italiana di un gruppo neonazista che opera in vari paesi; con una spada per simbolo che rievoca esperienze e passato palesemente fascisti.
Chi ha dato, con trattativa privata, i locali a questa gente, che nascosta dietro una ridicola associazione culturale si dedica ad una spregevole apologia del razzismo, delle dittature, delle legioni e del superuomo hitleriano? Forse uno dei dirigenti di Aler, il nostalgico Osnato (110.000 euro annui)? La giunta, i consiglieri comunali, provinciali e regionali tutti, i candidati alle primarie, chiunque sia direttamente o indirettamente responsabile (o aspiri a diventarlo) delle istituzioni cittadine e dunque delle politiche di Aler che non è una azienda di proprietà privata, ma pubblica, deve subito e senza esitazione pretendere dai vertici di Aler la revoca della concessione agevolata per lo spazio di Viale Brianza (ed egualmente per lo spazio di Via Bassano del Grappa). Debbono impegnarsi, subito e senza tentennamenti, a trovare i responsabili di questa grottesca agevolazione data alla destra estrema razzista, a chiederne conto, a rimuoverli dalle cariche occupate, a porre fine ad uno scandaloso aiuto fornito a Lealtà e Azione. Dopo l’aggressione di domenica scorsa in stazione Centrale per mano di due neonazisti, non è necessario attendere altre coltellate e nuove vittime; liberiamo adesso Milano, una città antifascista e indignada che non tollera aspiranti legionari che si richiamano ai loro predecessori e con loro ai forni crematori. Liberiamola da tutte le sedi nazifasciste, a Quarto Oggiaro, in piazza Aspromonte, in Via Bassano del Grappa e in Viale Brianza (le ultime due di Aler), indichiamo chiaramente i responsabili di connivenze e complicità.
Il 13 dicembre dell’anno scorso un neofascista di un’altra sedicente associazione di nostalgici del ventennio, ha ucciso nel centro di Firenze a colpi di pistola Modou e Mor e ferito altri tre ragazzi.
Queste aggressioni non sono più tollerabili, non è più tollerabile il razzismo becero e ignorante dei fascisti di oggi, per niente diversi da quei fascisti al servizio dei Servizi Segreti che hanno messo una bomba in Piazza Fontana il 12 dicembre nel 1969. Milano, città medaglia d’oro per la Resistenza, non dimentica: mantenere viva la memoria vuol dire ricordare le vittime di piazza Fontana, ricordare Dax, ricordare Modou e Mor ma soprattutto chiudere tutti gli spazi neofascisti.
Il 12 e il 15 dicembre la Milano antifascista e antirazzista scenderà in piazza per pretendere in tempi di crisi, diritti per tutti contro il pericolo di nuovi autoritarismi e derive a destra.
di lucmu (del 04/12/2012, in Lavoro, linkato 1092 volte)
Il 5 (Lombardia, Marche e Toscana) e il 6 dicembre (le altre regioni) è di nuovo sciopero generale dei metalmeccanici, proclamato dalla Fiom. Uno sciopero sacrosanto, perché siamo alla vigilia di un ulteriore strappo nelle relazioni sindacali o meglio, di un ulteriore passo in direzione della generalizzazione del modello Pomigliano. Infatti, Fim e Uilm sono pronte a firmare con Federmeccanica un nuovo contratto nazionale separato.
L’ipotesi di accordo sulla quale stanno lavorando Fim e Uilm, escludendo peraltro a priori la Fiom e, come sempre, i sindacati di base, è di fatto un’accettazione in toto della piattaforma di Federmeccanica, che si pone in perfetta continuità con i contratti aziendali imposti in Fiat da Marchionne, con le modifiche legislative introdotte dai governi Berlusconi e Monti e con l’accordo sulla produttività firmato il 21 novembre scorso.
E così, il leitmotiv è ancora una volta la riduzione tendenziale del salario, mediante il meccanismo di legarne una quota alla produttività, l’aumento dell’orario del lavoro normale e di quello straordinario, la derogabilità delle norme e, persino, il non pagamento al 100% dei primi tre giorni di malattia. Insomma, la solita tesi secondo la quale l’unica cosa da fare in tempi di crisi è tagliare salario e diritti, nonché quello che rimane della democrazia nei luoghi di lavoro.
Nel frattempo, tutti i dati disponibili, da qualunque fonte provengano, sia a livello nazionale che regionale, confermano una crisi occupazionale senza precedenti, l’aumento dei licenziamenti e della disoccupazione. Ma mai nessuno di coloro che predicano i sacrifici a senso unico, cioè per lavoratori, precari e disoccupati, si è mai degnato di spiegare come si possa rilanciare l’occupazione allontanando l’età pensionabile e aumentando l’orario di lavoro. E nemmeno come si possa pensare di rilanciare l’economia puntando sulla mera ed illusoria competizione salariale con la Serbia o la Cina, senza preoccuparsi della domanda interna. No, tutto ciò non servirà ad avvicinare una fuoriuscita dalla crisi, ma al massimo a migliorare le condizioni di vita di qualche dirigente d’azienda e a rafforzare i privilegi di qualche burocrate sindacale senza scrupoli.
Domani sarà dunque uno sciopero difficile, non fosse altro perché è l’ennesimo di una lunga serie in una categoria fortemente colpita da cassa e mobilità, ma anche uno sciopero necessario, perché la strada indicata da Fim, Uilm, Confindustria, Marchionne e Monti porta diritto in un vicolo cieco. E non si tratta di una questione che riguarda i soli metalmeccanici, poiché quello che oggi succede tra i metalmeccanici, domani succederà dappertutto.
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, per mercoledì 5 dicembre, ecco la situazione:
- ore 9.30, P.ta Venezia, manifestazione regionale della Fiom, con arrivo in Duomo. Per gli appuntamenti del 5 e 6 dicembre nelle altre regioni vedi qui;
Luciano Muhlbauer
Nel tardo pomeriggio di ieri, in seguito a un diverbio sotto la metropolitana della stazione Centrale di Milano, alcuni giovani neofascisti hanno accoltellato Stefano, un attivista antifascista milanese. Stefano è ricoverato da ieri sera all’ospedale San Paolo e ora sta bene, anche perché la fortuna gli è stata vicina e nessun organo vitale è stato lesionato. Gli mandiamo un grande abbraccio.
Quanto avvenuto è gravissimo in sé e per quello che significa e, in questo senso, sarebbe miope e irresponsabile se ancora un volta si dovesse scegliere la strada della derubricazione a rissa, a futili motivi o a faccenda di balordi. Era già successo ai tempi dell’omicidio di Dax, ucciso da alcuni fascisti nel 2003, e si era poi ripetuto con Abba, ammazzato da due baristi al grido “negri di merda” nel 2008. E dire che “la politica non c’entra” può forse suonare terribilmente tranquillizzante, ma in fondo non è altro che chiudere gli occhi di fronte alla realtà e, soprattutto, assolvere chi per convenienza politica volge lo sguardo da un’altra parte o, peggio, è apertamente complice con i gruppi neofascisti o neonazisti.
A Milano abbiamo vissuto una lunga e squallida storia di complicità istituzionale ai massimi livelli, interrottasi soltanto nel 2011 con la vittoria elettorale di Giuliano Pisapia e con l’estromissione dall’amministrazione comunale delle destre. Ma il solo cambio di guardia a Palazzo Marino non può essere sufficiente, anche perché su Milano intervengono molti livelli istituzionali, tra i quali anche Regione Lombardia, che attraverso l’Aler Milano, per esempio, ha garantito ottime entrature persino a gruppi neonazisti come gli Hammerskin, che infatti hanno ottenuto l’assegnazione a una loro associazione di copertura, “Lealtà Azione”, di uno spazio nelle case popolari di viale Brianza 20, a Milano.
Certo, l’Italia non è la Grecia, dove sotto l’occhio benevole delle forze dell’ordine impazza la violenza dei neonazisti di Alba Dorata. E Milano non è neanche Roma, dove i gruppi di estrema destra sono storicamente più radicati e dove possono contare sulla collaborazione del Sindaco Alemanno. Ma Milano non si trova su un altro pianeta, bensì in questa concretissima Europa, scossa dalla crisi e dalle politiche di austerità, dove i movimenti neofascisti e neonazisti si stanno aprendo nuovi e preoccupanti spazi. Abbassare la guardia, sottovalutare quello che sta accadendo o considerare il ritorno delle lame neofasciste, nove anni dopo l’omicidio di Dax, un semplice episodio senza significato, sarebbe un errore politico madornale per chiunque si ponga dalla parte della democrazia.
Mentre scriviamo non si sa ancora con certezza a che gruppo appartengano gli aggressori di Stefano, ma sappiamo che erano giovani e neofascisti e che di fronte a un principio di colluttazione non hanno esitato a tirare fuori il coltello e ad usarlo, senza curarsi più di tanto che potevano colpire anche organi vitali, mancati infatti per poco. In altre parole, c’è un serio problema di clima e Milano non può e non deve assolutamente tollerare un ritorno della violenza neofascista e neonazista.
L’invito è pertanto di non fare finta di niente, ma di prendere parola e posizione. E questo vale per tutti, per le istituzioni, per le forze organizzate della società civile e per i singoli cittadini e cittadine. Con un aggiunta particolare ed urgente, però, rivolta a Regione Lombardia e Aler Milano: va chiuso immediatamente il covo neonazista di viale Brianza!
Luciano Muhlbauer
P.S. oggi, lunedì 3 dicembre, alle ore 18.00, ci sarà un presidio antifascista in P.le Loreto, indetto dal movimento milanese.
di lucmu (del 28/11/2012, in Sanità, linkato 1495 volte)
Stamattina all’alba due lavoratrici del San Raffaele di Milano sono salite sul tetto dell’ospedale in protesta contro i 244 licenziamenti e la disdetta di tutti gli accordi sindacali, annunciati dal nuovo proprietario privato, Rotelli. Inoltre, le lavoratrici denunciano il vero e proprio oscuramento mediatico che è calato sulla scandalosa vicenda del San Raffaele, dove ora i lavoratori dovrebbero pagare il prezzo del malaffare e delle ruberie di Don Verzé e degli amici di Formigoni.
Infatti, i lavoratori e le rappresentanze sindacali del San Raffaele sono in mobilitazione e presidio permanente da quasi un mese, cioè da quando la proprietà aveva annunciato i licenziamenti, ma ormai la loro giustissima lotta sembra quasi sparita dall’informazione.
Esprimo la mia totale solidarietà alla lotta dei lavoratori del San Raffaele e vi chiedo di fare altrettanto, anche soltanto facendo girare la notizia dell’occupazione del tetto oppure andando direttamente al presidio, che si trova all’ingresso dell’ospedale in via Olgettina 60.
Luciano Muhlbauer
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di seguito il testo di una mia dichiarazione alla stampa:
FORMIGONI MORALMENTE RESPONSABILE DELLA SITUAZIONE
“Solidarietà totale con le due lavoratrici del San Raffaele sul tetto.
Chi governa Regione Lombardia da 17 anni porta la responsabilità non solo morale della scandalosa situazione che oggi vivono i lavoratori del San Raffaele ed è pertanto inaccettabile che la Giunta regionale continui a lavarsene le mani.
Quanto accade oggi al San Raffaele c’entra molto poco con i pesanti tagli operati dal governo Monti, poiché è conseguenza diretta del prolungato malaffare di Don Verzé e dei suoi amici, che è stato finanziato per lunghi anni con denaro pubblico elargito dalla Giunta Formigoni.
Chiediamo quindi, anzi pretendiamo, che il Presidente Formigoni si assuma le sue responsabilità e che Regione Lombardia intervenga con urgenza e trasparenza, al fine di far revocare i 244 licenziamenti e la disdetta di tutti gli accordi sindacali, annunciati da Rotelli.”
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Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare una foto del tetto occupato, scattata stamattina presto da Claudio Furlan
di lucmu (del 23/11/2012, in Lavoro, linkato 1320 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line Paneacqua.info il 23 novembre 2012
L’hanno firmato in nome della ripresa e raccontano persino che così arriverà più salario ed occupazione, ma in realtà è soltanto un’altra tegola in testa ai lavoratori, una Pomigliano grande quanto l’Italia. Parliamo dell’accordo per la produttività, cioè delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, firmato il 21 novembre scorso, sotto la regia del Governo Monti, da Abi, Ania, Confindustria, Alleanza Cooperative, Rete imprese Italia e dai tre sindacati complici di Marchionne, Cisl, Uil e Ugl.
Infatti, sebbene nel testo il termine produttività ricorra con frequenza quasi ossessiva, il vero oggetto dell’accordo è lo smantellamento del contratto nazionale a favore di un contratto aziendale di nuovo tipo, la riduzione del salario ed un’ulteriore limitazione della sfera dei diritti, delle libertà e delle tutele.
In questo senso possiamo affermare senz’altro che questa intesa si colloca in piena continuità con il percorso aperto da Marchionne a Pomigliano nel 2010, con lo spirito e la lettera dell’articolo 8 della legge n. 148/2011 del Governo Berlusconi, che introdusse il principio della derogabilità dei contratti nazionale e delle leggi, e con riforma Fornero del mercato del lavoro. Anzi, non solo è in piena continuità, ma opera un salto di qualità. Comunque, andiamo con ordine.
Primo, il contratto nazionale non garantisce più nemmeno la tutela del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Cioè, come ben sappiamo, ormai i contratti nazionali faticano persino a recuperare quanto eroso dall’aumento del costo della vita, poiché vengono utilizzati indicatori sistematicamente inferiori all’inflazione reale, ma con le Linee programmatiche si va oltre, stabilendo che una parte di questo recupero vada tolto dal contratto nazionale e delegato a quello aziendale, dove sarà legato alla produttività. Per dirla con le parole dell’accordo: “i contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello”.
Secondo, con questo accordo vengono di fatto cestinati tutti i discorsi sulla riduzione della pressione fiscale sui salari e sugli stipendi, poiché la sola ipotesi di detassazione chiaramente definita –e condivisa dal Governo- è quella del salario di produttività derivante dai contratti aziendali stipulati ai sensi dell’accordo in questione: “Le Parti, pertanto, chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso la determinazione di un’imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali, al 10%”.
Terzo, al contratto aziendale dovrebbero essere delegate (“prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione”) anche alcune parti normative come “gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro”.
Quarto, i firmatari sollecitano Governo e Parlamento di modificare il quadro legislativo al fine di affidare alla contrattazione “materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro”. Cioè, l’”equivalenza delle mansioni” (leggi: demansionamento), i “sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili” e le “modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori” (tipo il controllo a distanza del lavoratore, ora vietato dallo Statuto dei Lavoratori).
Quinto, in tema di rappresentanza dei lavoratori, richiamandosi al pessimo Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, si rinvia ad intese specifiche da stipulare entro la fine dell’anno, ma colpisce fortemente che sin d’ora venga precisato che “le intese dovranno, altresì, prevedere disposizioni efficaci per garantire … l'effettività e l'esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti”. Cioè, tutte quelle belle cose che Marchionne si era inventato da Pomigliano in poi per reprimere il conflitto e sanzionare i lavoratori e i sindacati che scioperano.
Potremmo, infine, aggiungere una serie di punti relativi agli “enti bilaterali di matrice contrattuale”, alle “forme di welfare contrattuale” o “alla cultura della collaborazione fra imprese e lavoratori”, ma non faremmo altro che riconfermarci quello che già sappiamo, cioè che il consociativismo non solo produce mostri per molti, ma anche prebende per alcuni.
In conclusione, bisogna avere davvero una faccia tosta per sostenere che un accordo del genere porti a un miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro. Ciò sarà possibile al massimo per una piccola minoranza di lavoratori, collocati in aziende medio-grandi, con produzioni che mantengono un mercato sicuro e che non possono essere delocalizzate con facilità. Per tutti gli altri, invece, di fronte alla crisi e al ricatto della disoccupazione, per non parlare di quel 70% di lavoratori, specie nelle aziende piccole o medie, che un contratto di secondo livello non l’ha mai visto, ci sarà soltanto la prospettiva di un ulteriore peggioramento e di maggiore precarietà. E senza nemmeno riuscire ad aumentare in maniera significativa l'occupazione, poiché se la questione è la competizione sul salario più basso, comunque vada, vincerà sempre la Serbia o la Cina.
L’accordo per la produttività, essendo un accordo quadro, deve ora essere applicato, a livello contrattuale e legislativo. Quindi, potrà e dovrà essere contrastato, sia a livello sindacale, che politico. E sarà questo, peraltro, il banco di prova per tutti e tutte, per capire se le critiche e prese di distanza di questi giorni sono cose da campagna elettorale oppure se si fa sul serio.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”
In Lombardia l’unica certezza è che Formigoni è finito, ma quanto al formigonismo, vabbè, è tutta un’altra storia. 17 anni sono infatti un tempo lunghissimo, che non solo annebbia la mente degli uomini, ma soprattutto sedimenta un sistema di potere pervasivo e un intreccio di interessi e complicità allargato, dove pubblico e privato, lecito ed illecito si confondono strutturalmente.
Forse a qualcuno questa premessa potrà sembrare superflua o persino banale, ma sono ancora troppi quelli chepensano, magari in virtù di un comprensibilissimo sospiro di sollievo trattenuto per troppi anni, che sia sufficiente togliere Formigoni per togliere anche il dolore. Ahinoi, però, le cose sono più complicate, da ogni punto di vista.
Primo, il fatto che il regno di Formigoni sia stato travolto dagli scandali, dal malaffare e persino dall’infiltrazione mafiosa, non significa affatto che le destre lombarde siano sconfitte. Anzi, gli interessi da salvaguardare sono molti e in Lombardia, che non va confusa con Milano, l’egemonia culturale delle destre non si è ancora spezzata. Ed è per questo che i capi di Pdl e Lega tenteranno di tutto per evitare di correre divisi.
Secondo, tutta la vicenda poco edificante delle primarie regionali, che prima c’erano, poi non c’erano più e, infine, sono tornate in versione civica, in fondo altro non è che la fotografia dello stato delle cose, cioè di un’opposizione, politica e sociale, che si è fatta cogliere impreparata di fronte all’appuntamento più annunciato dell’anno. Già, 17 anni sono un tempo lunghissimo anche per chi sta all’opposizione.
Terzo, se è vero com’è vero che Lega, Pdl e dintorni costituiscono la continuità con il formigonismo, non è assolutamente sufficiente battere le destre nelle urne perché si produca automaticamente una discontinuità. In altre parole, il punto non è semplicemente mandare a casa quanti hanno malgovernato la Regione, bensì rompere con il sistema che quel malgoverno l’ha generato, ripristinando dunque l’indipendenza dell’istituzione rispetto ai gruppi politico-affaristici e la preminenza dell’interesse pubblico su quello privato.
Quarto, le elezioni si vincono soltanto se ci sono i voti, cioè le persone in carne ed ossa che decidono di scegliere una proposta di cambiamento, piuttosto che optare per l’astensione o il vaffà generalizzato, considerato che il M5S non sembra porsi il problema di un governo regionale alternativo a quello delle destre. Lo so, questa la sapevate già, ma melius abundare visto che ultimamente girano delle storie fantastiche su come erano andate le cose nella primavera milanese e che alcuni pensano che per vincere in Lombardia sia sufficiente occuparsi del mitico centro, già dimentichi di anni di lamenti tipo “ma perché gli operai Fiom votano la Lega?”.
Insomma, oggi in Lombardia non è soltanto necessario, ma anche possibile voltare pagina ed impedire un revival delle destre, a patto però di fare sul serio, di costruire una coalizione plurale, che includa le aspirazioni e anche le incazzature di quanti e quante in questi anni hanno resistito, lottato e praticato alternative. E che metta al primo posto quello che per Formigoni e la Lega arrivava sempre dopo, cioè il lavoro, inteso come occupazione e come persone dotate di dignità e diritti, i beni comuni, la scuola pubblica, il diritto alla salute, lo stop al consumo di suolo, la mobilità alternativa all’automobile eccetera.
Tutto questo non c’è ancora, ovviamente, ma ci sono appunto le primarie lombarde, che si terranno il 15 dicembre e che servono non soltanto e tanto per scegliere un uomo o una donna, ma soprattutto per costruire in forma pubblica, trasparente e possibilmente partecipata il programma. E c’è anche un candidato presidente, Andrea Di Stefano, che rappresenta più che bene i contenuti che abbiamo ricordato.
Io ho deciso di sostenere Andrea Di Stefano e penso che la sua candidatura alle primarie sia un’opportunità per tutta la sinistra lombarda, non solo politica, ma anche sociale e di movimento.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 12/11/2012, in Lavoro, linkato 1109 volte)
Il 14 novembre si sciopera e si manifesta in quasi tutta Europa contro le politiche dell’austerità e della troika. Certo, non è ancora lo sciopero europeo che ci vorrebbe, ma forse conviene vedere il passettino avanti, il bicchiere mezzo pieno. Già, perché è la prima volta da quando è esplosa la crisi che si realizzano degli scioperi generali contestuali in diversi paesi europei, cioè in Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. In altri paesi del continente, invece, non si sciopera e ci saranno soltanto delle manifestazioni (sempre più tiepide man mano che si va verso nord).
La giornata del 14 novembre era nata dalla decisione della Ces (Confederazione europea dei sindacati) di promuovere una giornata europea di mobilitazione (vedi European Day of Action and Solidarity), ma poi è andata velocemente oltre, non solo a causa della proclamazione simultanea di scioperi da parte di alcuni sindacati aderenti, ma anche in conseguenza della convergenza di altri settori sociali e forze sindacali su quella giornata.
Ma arriviamo a noi, cioè alle mobilitazioni milanesi del 14, e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sugli scioperi e sugli appuntamenti, visto che c’è un po’ di confusione in giro.
Anzitutto, per quanto riguarda gli scioperi, la situazione è la seguente:
- la Cgil, confermando la sua timidezza nei confronti del governo Monti, ha proclamato uno sciopero generale di sole 4 ore, salvo nella scuola, nel pubblico impiego e nel commercio, dove lo sciopero è invece per l’intera giornata, mentre il trasporto aereo e il trasporto pubblico locale sono esclusi dallo sciopero;
- la Confederazione Cobas, da parte sua, ha proclamato lo sciopero generale di tutte le categorie per l’intera giornata (per dettagli vedi sito Cobas), così come ha fatto l’Usi;
- inoltre, per quanto riguarda il solo comparto scuola, oltre alle proclamazioni di cui sopra, ci sono anche gli scioperi indetti, da Cub-Scuola e Unicobas-Scuola.
- sul piano milanese ci sono, poi, anche adesioni allo sciopero di altre sigle, specie in enti e aziende con vertenze aperte (Usb Regione Lombardia, tutti i sindacati del S. Raffaele, Usb Legnano ecc.).
Insomma, alla fine della fiera, la copertura per scioperare c’è in tutti in settori del pubblico e del privato (ahinoi, con le solite esclusioni di fatto, dovute al ricatto della precarietà o peggio).
Per quanto riguarda gli appuntamenti di piazza a Milano, la situazione è la seguente:
- alle ore 8.30, a Palestro, c’è il concentramento del corteo della Cgil, che terminerà poi in Duomo;
- a partire dalle ore 7.30, i lavoratori e la Rsu del San Raffaele in lotta contro i licenziamenti saranno in presidio davanti all’ospedale e verso le 8.30 circa si muoveranno in corteo in direzione p.le Loreto, dove a partire dalle ore 9.30 ci sarà il concentramento promosso dal Coordinamento lavoratori della sanità.
Se avete integrazioni, rettifiche o altre notizie sulla giornata del 14 a Milano o dintorni, per favore usate lo spazio commenti.
Ci vediamo in piazza.
Luciano Muhlbauer
Nella Lombardia di Formigoni gli scandali non si contano nemmeno più e c’è persino il rischio dell’assuefazione, dimenticando così che buona parte di essi non sono altro che scandali annunciati. E di questa categoria fa parte senz’altro uno scandalo che in questi giorni rimbalza sulla stampa cremasca: quello della scuola di Cl di Crema.
Secondo quanto riportato dai media locali il cantiere per la costruzione di un nuovo polo scolastico privato, ad opera della Fondazione Charis, aderente alla Compagnia delle Opere, è fermo da oltre un anno. Il quotidiano La Provincia, che inizia a parlare di “cattedrale nel deserto”, individua come causa del blocco dei lavori l’improvviso, massiccio e inspiegabile aumento dei costi dell’opera. Già, perché all’inizio doveva costare 14 milioni di euro, ma adesso siamo arrivati a una previsione di 39 milioni…
Saranno gli organi competenti –auspichiamo- ad accertare cosa sta succedendo con i costi di questa opera, anche perché quel cantiere si è già mangiato un milione di euro del bilancio regionale. Anzi, senza la Regione, attraverso i buoni uffici dell’allora assessore all’Istruzione, il ciellino cremasco Rossoni, quel progetto non sarebbe mai partito.
E fu una partenza alquanto particolare, poiché il finanziamento regionale era stato approvato in tempi da record mondiale, dirottando, attraverso il meccanismo della “programmazione negoziata”, fondi altrimenti destinati alla messa in sicurezza delle scuole pubbliche. Infatti, non si trattava di una ristrutturazione, bensì di una nuova costruzione di un polo scolastico privato, di area ciellina, dove la Regione garantiva un finanziamento pubblico di 4,5 milioni di euro su un costo totale previsto di 14 milioni.
Ora i nodi vengono al pettine e persino la Regione ha dovuto bloccare l’erogazione degli altri 3,5 mln di euro. Ma per favore, ora nessuno faccia il finto tonto, perché in quella opera tutto era sbagliato e sospetto sin dall’inizio. E lo si sapeva pure, perché a suo tempo fu denunciato pubblicamente, sia da noi in Consiglio regionale, che da diversi consiglieri comunali dell’opposizione di Crema.
In altre parole, le responsabilità vanno cercate non soltanto in quello che è avvenuto negli ultimi due anni, ma anche –e forse soprattutto- in quello che avvenne nel 2008.
Luciano Muhlbauer
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