Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
di lucmu (del 26/07/2012, in Lavoro, linkato 1120 volte)
La notizia di un possibile e imminente intervento di polizia contro il presidio operaio alla Jabil di Cassina de’ Pecchi (MI) è arrivata come una doccia fredda ed ha decisamente il sapore della beffa. Già, perché sono passati soltanto pochi giorni dall’incontro sulla vertenza Jabil del 24 luglio scorso, che ha visto la partecipazione del Ministero dello Sviluppo Economico, di Invitalia, della direzione di Nokia Siemens Networks, proprietaria dell’area, e dei rappresentanti dei lavoratori e che, soprattutto, ha prodotto l’impegno concreto, da parte governativa, di presentare entro sei mesi un progetto di sviluppo produttivo del sito, capace di assorbire i 325 operai ed operaie licenziati in tronco dalla Jabil il dicembre scorso.
Ma come, all’inizio della settimana le istituzioni si impegnano per l’occupazione e alla fine della stessa settimana sarebbero invece disponibili a rispondere positivamente alla richiesta della Jabil, che chiede di cacciare con la forza gli operai e di entrare nel sito produttivo al fine di smantellarlo? Sarebbe davvero il colmo!
Ovviamente, chi di dovere ha già richiesto a Prefettura e Questura di non dare seguito alle richieste della Jabil, che si riconferma assolutamente indisponibile a discutere con i lavoratori e le organizzazioni sindacali. Ma allo stato non sono pervenuti segnali tranquillizzanti e pertanto dobbiamo ritenere possibile un intervento di forza a breve. Anzi, a brevissimo, perché a questo punto ogni giorno è buono.
Il presidio degli operai della Jabil era iniziato un anno fa e si è rafforzato nelle sue ragioni strada facendo, specie con il licenziamento di massa di dicembre scorso. Quella resistenza, quella lotta e quel presidio sono maledettamente importanti, perché soltanto grazie ad essi si è arrivati all’incontro e agli impegni da parte del Governo di lunedì scorso. Se l’anno scorso gli operai e le operaie si fossero rassegnati e se avessero permesso lo smantellamento dello stabilimento, allora oggi non avremmo di fronte quella piccola, ma preziosa possibilità per il futuro, ma soltanto un immenso e triste deserto. Per questo, soprattutto per questo, c’è bisogno che il presidio degli operai ed i macchinari rimangano lì dove sono.
In altre parole, ora tocca noi fare qualcosa, perché occorre dimostrare che gli operai della Jabil non sono soli, che c’è solidarietà e complicità con loro, che la loro lotta per il lavoro non riguarda soltanto loro, ma tutti e tutte.
Per questo rilancio l’invito che viene dai lavoratori del presidio della Jabil: andare al presidio, stare lì e portare solidarietà, a partire da questa notte o non più tardi delle 5.00-5.30 del mattino.
Il presidio Jabil si trova a Cassina de’ Pecchi (MI), Strada Padana Superiore, al km 158.
Luciano Muhlbauer
E infine l’avviso di garanzia a Roberto Formigoni è arrivato, per corruzione con l’aggravante internazionale. Ieri, 25 luglio, la Procura di Milano ha dunque formalizzato quello che tutti già sapevano e invitato il Presidente della Regione Lombardia a presentarsi davanti i magistrati. Ma il problema non è solo giudiziario, anzi, è soprattutto politico.
Di seguito il testo dell’intervista sull’argomento, fattami dal quotidiano “il Manifesto” e pubblicata sul giornale in edicola oggi.
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Intervista / LUCIANO MUHLBAUER, ESPONENTE DEL PRC MILANO
«Il centrosinistra deve agire subito, come se si votasse domani mattina»
A cura di Luca Fazio – Milano
Le opposizioni chiedono elezioni subito. Non l'abbiamo già sentito troppe volte?
In realtà è persino noioso ripetere oggi la richiesta di dimissioni di Roberto Formigoni. Si tratta della stessa richiesta reiterata tutte le volte che diverse indagini lo [il suo entourage, NdA] hanno coinvolto con accuse molto pesanti, per fatti di corruzione e anche per presunta contiguità con la criminalità organizzata. Per non parlare dei suoi ex assessori indagati per fatti accaduti nella legislatura 2005-2010.
L'avviso di garanzia cambia le carte in tavola?
L'avviso di per sé non rappresenta certo una sorpresa, lo sapevano tutti che era indagato, il Corriere della Sera lo aveva anche sbattuto in prima pagina. L'unico a negare con forza era lui, Formigoni, ma lo faceva solo per portarsi avanti con l'autodifesa e togliere forza all'effetto sorpresa. Da settimane si discute di questa indagine e lui si è sempre difeso alzando il tiro, è arrivato a dire che si tratta di un tentato golpe giudiziario. Tutto è già stato detto e non credo che Formigoni cambi idea e strategia in proposito. Direi che oggi l'unica curiosità sta nel capire come si muoverà la Lega, visto che sono dieci anni che i leghisti governano insieme a lui al Pirellone.
Difficile che la Lega decida di sfidare le urne correndo il rischio di perdere la regione più importante.
La Lega è sempre stata attaccatissima alle sue poltrone e oggi lo è ancora di più a causa della gravissima crisi di consenso che sta vivendo, ma è anche vero che noi abbiamo il dovere di incalzarla su un argomento così delicato visto che proprio blaterando di legalità e scope per fare pulizia Roberto Maroni sta cercando di ribaltare la situazione. Ma il vero problema, lo sappiamo, è un altro: sono le opposizioni.
Appunto. Al di là dell'atto giudiziario, il sistema di malaffare è sotto gli occhi di tutti eppure non sembra che ci sia una alternativa politica qui in Lombardia.
Questa è la stessa domanda inevasa di sempre. Cosa fa la sinistra, cosa fa il centrosinistra? In questi ultimi mesi è apparso evidente che l'unica vera opposizione a Formigoni è la Procura della Repubblica di Milano, la quale, intendiamoci, fa solo il suo dovere. Ma dobbiamo avere ben chiaro che anche la migliore procura non potrà certo risolvere il nodo del collasso del sistema politico formigoniano. Questa impasse è un dramma per la Lombardia in un periodo di forte crisi come questo.
Formigoni non di dimette. Allora come se ne esce?
Il centrosinistra deve avviare immediatamente un percorso che porti alla definizione di un'alternativa di governo, con primarie vere e inclusive che allarghino la partecipazione ai tutti i movimenti e alle associazioni lombarde. Solo con un dibattito aperto possiamo arrivare ad un candidato credibile.
Siamo all'anno zero o ci sono già rumors su chi potrebbe sfidare la destra in Lombardia?
Nomi ne circolano anche troppi, ma non è il caso di dargli credito, il punto è che fino ad oggi le opposizioni non hanno voluto giocare fino in fondo questa partita che è tutta politica. Non è solo una questione di nomi.
Deboli o incapaci?
Diciamo che diciassette anni di formigonismo hanno fatto breccia anche nel campo delle opposizioni. Non mi riferisco solo al caso di Filippo Penati, il potente uomo che del Pd del nord a sua volta indagato con l'accusa di corruzione, parlo di una sudditanza di tipo culturale che riguarda anche il modo di gestire il potere. Il nodo irrisolto è cosa dovrebbe esserci dopo Formigoni. Cambiamo solo la guida del Pirellone o cerchiamo un'alternativa al cosiddetto modello lombardo? E come lo ridefiniamo il rapporto tra pubblico e privato? Questo nodo non è stato sciolto dalla forza politica più consistente, il Pd. L'unico modo per poterlo fare è consegnare ai cittadini un processo aperto e partecipato per costruire un'alternativa.
Un conto è dirlo...
Non c'è tempo da perdere, bisognerebbe cominciare questo processo di definizione di un'alternativa a partire da settembre, il centrosinistra dovrebbe lavorare come se le elezioni fossero domani mattina. Sfido chiunque a sostenere che in questa situazione sia possibile trascinarsi fino al 2015. Siamo già nell'era dopo Formigoni, ma più lenta sarà l'agonia più gravi saranno i danni per una regione già colpita dai tagli del welfare, dalla disoccupazione e della crisi delle attività produttive.
E l'idea che il Celeste se ne vada in parlamento approfittando delle prossime elezioni del 2013?
In questo momento Formigoni, come quasi tutto il ceto politico del Pdl, è ostaggio della crisi del centrodestra, e in assenza di sbocchi alternativi farà di tutto per aggrapparsi alla poltrona. Proprio per questo il suo inarrestabile declino rischia di essere tutt'altro che breve. Ma mettiamoci in testa che la magistratura non può bastare.
da il Manifesto del 26 luglio 2012
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato sul giornale on line MilanoX il 24 luglio 2012
Il regno di Formigoni traballa, nel suo entourage è ormai uno stillicidio di guai giudiziari e l’immagine del Presidente al diciassettesimo anno consecutivo di governo regionale è decisamente ammaccata. Ma egli non è uomo dalla facile resa, anche perché gli interessi in gioco sono tanti, tantissimi, e così è passato al contrattacco, gridando persino al tentato golpe.
Tutto questo, però, è ampiamente noto e di dominio pubblico. Quello che invece si ignora, a meno di non essere dipendenti regionali, è che la controffensiva formigoniana ha anche un risvolto tutto interno alla macchina amministrativa. Già, perché i lavoratori e funzionari regionali, amministrativi e tecnici, sono un po’ stufi di essere associati con quell’allegra compagnia che ha guadagnato in tempo record le vette della cronaca giudiziaria. In altre parole, negli uffici il malumore serpeggia e non solo tra quanti e quante da tempo auspicano un cambio. E così, ai piani alti di Palazzo Lombardia avranno pensato che bisognava fare qualcosa per rendersi più simpatici.
Il risultato, tuttavia, non ci pare per nulla ottimo e si colloca da qualche parte tra il paternalistico, il ridicolo e il degradante, a riprova del fatto che i regimi in declino smarriscono anche la fantasia. Insomma, non hanno trovato nulla di meglio che rievocare scene che sembrano ispirate direttamente al mitico Fantozzi, con tanto di Mega Direttore Galattico che incontra i dipendenti, previa prenotazione e in gruppi non troppo numerosi, in un “momento informale” davanti a un aperitivo o un caffè, a seconda della posizione occupata nella gerarchia. Ebbene sì, perché c’è anche la prima e la seconda classe: se sei un dipendente sprovvisto di “posizione organizzativa”, allora ti tocca solo il caffè, altrimenti ti verrà concesso un aperitivo.
L’iniziativa si chiama “A tu per tu con il Segretario Generale” e viene ampiamente pubblicizzata sulla home page del portale intranet –su quella internet, accessibile a tutti i cittadini, non se ne trova ovviamente traccia- e l’adesione è volontaria, sebbene fortemente consigliata. L’obiettivo dichiarato di questi incontri informali, ma formalmente sponsorizzati, è il seguente: “Sarà l'occasione per valorizzare l'esperienza di ciascuno all'interno di Regione Lombardia e raccogliere spunti e riflessioni utili ad impostare al meglio il nostro lavoro e superare le criticità”. Appunto, le “criticità”…
Ma per capire fino in fondo il senso dell’iniziativa –e le evidenti “criticità” vissute dal formigonismo- bisogna ricordare chi è il Segretario Generale dell’Amministrazione regionale. Già, perché si tratta di Nicolamaria Sanese, figura chiave del potere formigoniano sin dal 1995 e più influente della maggior parte degli assessori. Sanese, Deputato DC vicino a Giulio Andreotti dal 1976 al 1994 e quattro volte Sottosegretario di Stato tra il 1983 e il 1989, controlla da sempre per conto di Roberto Formigoni la macchina regionale e in particolare i dirigenti, che rispondono prima a lui e solo dopo agli assessori di riferimento. Un uomo potentissimo, che non ama apparire e il cui nome viene pronunciato con cautela negli uffici regionali, ma che, considerate le circostanze, ha deciso di scendere in campo.
Ma com’è stata presa dai lavoratori e dalle lavoratrici della Regione la discesa dai piani alti del Mega Direttore Galattico? I numeri esatti delle prenotazioni per il caffè o l’aperitivo non si conoscono, ma quello che si sa è che un primo incontro si è già svolto, mentre il secondo (“Ancora a tu per tu con il Segretario Generale”) è in programma per il 2 agosto prossimo. Allo stato, stando alle informazioni su intranet, ci sono ancora posti liberi. Infatti, sui 40 posti per l’aperitivo sono disponibili ancora 25 e la stessa cosa vale per i caffè.
Non abbiamo ovviamente dubbi che alla fine i posti si riempiranno, perché su 2.800 dipendenti regionali ci sarà pure chi la pensa come Cl –e dopo 17 anni di governo consecutivo sarebbe alquanto strano il contrario-, il conformismo è sempre in agguato e, poi, in tempi di spending review è meglio non rischiare, ma certamente non si può parlare di un successo di pubblico.
Ma forse più dei numeri parla l’iniziativa in sé, che meglio di tante parole evidenzia lo stato delle cose, la confusione tra pubblico e privato e l’assoluta irriformabilità del formigonismo. Non posso dunque che augurarmi che i lavoratori e le lavoratrici di Regione Lombardia continuino a tenere duro, nonostante ci sia chi, Celesti e Mega Direttori Galattici, pensano che l’anima valga soltanto un caffè o al massimo un aperitivo.
Articolo di Luciano Muhlbauer pubblicato su il Manifesto del 18 luglio 2012
Il 20 luglio è vicino ed è ormai tempo di bilanci. Undici anni dopo il luglio genovese, con un processo mai celebrato, quello per l'omicidio di Carlo Giuliani, e con tre sentenze di Cassazione alle spalle, è giunto inevitabilmente il momento di fare i conti con la verità ufficiale che lo Stato ci consegna e chiarirci se la riteniamo compatibile con quanto effettivamente avvenuto nel 2001.
Si tratta di una questione decisiva, perché da essa dipende se possiamo parlare di giustizia e perché, da che mondo è mondo, il racconto e la memoria dei fatti politicamente e socialmente rilevanti costituisce per il potere un campo di battaglia irrinunciabile. E noi, qui in Italia, terra di stragi impunite, ma che tutti sanno essere di Stato, dovremmo saperlo meglio di chiunque altro.
Ebbene, il racconto pubblico che ora va per la maggiore propone una sorta di pareggio, basato sulla tesi che da ambedue le parti, forze dell'ordine e manifestanti, ci fossero delle mele marce e degli errori, ma che questi costituissero comunque delle eccezioni. Insomma, ora che le sentenze definitive hanno individuato i cattivi, cioè i poliziotti erranti della Diaz ed i black block devastatori, si può chiudere il capitolo Genova e passare oltre.
Peccato però che in questa storia i conti non tornino per niente. Primo, l'omicidio di Carlo dove lo mettiamo? Secondo, avete mai visto un “pareggio” dove chi ha spaccato degli oggetti finisce in carcere per moltissimi anni, mentre chi ha spaccato teste e ossa il carcere non lo vede nemmeno con il binocolo? Terzo, cosa facciamo con i grandi assenti da questo racconto, cioè con i livelli massimi, i capi di polizia e carabinieri ed i Ministri, dai tempi di Genova fino ad arrivare ai giorni nostri, che hanno deciso, coperto, omesso, ostacolato, insabbiato e sistematicamente premiato e promosso i dirigenti di polizia coinvolti nella repressione, fino all'atto finale della nomina di Gianni De Gennaro a sottosegretario di Stato?
No, la verità ufficiale non solo non racconta la storia di quei giorni, ma la sua palese asimmetria offende il buon senso. Non avvicina la giustizia, ma la allontana, e non rappresenta certamente un'occasione per chiudere una ferita, ma piuttosto un inganno. Siamo all'autoassoluzione dello Stato e alla riduzione delle giornate di Genova a una storia di disordini e casini sfuggita di mano un po' a tutti.
Genova è stato ben altro. Lo sa chi c'era e chi non c’era. E, soprattutto, lo sa benissimo chi allora sospese l’ordinamento democratico ed organizzò la repressione contro il movimento antiliberista, nell'intento di stroncarlo sul nascere. L'operazione Diaz di undici anni fa doveva coprire tutto ciò, legittimando ex post la bestiale repressione, e da quel punto di vista fu un fallimento. Oggi c’è il teorema che sostiene che a Genova ci fu una situazione di “devastazione e saccheggio” e che quindi gli “errori” delle forze dell’ordine vanno letti in quel contesto. E quel che è peggio -e moralmente ripugnante- è che sull’altare di quel teorema sono state sacrificate dieci persone.
Sarebbe però un errore grossolano pensare che qui si tratti soltanto di mettere in sicurezza gruppi di potere, cricche e uomini politici ancora in vista. Certo, si tratta anche di questo, ma c’è dell’altro, perché riscrivere il passato serve sempre per preparare il futuro. Non è, infatti, un caso che alle parole del Ministro Cancellieri e alle scuse del Capo della Polizia Manganelli non sia seguito alcun fatto degno di nota, mentre la conferma in sede di Cassazione del reato di “devastazione e saccheggio” è densa di concretissime implicazioni presenti e future.
Negare la politicità di Genova, oscurare le centinaia di migliaia di persone che allora scesero in piazza e ridurre il tutto a fatto di ordine pubblico è pienamente coerente con quello sta succedendo ora, in tempi di crisi e governi tecnici, dalla Val di Susa alle cariche contro gli operai delle cooperative di Basiano. Anche per questo, non è possibile scendere a compromessi con una verità ufficiale che non è compatibile con quello che avvenne undici anni fa, che non fa giustizia e che getta più di un’ombra sul futuro.
Ieri il Senato ha approvato la ratifica del fiscal compact, ma oggi faticherete terribilmente a trovare la notizia su qualche organo d’informazione. Anzi, c’è silenzio totale, quasi fossimo tornati ai tempi bui della diplomazia segreta. Invece è peggio, perché di segreto non c’era proprio nulla, visto che il Senato ha agito alla luce del sole e ha regolarmente votato ed approvato, peraltro a stragrande maggioranza (presenti: 266; votanti 261; favorevoli: 216; contrari: 24; astenuti: 21), ma poi nessuno ha voluto raccontarlo ai diretti interessati, cioè ai cittadini e alle cittadine.
Senatori, capi e colonnelli dei partiti di maggioranza, opinion makers, giornalisti eccetera, solitamente loquaci all’inverosimile, questa volta hanno scelto in massa di parlare d’altro, come se si trattasse di un fatto irrilevante o di un banale adempimento burocratico e non di un vero proprio commissariamento del futuro, che imporrà all’Italia delle manovre annue dell’entità di 40-50 miliardi di euro, cioè praticamente di doppio della spending review.
Non a caso il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, come si chiama per esteso il fiscal compact, negli altri paesi europei aveva suscitato intensi dibattiti pubbliche, in Francia era entrato con forza nella recente campagna elettorale per le presidenziali e in Irlanda hanno fatto persino un referendum. Qui da noi, invece, la guerra di Mario Monti sembra avere il potere di anestetizzare persino un minimo di informazione decente.
Ebbene, non voglio farla più lunga. Questo vuole essere semplicemente un atto di insubordinazione alla consegna del silenzio e vi invito a fare altrettanto, perché tra una settimana o due voterà anche alla Camera dei Deputati. Poi, dovremo anche decidere che fare rispetto al fiscal compact, ma intanto non collaboriamo con il silenzio.
Cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il DDL di ratifica ed esecuzione del trattato fiscal compact e la legge di autorizzazione alla ratifica approvata il 12 luglio 2012.
Luciano Muhlbauer
La chiamano spending review e magari, en passant, taglierà pure qualche spreco, ma in realtà non è che un altro tassello nel processo di smantellamento dell’assetto sociale, economico e politico del secondo dopoguerra. Già, perché di questo si tratta, in Italia e in tutta Europa, di fare a pezzi il welfare, i servizi pubblici, le regole e i diritti nel mondo del lavoro, per liberare risorse e denaro vero da redistribuire verso i mercati finanziari, drogati da attività finanziarie derivate e fuori bilancio e dominati da una speculazione sostanzialmente libera da vincoli o regole.
Non c’è giorno che l’Europa, la Bce, il Fondo Monetario, il Governo e la sua grande coalizione non ci spieghino che bisogna fare così e senza discutere troppo, perché altrimenti lo spread vola e finiamo come la Grecia. Qualche volta capita pure che ci raccontino delle balle clamorose, come nel caso della truffa ai danni degli esodati oppure in quello della nuova assicurazione sociale (Aspi), contenuta nella riforma del mercato del lavoro e presentata da alcuni come un’estensione delle tutele, salvo poi chiedere il rinvio della sua entrata in vigore al 2014, perché “i nuovi ammortizzatori forniscono una tutela inferiore rispetto ai vecchi” (parole di Cesare Damiano, uno dei relatori della riforma Fornero, oggi su il Manifesto).
Insomma, la stessa storia che ora si ripete con la spending review, esibita come un’operazione di semplice razionalizzazione della spesa. Una mistificazione bella e buona, come peraltro l’aggiunta “con invarianza dei servizi ai cittadini” al titolo del decreto legge, poiché sarebbe un autentico miracolo mantenere la qualità e la quantità dei servizi in presenza di tagli così drastici e in larga parte lineari ed orizzontali.
Infatti, le Regioni ed i Comuni, che non hanno ancora finito di assorbire i tagli delle manovre precedenti, subiranno un ulteriore taglio dei trasferimenti di 7,5 mld di euro tra il 2012 e il 2013, con conseguenze inevitabili sui servizi, a partire dal trasporto pubblico locale, già ora gravemente deficitario. Saranno tagliati ancora una volta i fondi per la ricerca, mentre gli atenei potranno aumentare le tasse universitarie. Pesantissimo è l’intervento sulla Sanità, con la riduzione forzata di 18mila posti letto, per raggiungere il nuovo standard di 3,7 posti letto per ogni 1000 abitanti. Per capire meglio cosa significa questo, basti ricordare che attualmente siamo a 4,1 come media nazionale e che ad oggi soltanto quattro Regioni (Basilicata, Campania, Valle d’Aosta e Umbria) hanno un rapporto inferiore a 3,7. In altre parole, se oggi le liste d’attesa per un ricovero sono lunghe, domani si allungheranno ancora di più.
Un discorso a parte va fatto sul pubblico impiego, dove l’intervento è dirompente, soprattutto in prospettiva, e si cerca di capitalizzare anni di propaganda contro i lavoratori pubblici, presentati in toto come fannulloni e privilegiati, magari pure in una di quelle versioni caricaturali che ignorano deliberatamente l’odierna realtà lavorativa per insistere, invece, su un racconto immaginario ambientato in un film in bianco e nero. Insomma, il solito gioco, giovani contro vecchi, precari contro fissi, italiani contro immigrati, dipendenti privati contro dipendenti pubblici e alla fine tutti quanti cornuti e mazziati.
In primo luogo, i dipendenti pubblici subiranno una riduzione dello stipendio. E non solo per effetto della proroga del blocco degli stipendi, in atto già da anni, ma anche a causa della norma che prevede che i buoni pasto (l’indennità sostitutiva di mensa), sempre più spesso usati per fare la spesa, non possano superare il valore di 7 euro al giorno. E questo significa che laddove è superiore, per esempio 10 euro, questo vada ridotto d’ufficio a partire da ottobre.
In secondo luogo, dopo la manomissione dell’articolo 18, che peraltro vale anche per i dipendenti pubblici, arrivano gli esuberi e la mobilità nel pubblico impiego, con la riduzione del 10% del personale (esclusi alcuni comparti, come scuola o sicurezza), ai quali va aggiunta la riduzione del 20% dei dirigenti. Secondo la relazione tecnica del decreto legge stiamo parlando di 24mila esuberi tra il personale (escluse le Regioni), di cui soltanto 8mila avrebbero i requisiti per il prepensionamento. Per gli altri c’è la mobilità, cioè l’applicazione di quel famigerato art. 16 della legge stabilità (L. 183/2011) del Governo Berlusconi-Lega, che introduce la mobilità per i dipendenti pubblici: “collocamento in disponibilità” per un massimo di 24 mesi, all’80% dello stipendio base, che poi significa il 60% circa dello stipendio effettivamente percepito, e se in quel periodo di tempo non c’è ricollocazione scatta il licenziamento.
Forse il numero di 24mila andrà ridimensionato, perché il decreto legge parla di dotazioni organiche, che spesso volte non sono più coperte da tempo, a causa dei ripetuti blocchi delle assunzioni degli ultimi anni, ma il vero fatto dirompente sta nell’apertura di una diga, cioè dell’applicazione della mobilità per licenziamenti collettivi anche nella pubblica amministrazione. Per esempio, cosa succederà con i dipendenti delle Province nella misura in cui queste verranno smantellate o accorpate?
Ma fermiamoci qui con la spending review. Vi invito a leggere il testo del decreto legge e la relativa relazione tecnica (vedi allegato) e a seguire gli approfondimenti tecnici proposti da numerosi siti.
Un’ultima cosa, però, ma non certo meno importante, anzi. Come avevamo detto, ci raccontano che bisogna fare così, che non c’è alternativa, ma poi mai nessuno si degna di dire dove intende andare a parare, cioè cosa verrà dopo, che società uscirà da questa devastazione del vecchio ordine.
Il dubbio legittimo è che non lo sappiano bene nemmeno loro e che siano sorretti anzitutto dall’ideologia, da una fede cieca e granitica nei dogmi del neoliberismo, esattamente come lo furono quei “tecnici” del Fondo Monetario che un decennio fa spinsero l’Argentina alla bancarotta o quelli che ancora prima enunciarono le ricette della globalizzazione liberista e della liberalizzazione dei mercati finanziari. Cioè, quelle ricette che prima portarono all’arricchimento senza precedenti di una piccolo minoranza e, infine, all’attuale devastante crisi di sistema.
E rieccoci al punto di sempre. La manovra denominata “revisione della spesa” è sbagliata e dannosa e bisogna costruire l’opposizione e il contrasto, ma temo che rischiamo di rivivere un film già visto. Prima tutti gridano allo sciopero, col tempo si abbassa un po’ la voce e alla fine non succede più niente, magari con il contorno di qualche balla clamorosa. Insomma, non c’è opposizione reale possibile a questi provvedimenti, senza una rottura con l’impianto ideologico e strategico che li genera e senza la costruzione di un’alternativa. Questo mi pare il tema di fondo, che è poi quello della sinistra in questo paese…
di Luciano Muhlbauer
cliccando sull’icona qui sotto puoi scaricare il testo della spending review, cioè il decreto legge n. 95 del 6 luglio 2012 (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”), la Relazione tecnica che l’accompagna e il testo dell’art. 16 della legge di stabilità (L. 183/2011)
di lucmu (del 05/07/2012, in Lavoro, linkato 1330 volte)
Nokia Siemens si appresta ad abbandonare l’Italia. Questo è il messaggio inequivocabile che arriva dall’annuncio di 445 licenziamenti contro i quali i lavoratori della multinazionale stanno scioperando ormai per il secondo giorno consecutivo.
E così, Milano e la Lombardia rischiano di perdere un altro pezzo di telecomunicazioni, con relative professionalità ed occupazione, senza che le istituzioni nazionali e regionali mostrino qualche segno di reazione che vada oltre alle dichiarazioni di rito, a convocazioni di tavoli e, forse, agli ammortizzatori sociali.
Oggi c’è una crisi brutale su scala internazionale, certo, ma il processo di desertificazione produttiva della nostra regione, che comprende in maniera sempre più virulenta anche i settori avanzati, come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, era iniziato anni fa. Agile-Eutelia, Itatel, Alcatel, Jabil, Sirti eccetera, la lista è lunga. E ora, appunto, sembra che anche la vicenda Nokia Siemens Networks arrivi al suo epilogo.
Nokia Siemens è una multinazionale che non aveva mai dato molto peso alla propria parola, né mostrato troppo rispetto per gli accordi, anche se firmati ai massimi livelli. Basterebbe, a tal proposito, ricordare l’intesa con il Ministero del 2007, quando il gruppo si impegnò a mantenere tutti i siti produttivi italiani. Ebbene, qualche anno più tardi chiuse lo stabilimento di Cinisello Balsamo e alla fine del 2011 la Jabil, ramo d'azienda di Nokia Siemens ceduto proprio nel 2007, chiuse il sito di Cassina de’ Pecchi, licenziando 325 lavoratori, eccetera eccetera.
Ma se la multinazionale ha potuto comportarsi in questa maniera, questo era dovuto anche all’atteggiamento remissivo di Governo e Regione, che non solo non hanno mai alzato seriamente la voce, ma nemmeno mai definito un straccio di politica industriale che tentasse di contrastare o arginare la desertificazione produttiva.
Se oggi, ancora una volta, si assisterà passivamente ai 445 licenziamenti di Nokia Siemens, occupandosi se va bene degli ammortizzatori sociali, domani anche quello che rimane sparirà E qui non si tratta di fare gli uccelli del malaugurio, ma semplicemente di fare due conti: il gruppo ha 1104 dipendenti in Italia, di cui quasi tre quarti a Cassina de’ Pecchi, e l’attuale procedura di mobilità, oltre a prevedere la chiusura delle sedi di Palermo e Catania, concentra 367 esuberi a Cassina, cioè lo stabilimento principale. Qualcuno può seriamente pensare che una Cassina dimezzata e senza piano industriale possa promettere un futuro?
Da parte nostra, esprimiamo la massima solidarietà ai lavoratori e alla lavoratrici di Nokia Siemens e sosteniamo la loro mobilitazione, che oggi assume per il nostro territorio un'indubbia valenza generale.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Nello scorso aprile il Collettivo Lambretta aveva occupato le “villette” di piazza Ferravilla (Milano), in stato di abbandono e degrado da ormai lunghi anni. L’Aler, proprietaria degli immobili, aveva preferito lasciarli marcire, piuttosto che ristrutturarli e rimetterli a disposizione dei tanti cittadini in attesa di una casa popolare. Le villette si erano pure trasformate in un luogo di spaccio, ma anche questo fatto non aveva impressionato l’Aler di Milano, sebbene la sua sede centrale si trovasse a soli 200 metri.
Non c’è dunque da meravigliarsi che questa occupazione non abbia provocato scandalo nel quartiere, suscitando anzi curiosità e momenti di partecipazione. Già, perché i giovani del Lambretta, perlopiù studenti e lavoratori precari, hanno ripulito le villette e hanno iniziato a riempirle di attività, aprendole da subito al quartiere. Insomma, tutto sembrava andare per il meglio.
Ma poi, settimana scorsa, è arrivata all’improvviso la notizia che sarebbe imminente lo sgombero delle villette. “Strano”, hanno pensato in molti, visti i tanti anni di menefreghismo da parte dell’Aler. Vuoi che un gruppo di giovani che restituisce le villette al quartiere susciti più preoccupazione di una banda di spacciatori?
Tante domande, non solo da parte degli occupanti, ma anche dei residenti. Infatti, all’Aler non era mai passato per la testa di confrontarsi con il quartiere o di esplicitare cosa intendeva fare con quegli immobili, che fanno pur sempre parte dell’edilizia pubblica. Nemmeno il Consiglio di Zona 3 era stato ritenuto degno di un’interlocuzione.
E così, per scoprire cosa avesse in mente l’Aler, c’è stato bisogno di una piccola ricerca. La sostanza è questa: nel quadro dei programmi di vendita ai privati di una quota di edilizia residenziale pubblica, fortemente voluta da Regione Lombardia, è stata disposta anche un’asta pubblica per la vendita in blocco delle 9 villette della zona del Sarto, comprese quelle di piazza Ferravilla. La gestione dell’asta è stata affidata Infrastrutture Lombarde S.p.A., una società controllata da Regione Lombardia, che risponde direttamente al Presidente della Regione e che ha tra le sue funzioni anche quella della gestione e della valorizzazione delle proprietà regionali. Ebbene, per farla breve, l’asta pubblica, dopo due rinvii, si è tenuta il 22 maggio scorso. E qui si fermano le nostre informazioni, perché qui si fermano gli atti pubblici che si possono rintracciare.
Quindi, vediamo quello che sappiamo. Anzitutto, il testo dell’Avviso di asta pubblica per la vendita di beni immobili di proprietà di ALER del 2 dicembre 2011 ci informa che ci sono dei vincoli di carattere architettonico ed edilizio. Cioè, i lavori di ristrutturazione non potranno portare ad ampliamenti ed elevazioni degli edifici. In secondo luogo, non ci sono invece vincoli di carattere sociale, poiché il complesso è da considerarsi “edilizia residenziale libera”. Cioè, puoi farci anche degli appartamenti di lusso. Infine, interventi edilizi di qualsiasi tipo non sono imminenti, poiché l’eventuale vincitore dell’asta del 22 maggio avrebbe soltanto un “aggiudicazione provvisoria” e quella definitiva non avverrebbe prima di “un periodo di tempo non inferiore a 150 giorni successivi”. Cioè, contando anche altri tempi burocratici necessari per perfezionare la vendita, stiamo parlando, nella migliore delle ipotesi, del prossimo Natale.
Insomma, gli occupanti delle villette non rappresentano un fastidio per il quartiere, anzi, e non costituiscono un problema di ordine pubblico, hanno sempre ribadito che sono aperti al dialogo e, infine, non c’è alcuna impresa edile che sta bussando alle porte. E quindi, rifacciamo la nostra domanda: come mai tutta questa improvvisa pressione sulla Questura da parte degli enti regionali per sgomberare immeditatamente il Lambretta?
Una risposta ce l’avrei. Cioè, quello che dà fastidio è che qualcuno ha fatto vedere che il degrado non è una scelta obbligata e che si può coinvolgere il quartiere in un ragionamento sull’uso degli spazi. Già, esattamente quello che gli enti regionali non hanno mai voluto fare, tant’è vero che nessuno in zona sapeva di questa vendita e che ancora oggi nessuno sa cosa accadrà nel futuro, né se qualcuno si degnerà di confrontarsi con i residenti.
Quindi, penso che oggi bisogna difendere il Lambretta e la sua esperienza e fermare lo sgombero, che peraltro non farebbe altro che riconsegnare le villette a quello che c’era prima. Non c’è alcuna fretta, appunto, non ci sono lavori di ristrutturazioni in arrivo, ma in cambio c’è un grande bisogno di costruire da subito un dialogo nel quartiere sul futuro di quell’area.
Ma per fermare lo sgombero e conquistare il dialogo occorre costruire la necessaria pressione dal basso. E la prima cosa da fare, peraltro semplice, è firmare l’appello per il Lambretta che in poco tempo ha già raccolto tantissime firme.
Luciano Muhlbauer
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APPELLO AL QUARTIERE E ALLA CITTADINANZA
Lo scorso aprile un gruppo di giovani del Collettivo Lambretta ha restituito alla città quattro villette dell’Aler abbandonate in stato di degrado da diversi anni.
Fino a quel momento alla mercé di spacciatori, lo spazio di via Apollodoro si è trasformato grazie all’impegno di tutti in un luogo di aggregazione, di condivisione, di progettazione per il quartiere.
Sono nate una palestra popolare, aule studio per giovani studenti, case per lavoratori precari, una redazione, una falegnameria, orti per l’autoproduzione, laboratori costruiti in collaborazione con associazioni della città. Molto altro è pronto a decollare.
Abbiamo raccolto l’appoggio e l’entusiasmo dei nostri vicini di casa, dell’Associazione Fausto e Iaio, di alcuni consiglieri di Zona, del Comitato Milano per Pisapia, dei negozianti del quartiere, di tanti cittadini disposti a mettere in gioco le proprie energie per far crescere un progetto collettivo, utile e condiviso.
In poco tempo questo luogo è diventato un punto di riferimento dove hanno trovato spazio il Gruppo di Acquisto Solidale della zona, corsi culturali, di autoproduzione e molto altro.
Oggi questo percorso rischia di essere bruscamente interrotto perché il Lambretta è sotto sgombero.
È il momento che ci aiutiate a far capire a tutti il valore del nostro progetto.
Il Lambretta siamo tutti noi!
Per la tutela dei beni comuni, per difendere ciò che è nostro, per portare avanti questo percorso con il quartiere e la città tutta, firma a sostegno del Lambretta!
FIRME
Massimo Carlotto (scrittore)
Pino Cacucci (scrittore)
Maria Iannucci (Associazione familiari e amici di fausto e Iaio)
Rosa Piro – Associazione Dax
Ilaria Cucchi
Emanuele Patti (presidente di Arci Milano)
Luciano Muhlbauer, Prc Milano (già consigliere regionale Prc-Fds)
Roberto Giudici (Fiom Milano)
Davide Steccanella (avvocato)
Vittorio Agnoletto
Zerocalcare (fumettista)
Gionata Gesi Ozmo
Iacopo Ceccarelli (Urban artist)
GGT (artista underground)
Ivan il poeta
Daniele Biacchessi (Giornalista, scrittore, autore e interprete di teatro civile – Associazione familiari e amici di Fausto e Iaio – Associazione Ponti di memoria)
Marco Philopat (editore – scrittore)
Renato Sarti (regista tetrale)
Punkreas
Bonnot – Walter Buonanno (Compositore, produttore, Bergamo)
Junior Sprea
Ginko Villadaposse
UNK Sound Milano
Arci MilanoX
Arci Bitte
Arci Metromondo
Teatro della Cooperativa
Associazione Pernondimenticare Varalli e Zibecchi
Salaam – I Ragazzi dell’Olivo
Agenzia X (Casa editrice)
POQ – Partigiani in Ogni Quartiere
Spazio Baluardo (Q.Oggiaro)
Zam – Zona Autonoma Milano
Ambrosia Milano
Labout
Rete Studenti Milano
MACAO
Polisportiva Popolare Zam
Sos Fornace Rho
CSA Baraonda Segrate
FOA Bocaccio (monza)
CSOA Zapata Genova
Lab. Sancho Panza di Ferrara
Lokomotiv Zapata polisportiva popolare
Point Break – Studentato Autogestito Occupato, Roma
CSA Pacì Paciana Bergamo
Collettivo Off-Topic
C.S.A. La talpa e l’orologio Genova
AutAut 357 Genova – Unicommon Genova
Folletto 25603 Abbiategrasso
Redazione MilanoInMovimento
Telefono Viola Milano
Outofline photo collective
Tijuana Project – Unicommon Pisa
La Terra Trema
Reality Shock Padova
Lab CraCk – Unicommon Padova
Astra 19 Spa Roma
Anomalia Sapienza – Unicommon Roma
Lab! Puzzle
Horus Project Roma
Dimensione Autonoma Studentesca ( Collettivo studentesco autorganizzato Siena)
Officina Multimediale (Videomakers)
Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito Milano
Link-Sindacato Universitario Milanese
Unione Inquilini di Milano
Sel Zona 3 Milano
Andrea Lazzarotti (Capogruppo SeL Consiglio di Zona 3)
Patrizia Cavallotti – ultima inquilina di Ferravilla, 11 – fino al 1980
Titti Benvenuto (Consigliera di zona 3)
Paola Pollaroli Pardi (Comitato per Milano, Zona 3)
Giancarlo Pagani (Comitato per Milano, Zona 3)
…… …… ……
le firme sono tantissime, già oltre 1.000, e sono in continuo aggiornamento. Quindi qui trovi solo le primissime di una lunga lista. Per l’elenco completo ed aggiornato consulta il sito di Milano in Movimento.
di lucmu (del 27/06/2012, in Lavoro, linkato 1053 volte)
Hanno ucciso l’articolo 18 e dicono che non è successo nulla. Hanno esteso la precarietà e blaterano di opportunità per i giovani. Hanno tagliato drasticamente gli ammortizzatori sociali e lo chiamano modernizzazione del welfare. Hanno fatto una “riforma del mercato del lavoro” che toglie molto a molti, ma perché suonasse meglio hanno aggiunto nel titolo “in una prospettiva di crescita”. Insomma, da oggi il ddl Fornero è legge dello Stato.
Come già successo in Senato un mese fa, anche alla Camera si è fatto ricorso al voto di fiducia, che garantisce i tempi celeri chiesti da Monti e, soprattutto, evita imbarazzanti dibattiti pubblici sul merito. E così, una legge, le cui conseguenze non verranno vissute nemmeno da uno dei 393 deputati che l’hanno votata, è stata approvata a larghissima maggioranza.
Beninteso, non c’è alcuna sorpresa in questo esito, né vi è mai stato un minimo di suspense, anzi, tutto era talmente preannunciato e scontato che oggi la notizia fatica persino a conquistarsi un posto in prima fila nell’informazione mainstream. Già, un contrasto immenso tra le grida d’allarme che avevano giustificato il provvedimento e l’ordinarietà che accompagna oggi la sua approvazione.
Tuttavia, questa disattenzione non è dovuta solo al fatto che ormai si corre di emergenza in emergenza, per cui si invocano sempre nuove e più drastiche misure, senza peraltro indicare mai uno straccio di prospettiva, ma anche -e forse soprattutto- ai troppi scheletri in troppi armadi. Ebbene sì, perché quella diffusa voglia di parlare d’altro o di minimizzare non trova giustificazione alcuna nel merito del provvedimento, che anzi rappresenta un salto di qualità nel processo di smantellamento di tutele, regole e diritti nel mondo del lavoro.
Certo, la legge è scritta in maniera contorta in diverse parti e ci sono delle incoerenze formali, ma dal punto di vista degli obiettivi che intende perseguire e dell’idea di società a cui si ispira, essa è di una chiarezza esemplare. Infatti, tre sono gli obiettivi di fondo e tutti i tre ci paiono ampiamente garantiti dal testo approvato: 1) estensione della possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro precari; 2) taglio drastico degli ammortizzatori sociali e 3) abolizione de facto del divieto di licenziamento individuale senza giusta causa, mediante la riduzione a ipotesi puramente scolastica del reintegro previsto dall’articolo 18. In altre parole, piena continuità con le misure in materia di mercato del lavoro dei precedenti governi e assoluta aderenza ai precetti dell’ideologia neoliberista, cioè una vera e propria controriforma sociale.
Un’enormità, insomma, che avrebbe meritato una sollevazione sociale e politica o almeno uno scontro aspro e serio, ma invece non è successo nulla di tutto ciò. O meglio, qualcuno si è opposto davvero, ha lottato, si è mobilitato e ha scioperato (che significa rinunciare a una parte di salario), come la Fiom ed i sindacati base, settori di movimento, giuristi del lavoro e intellettuali, partiti della sinistra, singoli lavoratori e delegati. E possiamo essere anche ragionevolmente certi che la combattiva minoranza che si è opposta fosse più in sintonia con il sentire diffuso nella società che la maggioranza di parlamentari che ha approvato la controriforma.
Ma alla fine tutto questo, ovviamente, non è stato sufficiente, non poteva esserlo. E non solo perché il Governo, la finanza, il capitale, le banche, il Fmi, la Bce, la Ue e chi più ne ha più ne metta esprimono un potere enorme, ma soprattutto perché i lavoratori e le lavoratrici, il loro punto di vista e il loro interesse, sono stati lasciati troppo soli e hanno subito una delle molte anomalie italiane. Ed eccoci agli scheletri negli armadi, alla principale forza di centrosinistra del paese, il Pd, che vota compatto la controriforma, a Cisl e Uil che non hanno fatto nemmeno finta di opporsi, alla Cgil che, nella sua maggioranza, prima ha spacciato la bufala della manifesta insussistenza come “risultato positivo” e, poi, ha revocato anche formalmente le ore di sciopero generale contro la manomissione dell’art. 18. Eccetera eccetera.
L’approvazione del ddl Fornero è una sconfitta per i lavoratori. Bisogna chiamare le cose con il loro nome. Non per autoflagellarci, per carità, ma per non partecipare al deleterio gioco del “non è successo niente, tanto non cambia nulla”, che diffonde soltanto rassegnazione, e per, invece, pensare da subito a come riconquistare quello che ci hanno tolto, a partire dal diritto di non essere licenziati se qualche volta ci permettiamo di dire “no”.
Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 21/06/2012, in Lavoro, linkato 873 volte)
A Pomigliano la Fiat discrimina e puoi essere anche l’operaio più bravo del mondo, ma se hai in tasca la tessera della Fiom o dei Cobas, allora in fabbrica non puoi lavorare. Nulla che non si sapesse già, per carità, anche se mezzo mondo faceva ipocritamente finta di niente. Ma ora lo dice anche la magistratura, con la sentenza del Tribunale di Roma che accoglie il ricorso della Fiom e di 19 operai, imponendo a Fabbrica Italia Pomigliano S.p.a. di assumere da subito 145 operai iscritti alla Fiom.
Insomma, legge italiana alla mano, ha ragione la Fiom e ha torto Marchionne, sebbene quest’ultimo, fedele alla sua personale visione del mondo e alla lunga tradizione Fiat, difficilmente si adeguerà e preferirà le battaglie legali ed i ricatti politici. Tuttavia, questa sentenza è una buona notizia e una boccata d’ossigeno, poiché chiama le cose con il loro nome (“discriminazione collettiva”) e toglie ogni alibi a quelli che guardavano dall’altra parte o negavano l’evidenza.
Già, perché a guardare bene non è solo la Fiat ad uscire condannata, ma anche l’assenteismo delle istituzioni, il menefreghismo di gran parte delle forze politiche e, soprattutto, la complicità di Cisl e Uil, che con le loro firme e le loro azioni avevano legittimato l’eliminazione delle libertà sindacali dei lavoratori Fiat.
Ora, come sempre accade, in molti saliranno sul carro di questa sentenza, dicendo di stare con gli operai e contro le discriminazioni, anche se diversi di loro fino a ieri non avevano mosso un dito.
Anche in Cgil in tanti dovranno interrogarsi e chiarire le loro intenzioni, visto che, al di là delle dichiarazioni e dei comunicati di oggi, il suo Comitato Direttivo del 18 giugno, quello che ha cancellato le otto ore di sciopero generale contro la manomissione dell’art. 18, ha indicato nella ricostruzione dell’unità con Cisl e Uil la priorità della fase, senza però porre alcuna condizione rispetto alla situazione in Fiat e tra i metalmeccanici.
In altre parole, non basta applaudire una sentenza, bisogna che ognuno, per quello che gli compete, faccia quello che deve fare per ristabilire i diritti e le libertà sindacali in Fiat.
Luciano Muhlbauer
per il testo integrale dell’ordinanza del Tribunale di Roma clicca qui
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