Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 agosto 2011
“Nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili di Francia, fin quando essi assicuravano un governo alla nazione”. Forse quelle parole di Voltaire non dicono tutto, ma indubbiamente illuminano il nocciolo della questione. Cioè, ieri come oggi, questione morale e questione politica sono inscindibili. Anzi, il dilagare dell’immoralità pubblica è direttamente proporzionale all’intensità della crisi politica.
Ecco perché non ha senso discutere della questione morale come se fosse una cosa separata. Sarebbe soltanto un esercizio di ipocrisia e di autoassoluzione. E questo vale in generale e vale anche per il caso Penati, comunque vada a finire la sua vicenda giudiziaria.
Già, perché quei “dimettiti” e “rinuncia a” sparati ormai a raffica all’indirizzo di Penati, dopo la reticenza iniziale, non convincono. In fondo, Filippo Penati non è proprio una meteora. Anzi, è stato Sindaco, Segretario provinciale, Presidente della Provincia, coordinatore della Segreteria nazionale, candidato alla Presidenza regionale e vicepresidente del Consiglio regionale.
Ma soprattutto è stato l’ispiratore, il simbolo e il capofila di quel Pd del Nord, che postulava la risalita della china in terra nemica mediante un’operazione culturale che portasse i democratici ad assomigliare sempre di più all’avversario e ad integrarsi sempre maggiormente nel sistema di potere esistente. Ed ecco, dunque, il Penati che parlava come la Lega e De Corato, coltivava rapporti ravvicinati con Cl ed annessi, emetteva scomuniche contro la cultura del 68 e, ovviamente, definì una politica delle alleanze incentrata sulla rincorsa del centro e sulla rottura a sinistra.
Molto difficile, dunque, sostenere che il caso Penati riguardi soltanto Penati. Beninteso, il punto non è processare il Pd, come vorrebbe la destra. Infatti, anche nel periodo di massima forza del penatismo vi fu chi dentro il Pd dissentì e si oppose, così come fuori dal Pd vi fu chi non si oppose e, anzi, condivise. No, il punto è un altro ed è tutto politico. Cioè, occorre finirla con quella tragica rimozione della politica, perché a disintegrare ogni presunta “diversità” e a costruire il brodo di coltura dell’affarismo fu proprio la concezione penatiana della politica. E, peraltro, senza nemmeno realizzare l’obiettivo che doveva giustificarla, cioè la risalita della china. Anzi, il penatismo è stato foriero di sconfitte ed arretramenti.
L’esempio forse più lampante sono senz’altro le elezioni regionali del 2010. Penati non solo ha rotto il fronte dell’opposizione a Formigoni, estromettendo Rifondazione, senza però riuscire ad arruolare l’Udc, ma soprattutto ha realizzato un risultato assolutamente negativo, collocandosi ben 10 punti sotto quello del compianto Riccardo Sarfatti del 2005.
Soltanto un anno più tardi Giuliano Pisapia avrebbe vinto le elezioni a Milano, con una politica che era l’esatto opposto di quella di Penati. Anche per questo, risultano più che stucchevoli i tentativi di coinvolgere Pisapia, specie se provengono da esponenti dello stesso centrosinistra.
Sarebbe un errore straordinario se il Pd insistesse nella rimozione della questione politica, magari illudendosi di salvare il salvabile. È vero il contrario, semmai, e basta guardarsi attorno. La primavera dei sindaci e dei referendum sembra già lontana, le due manovre finanziarie hanno un segno classista esplicito e il Governo sembra redivivo e capace di sopravvivere a questo autunno, mentre l’opposizione parlamentare si azzuffa addirittura sullo sciopero generale.
Insomma, o il Pd trova la lungimiranza di cogliere l’occasione per un rinnovamento politico serio oppure il prezzo lo pagheremo tutti noi, con altri Penati e nuove sconfitte.
di lucmu (del 25/08/2011, in Lavoro, linkato 1222 volte)
Il 6 settembre c’è lo sciopero generale contro la manovra economica bis del Governo. L’ha proclamato la Cgil due giorni fa e questa è una prima buona notizia. Ieri anche le organizzazioni sindacali di base Usb, Slaicobas, ORSA, Cib-Unicobas, Snater, SICobas e USI hanno proclamata lo sciopero generale, convergendo sulla data del 6 settembre. E questa è la seconda buona notizia, perché interrompe il sempre più incomprensibile rituale della moltiplicazione delle date, offrendo finalmente un unico momento, sebbene con piazze e piattaforme separate, dove far confluire l’indignazione e l’opposizione sociale contro una manovra palesemente iniqua e oscenamente classista.
Ma, ahinoi, le buone notizie finiscono qui. E non ci riferiamo tanto e soltanto alle cose universalmente note, dal condizionamento internazionale fino alla complicità filogovernativa di Cisl e Uil, passando per la febbre da unità nazionale di buona parte dell’opposizione parlamentare, ma piuttosto all’altalenante politica della stessa Cgil.
Già, perché c’è da farsi venire il mal di mare di fronte ai repentini cambiamenti di linea da parte del gruppo dirigente della confederazione. Infatti, nel giro di poche settimane siamo passati da una Cgil versione union sacrée, che presenta al Governo un documento insieme a Cisl, Uil, Confindustria e banchieri, a una versione barricadera, che indice da sola lo sciopero generale, manda a quel paese Bonanni e fa arrabbiare Bersani. E come se non bastasse, uno dei punti qualificanti dello sciopero è la sacrosanta richiesta di eliminare l’articolo 8 del decreto-legge del 13 agosto scorso (vedi allegato), il quale generalizza e legittima i contratti aziendali in stile Marchionne, prevedendo persino la possibilità di derogare alle leggi, compreso lo Statuto dei Lavoratori, ma al contempo la segreteria della Cgil ribadisce la piena fedeltà all’accordo interconfederale del 28 giugno scorso, che di quell’articolo 8 è il padre legittimo.
Insomma, anche tenendo conto che il Ministro Sacconi e tutto il Governo giocano sporco e cercano in tutti i modi di creare zizzania nel campo avverso, non si può non concludere che la Cgil stia navigando a vista, senza una strategia chiara. E così, la Cgil continua a stare in mezzo al guado, continuamente tirata per la giacca di qua e di là, esattamente come ai tempi di Epifani. Eppure, ora è molto peggio e non soltanto perché quello stare in mezzo al guado logora e non può durare all’infinito, ma soprattutto perché la Segreteria Camusso era nata proprio per superare l’indefinitezza, per traghettare l’organizzazione verso il riavvicinamento con la Cisl e per regolare i conti con la Fiom. Cioè, detto altrimenti, per riposizionare la Cgil su una linea meno conflittuale e più accomodante, anche in vista di un eventuale cambio di governo.
Ebbene, quel riposizionamento finora non ha funzionato e, peggio, non è stato compreso da molta parte dell’organizzazione, ma in cambio ha prodotto parecchi danni. E allora, è lecita e persino doverosa la domanda se il 6 settembre si fa sul serio oppure se si cerca semplicemente di dare un colpo alla botte dopo averne dato uno al cerchio.
Da parte nostra, riteniamo che sia imprescindibile impegnarsi perché lo sciopero generale riesca il più possibile, che mobiliti i lavoratori e le lavoratrici e che coinvolga anche altri settori sociali. Lo pensiamo, anzitutto, perché quella manovra non cambierà con le chiacchiere, come vorrebbe far credere Bonanni, e l’autunno sarà ancora lungo. E, soprattutto, lo pensiamo perché non siamo di fronte a una questione congiunturale, bensì strutturale.
Loro non cercano soltanto di “mettere in ordine i conti”, bensì di riscrivere il modello sociale e politico in senso peggiorativo (per chi vive del proprio lavoro o neanche ce l’ha, si intende). Ecco perché, tanto per fare un esempio, troviamo nella manovra anche cose come la soppressione delle festività del 25 Aprile e del 1° Maggio, che non cambierà di una virgola lo stato del debito pubblico o dello sviluppo economico, ma che in cambio ha un’alta e deleteria valenza politica.
Insomma, questa sciopero generale va fatto, ma sul serio!
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo integrale della manovra economica bis, cioè il decreto-legge n. 138 del 13 agosto 2011
Non ha sorpreso, in fondo, ma ha fatto impressione lo stesso vedere ieri sera al Tg quella conferenza stampa dei firmatari delle “proposte delle parti sociali”, dove il capo di Confindustria, Emma Marcegaglia,ha parlato a nome di tutti, compresa la Cgil.
Non ha sorpreso il patto tra banche, imprese e sindacati e il “documento comune” (vedi allegato) con le proposte da presentare a Governo e opposizione, perché le premesse c’erano già tutte, dalla firma dell’accordo interconfederale sulla rappresentatività del 28 giugno scorso fino al clima da unità nazionale attorno alla pesantissima manovra economica di qualche settimana fa.
Ma, appunto, fa impressione lo stesso. Un po’ per i tempi, perché colpisce la rapidità con la quale hanno trovato piena conferma le preoccupazioni e le critiche circa la firma della Cgil dell’accordo del 28 giugno, allora da troppi respinte con sufficienza. E un po’ perché quella iniziativa certifica l’inconsistenza –e quindi l’inesistenza- dell’alternativa politica al quadro esistente.
Insomma, basta uno sguardo al documento comune delle parti sociali, al quale il Governo ha risposto con i suoi otto punti (vedi sempre allegato), per capire qual è l’indicazione politica che ne viene fuori. Cioè, allo stato esiste un ampio consenso tra le “parti sociali” (segreterie dei sindacati confederali, vertici degli imprenditori e management delle banche) rispetto alla necessità di liberarsi di Berlusconi, considerato ormai ingombrante e cotto, e di definire un quadro di governo, dello Stato e della crisi, che abbia ampie basi bipartisan e che non si discosti dalle linee strategiche indicate dalla Commissione Europea.
In sintesi, il quadro politico post-berlusconiano prevede larghe intese e non è in discussione chi deve pagare la crisi e i costi della speculazione finanziaria (cioè: redditi da lavoro dipendente, risparmi famiglie, welfare, servizi pubblici). A questo proposito, è altamente significativo che proprio ieri Marchionne sia intervenuto a distanza, essenzialmente per collocarsi in quel nuovo quadro.
Certo, nulla è e nulla sarà lineare e scontato, perché Berlusconi non è uomo da mettersi da parte così facilmente, perché le contraddizioni tra i firmatari del patto e i loro alleati politici sono sempre presenti, perché la crisi non accenna a fermarsi e produce instabilità eccetera eccetera.
Ma, comunque sia, dobbiamo prendere atto che in questo momento la situazione è questa e che, quindi, dobbiamo guardare all’autunno con la consapevolezza che c’è poco da sedersi sugli allori della primavera e molto, invece, da lavorare e costruire.
di Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il documento comune delle parti sociali del 4 agosto (ABI, ALLEANZA COOPERATIVE ITALIANE (CONFCOOPERATIVE, LEGA COOPERATIVE, AGCI), ANIA, CGIL, CIA, CISL, CLAAI, COLDIRETTI, CONFAGRICOLTURA, CONFAPI, CONFINDUSTRIA, RETEIMPRESE ITALIA (CONFCOMMERCIO, CONFARTIGIANATO, CNA, CASARTIGIANI, CONFESERCENTI), UGL, UIL, nonché il documento presentato dal Governo.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 31 luglio 2011
Chissà se ha ragione Bersani quando grida alla macchina del fango. A noi, francamente, sembra un po’ poco, anche perché il coinvolgimento di Filippo Penati, comunque vada a finire la vicenda giudiziaria, tira in ballo un intero ciclo politico dei Ds e del Pd del Nord e, pertanto, di tutto il centrosinistra.
Già, perché Penati ha incarnato più di altri quel pensiero politico e culturale che individuava nell’assomigliare il più possibile all’avversario la chiave per recuperare consensi e battere le destre. Per questo bisognava disconoscere il passato ed iniziare a parlare come i leghisti, con l’effetto tutt’altro che collaterale della riduzione del governo della cosa pubblica a mera amministrazione dell’esistente.
La “diversità”, di cui in questi giorni tanto si disquisisce, è stata seppellita da quel pensiero, in nome del quale un po’ tutto divenne lecito e possibile e che produsse una politica fallimentare, peraltro sconfitta sul campo: prima, la perdita della Provincia, poi la pessima performance alle regionali e, infine, la vittoria di Pisapia a Milano, che di fatto ha capovolto il paradigma penatiano.
Eppure, Bersani non ha tutti i torti. Anzi, c’è da rimanere basiti di fronte al contrasto tra la soddisfazione unanime per le dimissioni di Penati e il buonismo che regna nei confronti degli uomini di Roberto Formigoni. E non ci riferiamo tanto ai randelli mediatici della destra, come il Giornale, Libero o la Padania, che fanno quello che sanno fare, ma a tutti gli altri.
Ma è mai possibile che alle giustissime richieste di dimissioni di Penati non siano seguite anche quelle di un altro componente del medesimo ufficio di presidenza, cioè l’ex-assessore formigoniano, Massimo Ponzoni (Pdl)? Ebbene sì, perché Ponzoni è indagato pure lui e non solo per corruzione, ma anche per i rapporti con il crimine organizzato. Secondo i magistrati, Ponzoni avrebbe persino ricevuto nei suoi uffici alcuni boss e sarebbe da considerarsi parte del “capitale sociale” della ‘ndrangheta.
Nel settembre dell’anno scorso, infatti, le opposizioni in Consiglio regionale chiesero le sue dimissioni, ma la mozione fu respinta, con voto compatto di Pdl e Lega, e da allora regna un irreale silenzio, senza troppo scandalo pubblico.
Ma la tolleranza nei confronti del mondo di Roberto Formigoni è più generale e radicata. Tanto per stare nell’attualità, potremmo ricordare lo scandalo del San Raffaele, dov’era sufficiente che Formigoni dicesse “ma che c’entra la Regione?”, perché più o meno tutti lasciassero perdere. Eppure, i rapporti privilegiati tra Cl e Don Verzé sono cosa nota e, soprattutto, c’è il fatto che il San Raffaele ha goduto, mediante i rimborsi, di un finanziamento pubblico regionale di 400 milioni di euro nel solo 2010.
E se non bastasse ancora, potremmo ricordare l’operetta padana che vede protagonista l’assessore leghista Monica Rizzi, indagata per uso illecito di dati protetti per favorire l’elezione di Renzo Bossi e per aver millantato istituzionalmente un’inesistente laurea in psicologia. Oppure, la nota vicenda di Nicole Minetti, “laureata” al San Raffaele ed “eletta” in Consiglio regionale nel listino bloccato di Formigoni, con tutto il suo corollario delle firme falsificate. Qualcuno si è dimesso? Ma figuriamoci!
Beninteso, tutto questo scenario non ci stupisce affatto e, se l’autocitazione non fosse peccato capitale, potremmo qui ripetere le nostre considerazioni di un anno fa sulla questione morale al Pirellone. Ma quello che continua a stupirci, nonostante tutto, è la diffusa acquiescenza nei confronti di Formigoni.
Certo, chi conosce la Lombardia sa bene quanto sia solido e capillare il sistema di potere ciellino costruito in 16 anni di governo ininterrotto della Regione. E tutti sappiamo che molti sono anche i legami con pezzi del centrosinistra, tra i quali, ironia della sorte, soprattutto quello penatiano.
Ma questa è una ragione in più e non in meno per cambiare registro, a partire da una po’ di pulizia in casa proprio e con l’apertura formale della questione morale in casa Formigoni.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 22 luglio 2011 con il titolo “I no global e noi, movimenti in connessione”
Sono passati dieci anni da quel luglio genovese e nel frattempo molte cose sono cambiate. A chi c’era, a chi ha vissuto e condiviso gioie, dolori e rabbia può sembrare anche ieri, ma in un mondo dove tutto corre e la memoria è sempre più labile, un decennio è un tempo maledettamente lungo. E così, la trappola della commemorazione, del come eravamo è sempre in agguato.
Cascarci sarebbe però un disastro, perché equivarrebbe alla collocazione di quella stagione di movimenti nel museo delle cere. E, possiamo starne certi, in quel caso i detrattori di ieri le darebbero un posto d’onore, magari pure un piedistallo, in cambio dell’espulsione dal tempo presente.
Ebbene sì, perché Genova continua ad essere una spina nel fianco per troppi da troppe parti, sia per quelli implicati nella repressione di ieri, che per quelli tuttora convinti che il cambiamento consista nella semplice sostituzione degli inquilini del palazzo.
Quindi, evitiamo di regalare ai responsabili operativi e politici delle violenze la tranquillità dell’archiviazione storica. Non è una questione che riguarda le sole vittime della violenza poliziesca del 2001, a partire dalla famiglia Giuliani e da quelli e quelle che subirono le infamie di Bolzaneto e della Diaz. No, è una questione generale che riguarda l’insieme del paese, perché il lezzo nauseabondo dell’impunità corrode il rapporto tra istituzione e cittadino e la stessa legalità costituzionale. Né più né meno.
Ma appunto, Genova non era soltanto repressione. Anzi, a meno che non vogliamo sposare la tesi che tutta quella violenza, così come le sue anticipazioni di Napoli e Goteborg, fosse il prodotto di qualche eccesso di qualche subalterno, allora dobbiamo rammentare chi e che cosa era quel movimento.
Partito da Seattle, era un movimento giovane, che rompeva argini e schemi, oltrepassava i confini e riscopriva e riformulava il linguaggio dell’alternativa. Contrappose alla globalizzazione liberista la cooperazione globale dei movimenti sociali e la parola d’ordine “un altro mondo è possibile!”. E soprattutto era in crescita, era un fiume in piena e, di fatto, andava ad occupare la posizione di antagonista del potere, ormai abbandonata da una ex-socialdemocrazia ostaggio del pensiero unico. Quel movimento andava dunque stroncato sul nascere. Questo si tentò di fare a Genova.
Oggi c’è chi sostiene che l’operazione riuscì, ma non è vero. Anzi, il movimento resistette anche all’11 settembre e si fece carico dell’opposizione alla guerra permanente. Poi seguirono il Forum sociale europeo di Firenze del 2002 e la straordinaria mobilitazione contro la guerra in Iraq del 2003. La fase discendente arrivò soltanto dopo. Insomma, non fu la repressione a spezzare il movimento, fu la politica.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma oggi ci troviamo di nuovo di fronte a una fase di partecipazione dal basso e di protagonismo dei movimenti: la battaglia della Fiom, il 16 ottobre, l’onda studentesca, la lotta degli insegnati, il 14 dicembre, i comitati per l’acqua pubblica, la primavera delle elezioni amministrative e dei referendum, la Val di Susa eccetera.
E anche oggi, come ieri, invece di coglierne le potenzialità, molta parte dell’opposizione politica sembra piuttosto spaventata ed intenta a normalizzare, come indicherebbero il clima da unità nazionale attorno alle politiche anticrisi o, su un altro piano, la firma sotto l’accordo interconfederale da parte della Cgil.
Problemi analoghi, dunque, ma anche attori e scenario mutati, perché i movimenti non sono più gli stessi, c’è una nuova generazione che il 2001 genovese lo conosce soltanto per sentito dire e i nodi della globalizzazione liberista sono ormai venuti al pettine.
Ecco perché non ha senso tornare oggi a Genova per commemorare il movimento di ieri e perché occorre invece essere sufficientemente lucidi per tentare di connettere la stagione dei movimenti di ieri a quella di oggi, di costruire ponti, di individuare obiettivi e iniziative e di far tesoro delle esperienze passate.
Tra oggi e domenica a Genova ci saranno sufficienti luoghi e momenti dove tentare di farlo. Il resto dipende da noi.
di lucmu (del 18/07/2011, in Lavoro, linkato 1393 volte)
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 18 luglio 2011
Ma chi ha vinto la causa sul contratto di Pomigliano? La Fiat o la Fiom o chi? Un quesito tutt’altro che banale, vista l’altalena di interpretazioni e dichiarazioni contrastanti che si sono susseguite dopo la pubblicazione della sentenza del giudice del lavoro di Torino, sabato notte.
Da parte nostra, sebbene sia necessario attendere le motivazioni della sentenza per una valutazione definitiva, anticipiamo da subito che consideriamo di capitale importanza il fatto che sia stata dichiarata illegittima l’espulsione manu militari della Fiom dallo stabilimento di Pomigliano (e quindi anche di Mirafiori), poiché questo significa che la Fiom continuerà ad esistere in Fiat e che dunque continuerà ad esistere, sebbene in condizioni difficili, la possibilità perché i lavoratori possano esprimersi liberamente e in maniera indipendente. In altre parole, chi pensava di cancellare la Fiom ha fatto male i conti e la partita non è affatto chiusa.
Ma vediamo da vicino questa sentenza.
Anzitutto, occorre formulare un’avvertenza. Cioè, ad oggi conosciamo soltanto il dispositivo, ma mancano ancora le motivazioni della sentenza, che verranno depositate dal giudice del lavoro, Vincenzo Ciocchetti, entro 60 giorni. Segnaliamo questo fatto perché nel caso in questione le motivazioni sono di cruciale importanza per capire tutte le implicazioni delle decisioni del tribunale di Torino.
In secondo luogo, va detto chiaramente che Marchionne e la Fiat si portano a casa un risultato importante, che avrà delle conseguenze ben oltre il perimetro degli stabilimenti italiani del gruppo Fiat-Chrysler, visto che la sentenza riconosce la legittimità della stipula di contratti di lavoro aziendali in sostituzione di quelli nazionali e del meccanismo della costituzione ad hoc di nuove società (newco) dove riassumere con contratto diverso i propri dipendenti.
Terzo, è più che probabile che l’accordo interconfederale tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria del 28 giugno scorso, sebbene giuridicamente estraneo alla causa, abbia però influito non poco sulle decisioni finali del giudice. Infatti, non sembra un caso che quell’accordo sia stato portato in tribunale in extremis, cioè lo stesso sabato, proprio dai legali della Fiat a sostegno della propria posizione, anche se fino al giorno prima la stessa Fiat sparava a zero su quell’intesa, perché ritenuta insufficiente. Insomma, giuridicamente irrilevante, ma politicamente pesante…
In quarto luogo, eccoci al punto positivo: il giudice ha dato torto marcio alla Fiat sul punto dell’estromissione della Fiom dalla fabbrica di Pomigliano, in quanto non firmataria del contratto della newco (“dichiara antisindacale la condotta posta in essere”). E, pertanto, il tribunale “ordina a Fabbrica Italia Pomigliano S.p.A. di riconoscere, in favore di Fiom-Cgil, la disciplina giuridica come regolata dal Titolo Terzo (…), artt. da 19 a 27, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori)”.
Per i non addetti ai lavori, ricordiamo che gli articoli in questione stabiliscono il diritto di costituire rappresentanze sindacali, indire assemblee, avere permessi sindacali e disporre del diritto di affissione e di un locale per le rappresentanze. Insomma, avere agibilità sindacale. Tuttavia, qui c’è anche un’apparente contraddizione nel dispositivo della sentenza, poiché il famoso articolo 19 della legge 300, così come modificato dal referendum del 1995, afferma che tutti questi diritti ci sono soltanto per le organizzazioni “firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva” e la Fiom, appunto, non è firmataria.
Orbene, in attesa delle motivazioni della sentenza, che chiariranno definitivamente questo aspetto, sottolineiamo però che allo stato soltanto alcuni esponenti di Cisl e Uil interpretano la sentenza in senso restrittivo, mentre non solo la Fiom, ma anche, ad esempio, il Prof. Maresca, nella sua lunga intervista su il Sole 24 Ore di ieri, ritiene che la firma non sia necessaria.
Insomma, per concludere questa lunga argomentazione, possiamo senz’altro affermare che la Fiom non esce con le ossa rotte da questa causa e che anzi ottiene un risultato importante in termini di agibilità sindacale.
Un risultato, peraltro, dal significato più generale in termini di difesa della democrazia sui luoghi di lavoro, perché ribadisce la vigenza del principio costituzionale che “l’organizzazione sindacale è libera” (art. 39) e che non è una variabile dipendente degli interessi del padrone e/o di qualche sindacato complice.
Poi, certo, Marchionne passa con le newco, la sostituzione del contratto nazionale o le deroghe ad esso vanno avanti come un treno ovunque, le Rsu e il libero voto degli operai non ci saranno più in Fiat, ma difficilmente si poteva pensare che un giudice solitario risolvesse una questione che è sociale e politica e che chiama in causa ben altre responsabilità. Ma una cosa Marchionne e suoi complici non sono riusciti a fare: fucilare la Fiom e mettere il bavaglio agli operai. E questo non è poco, perché consente ai metalmeccanici e a tutti e tutte noi di poter continuare la battaglia.
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il dispositivo della sentenza del Tribunale di Torino del 16 luglio 2011, relativa al ricorso Fiom contro il contratto Fiat Pomigliano
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale online Paneacqua il 14 luglio 2011
Tutti uniti, tutti responsabili, tutti coesi in nome della nazione strapazzata e delle richieste dei mercati. E così, la mega manovra da oltre 70 miliardi di euro sarà approvata in un lampo, senza inutili discussioni e sterili proteste. Le banche centrali e i commissari europei applaudono, le agenzie di rating annuiscono e gli speculatori, per ora, tornano ad occuparsi dei Pigs (Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna).
Insomma, a sentire la vulgata massmediatica del momento, l’abbiamo scampata bella. Siamo stati bravi. Persino il governo, ormai in avanzato stato di putrefazione politica, ha dato prova di apparente serietà e l’opposizione ha finalmente dimostrato di essere fit to govern, come direbbero gli anglosassoni. Anzi, si ricomincia pure a parlare di governi tecnici, di transizione, di unità nazionale e chi più ne ha più ne metta, tanto la questione è non andare al voto subito e condividere a 360 gradi la responsabilità dei sacrifici.
Già, perché ci sono i sacrifici e quelli toccano ai soliti noti. E questa volta sono proprio una bella botta, che colpisce un tessuto sociale ed economico già indebolito da anni di crisi e misure anticrisi. Evitiamo qui di fare l’elenco dettagliato dei tagli e dei balzelli, perché basta ricordare i titoli per capire chi pagherà il conto.
Tra interventi sulle pensioni, ticket sanitari, tagli alle agevolazioni fiscali e blocchi sempre più lunghi degli stipendi nella pubblica amministrazione, ai quali vanno aggiunti i micidiali effetti differiti dei tagli alle Regioni e agli enti locali, è evidente che la manovra massacra il reddito e le condizioni di vita di chi vive del proprio lavoro, fisso o precario che sia, e di chi il lavoro neanche ce l’ha.
“Ci dispiace, ma non possiamo farci niente, ce lo chiedono i mercati”, è il refrain che ricorda tanto il TINA (There is no alternative) di thatcheriana memoria, ma stranamente tutti si dimenticano poi di spiegare chi sono questi benedetti “mercati”. Infatti, lungi dall’essere posti anonimi dove agiscono mani invisibili, i mercati sono luoghi dominati da concretissimi interessi e poteri, con tanto di nome e cognome. Ne volete uno, tanto per rompere l’omertà? Eccovelo: Raymond Dalio, reddito annuo di 2,5 miliardi di dollari (secondo Fortune), fondatore di “Bridgewater Associates”, il più grande hedge fund al mondo, il quale dispone di una massa attiva di 92 miliardi di dollari.
Sono uomini come Dalio che decidono cosa succede nelle borse, chi vive e chi muore. E con loro ci sono anche quegli archetipi del conflitto di interessi che si chiamano agenzie di rating. Basta un cenno di “Moody’s”, di “Fitch” o di “Standard & Poor’s” e interi Stati sovrani rischiano la rovina. E il punto non è sapere se abbiano sempre ragione o torto nei loro giudizi, bensì che dispongano di quel pazzesco potere che gli permette di autoavverare le loro profezie, a prescindere dal fatto che abbiano ragione o torto.
In altre parole, in quei mercati non risiedono le soluzioni, bensì parte significativa dei problemi. Anzi, proprio la follia e l’insostenibilità di un siffatto governo dell’economia mondiale è la prova dell’urgenza di un radicale cambiamento. Beninteso, non siamo degli ingenui e sappiamo bene che non basta affermare queste cose perché la realtà cambi e che, invece, occorrerà una lotta titanica e una cooperazione sul piano europeo ed internazionale. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare. O no?
E insistiamo con questo quesito, perché tutto questo unanimismo nasconde troppe cose non dette. Anzitutto, perché a nessuno sfugge che l’insieme delle misure anticrisi, identiche in tutta Europa, tendono a ridisegnare complessivamente il modello sociale del dopoguerra, in senso classista, liberista ed escludente. E con esso, ovviamente, anche il modello politico, che assume tratti sempre più autoritari nel rapporto tra governo e popolo, sebbene in un quadro formalmente democratico. Se volessimo trovare un paradigma ispirato all’attualità, allora potremmo trovarlo in Val di Susa.
E non è affatto un caso che il vento del cambiamento che abbiamo respirato in primavera, con le elezioni amministrative ed i referendum, fosse caratterizzato da una massiccia domanda di democrazia e partecipazione e da una volontà manifesta di riappropriazione della sfera pubblica e, in ultima analisi, del proprio futuro. E non è nemmeno un caso che quella caratteristica la troviamo anche nei movimenti in giro per l’Europa, da Atene a Madrid, o per il Maghreb e il Medio Oriente.
Insomma, oggi e qui la questione è cosa vogliamo fare di fronte alla crisi economica e politica, in che direzione vogliamo lavorare. Per semplificare all’estremo, di direzioni di marcia possibili ce ne sono due. Una è quella indicata dai movimenti e sommovimenti che fanno concretamente quel famoso vento che è cambiato, che mettono in discussione le politiche economiche depressive e che esprimono una straordinaria potenzialità democratica, sia in termini di salvaguardia di beni comuni e diritti, che di partecipazione attiva. La seconda, invece, è quella indicata dalla politica dell’union sacrée attorno al governo dell’esistente e al patto con i poteri economici e finanziari dominanti.
Ed è bene essere consapevoli che le due strade non sono compatibili e tendono a confliggere, come stanno dimostrando proprio gli avvenimenti di questi giorni. In primo luogo, è stata proprio la logica dell’unità e coesione nazionale a fare da levatrice all’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di due settimane fa, il cui obiettivo è palesemente la normalizzazione della Fiom e il restringimento della democrazia sui luoghi di lavoro.
In secondo luogo, la pesante stretta nella manovra economica sugli enti locali, compresa la norma che inserisce nel patto di stabilità interno il criterio delle “dismissioni di partecipazioni societarie” (leggi: privatizzazioni), inciderà in maniera significativa sulle esperienze di governo locale nate in primavera. Un esempio ante litteram di che cosa questo significhi l’abbiamo avuto proprio ieri a Milano, quando il Sindaco Pisapia ha confermato l’accordo sulle aree per l’Expo, così com’era stato elaborato dalla Moratti e da Formigoni, cioè consentendo la valorizzazione delle aree con la loro trasformazione da agricole in edificabili.
Beninteso, questo esito era nell’aria da settimane, perché dopo i tre anni spesi dalla destra unicamente per farsi la guerra sulla gestione dell’affare immobiliare dietro l’Expo, si era ormai giunti al dunque e l’unica alternativa possibile (a parte un’improbabile decisione di non fare più l’Expo) era trovare in extremis le non poche risorse finanziarie aggiuntive che permettessero di realizzare il progetto dell’orto globale, come chiesto dall’assessore Boeri. Considerato che difficilmente Governo e Regione avrebbero messo mano al portafoglio, avrebbe dovuto pensarci il Comune di Milano, che però deve già fare fronte agli enormi buchi di bilancio lasciati dall’amministrazione precedente, nonché ai tagli dei fondi in arrivo da Roma.
Insomma, con la leva dei soldi e delle compatibilità finanziarie imposte dal centro, che sarebbe poi l’esatto contrario del tanto reclamizzato federalismo, si riesce a mettere la camicia di forza agli enti locali, espropriando i cittadini-elettori della loro sovranità. Ma ricatto o no, chi a primavera ha votato per il cambiamento, ora si aspetta dei fatti in coerenza con il suo voto e non si accontenta della spiegazione razionale delle difficoltà del momento. Un bel problema in prospettiva, con questa manovra, perché se uccidi la speranza non rimane che la smobilitazione oppure il rifugio in forme di contestazione difficilmente riconducibili a un progetto capace di esprimere un’alternativa al potere esistente.
Insomma, tra le vittime programmate di questo tutti uniti sulla manovra non troviamo solo le condizioni di vita delle fasce sociali che vivono del proprio lavoro, ma anche la stessa speranza di cambiamento, che a quanto pare suscita preoccupazione non soltanto a destra. E quindi vi è una ragione in più per non farsi incantare dall’union sacrée.
di lucmu (del 29/06/2011, in Lavoro, linkato 5768 volte)
Il vento è cambiato è l’espressione più diffusa per descrivere quanto è successo nel nostro paese in questi ultimi mesi, per dare senso generale allo splendido risultato delle elezioni amministrative e alla netta affermazione dei referendum popolari, su temi peraltro fortemente caratterizzati politicamente e culturalmente.
Indubbiamente, qualcosa di grosso sta succedendo, perché non solo ora si intravede davvero la fine del ciclo berlusconiano-leghista, ma soprattutto si è affacciato prepotentemente un nuovo protagonismo democratico, dal basso e giovane, come non si vedeva da tanto tempo.
Una partecipazione straordinaria, una vera e propria riappropriazione dello spazio pubblico e della politica, manifestatasi ben oltre –e forse a prescindere- i confini dei partiti politici dell’opposizione. Un movimento che si è impadronito della rete, delle piazze e di mille iniziative, ma anche un movimento fragile, perché esprime molte più domande ed aspettative che risposte. Un movimento non tanto dissimile poi, nella sua ansia di futuro e cambiamento, dagli indignati di Madrid e Atene, con la differenza che qui ed ora ha trovato degli obiettivi a positivo, come Pisapia o De Magistris e come i referendum popolari.
Insomma, è ampiamente giustificata l’ondata di ottimismo e gioia che si è liberata dopo le amministrative e i referendum, poiché siamo di fronte a una possibilità straordinaria di cambiare. Ma, com'è risaputo, vincere due battaglie, anche se importanti, non significa affatto aver vinto la guerra e sconfiggere l’avversario non significa avere pronta l’alternativa, specie in tempi di crisi ed austerity.
Anzi, le politiche dell’austerità, che postulano la salvezza delle banche e il sacrificio delle popolazioni, per ovvi motivi tendono a non gradire troppo la democrazia e la partecipazione. Lo sanno bene in Grecia, in Portogallo o in Irlanda, dove non importa chi e come votano gli elettori, tanto le politiche le decidono le banche centrali e i fondi monetari. E lo sentiamo ogni giorno al notiziario, perché basta che una privatissima agenzia di rating faccia vedere il pollice verso perché interi Stati sovrani vengano spinti verso il baratro della bancarotta.
Ma soprattutto c’è il fatto che il grado di democrazia di una nazione si misura nei luoghi di lavoro, dove ognuno e ognuna di noi, se non è disoccupato, passa buona parte della sua vita. E da questo punto di vista non stiamo andando affatto bene. Precari a parte, i quali per definizione non dispongono di diritti, gli ultimi 12 mesi sono stati segnati dall’assalto di Marchionne, al quale fondamentalmente interessa la Fiat, ma che per forza di cose ha determinato l’apertura di una questione generale.
Ma dal punto di vista che ci interessa qui, quello del vento che cambia, anche la fiera resistenza operaia a Pomigliano e Mirafiori e la coerenza della Fiom hanno aperto una questione generale, poiché la carica democratica e partecipativa è quasi subito fuoriuscita dalla fabbrica, occupando uno spazio politico e simbolico ampio e vasto, come aveva dimostrato la straordinaria manifestazione voluta dalla Fiom il 16 ottobre scorso. Anzi, osiamo affermare che le battaglie ed i movimenti messisi in moto nell’autunno scorso –gli operai, gli studenti, i comitati per i beni comuni- sono stati determinanti per innaffiare il campo che poi avrebbe fatto germogliare le primavere di Milano, Napoli e di altre città.
E una delle principali materie del contendere a Pomigliano e Mirafiori è costituita propria dalla questione democratica, cioè dalla domanda del chi decide, cosa decide e come decide. Infatti, i contratti aziendali sostitutivi del contratto nazionale aboliscono le elezioni dei delegati sindacali (Rsu) da parte degli operai –ci saranno soltanto i “delegati” nominati (Rsa) dalle segreterie di quei sindacati che hanno firmato il contratto di Marchionne-, rendono sanzionabile l’esercizio del diritto di sciopero mediante la clausola dell’esigibilità e di consultazione dei lavoratori e delle lavoratrici non si parla neanche più. Insomma, comanda il padrone, l’operaio lavora in silenzio e il “sindacalista” garantisce l’ordine.
In altre parole, un bel bavaglio per tutti e tutte è l’altra faccia della medaglia della politica dell’austerity. Una cosa scandalosa che dovrebbe suscitare la più netta delle opposizioni da parte di ogni sindacato degno di questo nome. E qualcuno quella opposizione effettivamente l’ha fatta, come la Fiom e i sindacati di base o come molti lavoratori e lavoratrici. A molti sembrava che anche la Cgil potesse resistere al richiamo della foresta, specie ora, con il vento che è cambiato, con le piazze piene e con quel nuovo entusiasmo democratico che attraversava la società. Invece no, non è andata così, anzi!
L’accordo interconfederale tra Confindustria, Cisl, Uil e Cgil, siglato il 28 giugno, rappresenta un grave passo indietro e un cedimento altamente significativo. Basta leggerlo, anche se non si conosce il sindacalese, per capire che vi hanno trovato notevole spazio tutti i principali temi che stanno a cuore a Confindustria, al Governo e a Bonanni, dall’esigibilità dei contratti (leggi: norme antisciopero) alla blindatura della rappresentanza, passando per la derogabilità del contratto nazionale, destinato a questo punto a diventare poco più di una cornice.
Se la firma della Cgil sotto questo accordo verrà confermata si apriranno tempi difficili e cupi per la democrazia e le libertà sindacali nel nostro paese e per tutte le forze sindacali ancora indipendenti da padroni e governo. Ma non basta, perché è evidente che i suoi effetti andrebbero ben oltre i confini delle aziende, assumendo una valenza generale, di negazione manifesta del vento di cambiamento e della straordinaria partecipazione civica e politica.
Insomma, questi mesi hanno indicato una via, cioè che il cambiamento si costruisce nella società e non nei palazzi, investendo sulla partecipazione libera e democratica degli uomini e delle donne. L’accordo firmato ieri ne indica un’altra, opposta e pericolosa per i lavoratori e, più in generale, per la possibilità di costruire un’alternativa non solo a Berlusconi, ma soprattutto al berlusconismo e alle politiche dell’austerity.
Luciano Muhlbauer
Questo articolo è stato pubblicato anche sul giornale on line Paneacqua.eu il giorno 30 giugno.
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo dell’Accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, siglato il 28 giugno 2011
Come preannunciato e rivendicato preventivamente dal Ministro degli Interni, il leghista Maroni (quello di “padroni a casa nostra”), il presidio e le barricate dei valsusini sono stati spazzati via militarmente, mediante la più grossa operazione di polizia dai tempi del G8 di Genova: circa 2.500 uomini delle forze dell’ordine sono stati impegnati. Ovviamente, non c’era partita, perché gli abitanti della Val di Susa e quanti e quante, solidali con loro, sono presenti sul posto sin da ieri sera, non sono un esercito, né vogliono esserlo.
Sono rimasti dunque inascoltati gli appelli che chiedevano di fermare l’intervento di forza e di aprire invece un grande confronto nazionale, come quello reso pubblico ieri e sottoscritto da diversi esponenti della società civile, tra cui anche il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, e il presidente dell’Arci, Paolo Beni.
Ora il Governo Berlusconi-Lega canterà vittoria e molta parte dell’opposizione sarà purtroppo d’accordo con loro. Ma noi no! E siamo convinti che anche tanta parte di quel popolo che in Italia ha ripreso la parola, con il voto amministrativo e con i referendum, la pensi così. Anzitutto e soprattutto, perché non si mandano gli eserciti contro le popolazioni.
In molto città si stanno organizzando mobilitazioni di solidarietà con i valusini e i no tav e di richiesta di fine immediata dell’intervento delle forze dell’ordine. A Milano l’appuntamento è alle ore 18.00 in piazza San Babila.
Il primo soggetto a lanciare l’appuntamento in San Babila è stato il Comitato No Expo, al quale si sono subito aggiunte diverse realtà di movimento e, mentre scriviamo, stanno per partire anche i comunicati di adesione al presidio di Fiom Milano e Arci Milano e siamo certi che altre adesioni seguiranno.
Invitiamo quindi tutt* quant* ad esserci alle ore 18 in San Babila, per dare un segno di solidarietà ai valsusini e per chiedere la fine immediata dell’intervento di polizia.
Luciano Muhlbauer
Capitano dei momenti in cui la statura morale e politica di chi governa il paese si rispecchia e si riassume fedelmente in un atto o in una decisione. E questo è senz’altro il caso di quanto avvenuto ieri nella riunione n. 143 del Consiglio dei Ministri, che ha pensato bene di reagire alla sempre più incalzante crisi politica nella maniera più misera ed vigliacca possibile, prendendosela con i migranti.
Ci sono diverse misure nel decreto-legge, come il ripristino della procedura di espulsione coattiva immediata (in realtà già in vigore oggi…) o l’espulsione per motivi di ordine pubblico anche di cittadini comunitari, e c’è pure l’annuncio di un accordo con il Comitato transitorio di Bengasi in tema di flussi migratori, giusto per tornare ai bei tempi di Gheddafi. Tuttavia, il provvedimento simbolo è sicuramente il prolungamento del periodo massimo di detenzione amministrativa nei Cie (ex-Cpt) per immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, da 6 a 18 mesi!
Un provvedimento infame non soltanto perché stabilisce che delle persone possano essere private della libertà personale fino a un anno e mezzo senza aver commesso o essere accusati di aver commesso un reato (perché altrimenti vai in carcere e non nel Cie), senza subire un processo e senza nemmeno vedere un giudice vero, poiché è sufficiente l’atto di convalida da parte di un giudice di pace, ma anche perché è un provvedimento assolutamente inutile ai fini che dichiara di voler perseguire, cioè facilitare ed accelerare le espulsioni di clandestini.
Infatti, a sbugiardare il Ministro Maroni c’è anzitutto il precedente del “pacchetto sicurezza” del 2009, che introdusse il reato di clandestinità (nel frattempo bocciato dall’Europa) e innalzò il periodo di detenzione nei Cie a 6 mesi, ottenendo però come unico effetto concreto la drastica riduzione del numero di espulsioni, come aveva denunciato in splendida solitudine Il Sole 24 Ore l’anno scorso (vedi il nostro articolo Cie (ex-Cpt) via Corelli: i dati dei giudici di pace sbugiardano Lega e De Corato).
Ma poi c’è anche la più elementare matematica a contraddire la tesi leghista, visto che è palese che l’allungamento del periodo medio di permanenza dei trattenuti nelle strutture tenderà a ridurre l’offerta complessiva di posti liberi nel sistema Cie in un dato intervallo di tempo. A meno che, ovviamente, il Governo non voglia costruire nuovi Cie in giro per l’Italia, ma di tutto questo attualmente non c’è traccia.
Insomma, quella di ieri è soltanto una triste e misera farsa, uno spettacolo vigliacco allestito ad uso e consumo di una Lega uscita malconcia dalla prova elettorale, ma che non inciderà minimamente sui problemi del paese e nemmeno sulle dinamiche migratorie, ma che in cambio arreca un’ulteriore offesa allo stato di diritto, ai principi costituzionali e ai diritti umani.
Berlusconi, Bossi e La Russa pensano di salvare così il loro potere e i loro affari, riproponendo cioè la collaudata macchina della paura e del rancore. C’è da augurarsi che gli italiani e le italiane non ci ricaschino, così come non ci sono ricascati alle ultime amministrative, ma che, anzi, rimandino rumorosamente al mittente l’infamata di ieri.
Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo completo dello schema di decreto-legge recante “Disposizioni urgenti per la completa attuazione della Direttiva 2004/38/CE e per il recepimento della Direttiva 2008/115/CE”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 giugno 2011
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