Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La baraccopoli della Bovisasca è stata sgomberata definitivamente. Il vicesindaco De Corato esulta compiaciuto, l’assessore regionale Boni tira in ballo persino l’Expo e le centinaia di persone che abitavano le baracche stanno vagando in giro per la città, alla ricerca di un luogo dove andare. Della bonifica del terreno dove sorgeva l’ennesima bidonville milanese, invece, non parla più nessuno.
Quanto accaduto in Bovisasca è paradigmatico dell'inquietante livello di inconsistenza ormai raggiunto dalla politica milanese e dell’ipocrisia di molti amministratori con la testa in campagna elettorale.
Inconsistente è spacciare per “soluzione” la cacciata di centinaia di famiglie, compresi i bambini, senza porsi il problema dove e come finiranno, sperando semplicemente che qualche anima pia si occupi di loro oppure che qualcuno decida di tornare al paese d’origine.
Ipocrita è invocare la tutela della salute per motivare lo sgombero, dopo lunghissimi anni di disinteresse istituzionale per un terreno inquinato da pericolosi rifiuti tossici, per non parlare dell’incredibile fatto che ora né il Comune, né la Regione fanno sapere ai cittadini della Bovisasca se e quando si intende procedere alla bonifica.
Insomma, i rifiuti tossici rimangono e gli esseri umani finiscono per strada, finché non troveranno un’altra baraccopoli. Ahinoi, la solita storia che si ripete ormai da anni.
Ma quello che forse stupisce di più è che la città appare anestetizzata, incapace non solo di indignarsi di fronte al trattamento incivile riservato a uomini, donne e bambini, ma altresì di rendersi conto che la miseria della politica genera alla lunga dei mostri di cui sarà difficile liberarsi.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
di lucmu (del 31/03/2008, in Lavoro, linkato 1174 volte)
Mentre nella nostrana campagna elettorale Berlusconi e Veltroni cantano in coro l’inno al “patto tra produttori” e annunciano la morte della lotta di classe per sopraggiunti limiti di età, dalla vicina Svizzera, considerata per molto tempo un modello di pace sociale, arrivano segnali diametralmente opposti.
Infatti, gli operai delle Officine FFS di Bellinzona sono in sciopero ad oltranza sin dal 7 marzo scorso contro lo smantellamento del loro stabilimento e stanno raccogliendo una vasta solidarietà da parte della popolazione locale e persino delle istituzioni. Tanto per capirci, il capoluogo del Canton Ticino conta soltanto 17mila abitanti, ma alla manifestazione di ieri 30 marzo hanno partecipato oltre 10mila persone (12mila per il comitato di sciopero, 8mila per la polizia).
La storia dei 400 operai di Bellinzona è simile a molte altre di questi tempi di liberismo e privatizzazioni. Cioè, le ferrovie svizzere hanno deciso, annunciandolo alle maestranze per mezzo stampa (sic), un “piano di ristrutturazione completo” per Cargo FFS, una delle quattro società in cui sono state suddivise le FFS, che prevede la soppressione tout court delle storiche Officine per la manutenzione di Bellinzona. E, come sempre in casi del genere, di mezzo non ci sono soltanto i posti di lavoro dello stabilimento da liquidare, ma anche quelli dell’indotto.
I lavoratori sono ormai alla quarta settimana di sciopero e preparano una nuova manifestazione per mercoledì 2 aprile. Insomma, mandateli un segno di solidarietà, andando sul loro sito (www.officine.unia.ch) e firmando l’appello in loro sostegno.
Un altro sito utile da vistare è quello del sindacato svizzero dei trasporti (www.sev-online.ch/it).
La Corte d’Appello di Filadelfia (Usa) ha annullato la condanna a morte contro Mumia Abu-Jamal, l’attivista e giornalista afroamericano detenuto da 26 anni nel braccio della morte.
Mumia, ex militante dei Black Panthers, era stato condannato a morte perché accusato dell’omicidio di un agente di polizia di Filadelfia. Mumia si era sempre professato innocente e il processo era a dir poco costellato di irregolarità, ma in tutti questi anni non è stato possibile arrivare a una revisione, nonostante le molteplici campagne internazionali.
La decisione della corte di Filadelfia, che di fatto commuta la pena di morte in ergastolo, a meno che l’accusa non riapra nuovamente il processo, non fa certo giustizia, ma almeno apre uno spiraglio di speranza.
Articolo di Luciano Muhlbauer, pubblicato su il Manifesto del 27 marzo 2008 (pag. Milano)
La campagna elettorale forza la mano un po’ a tutti e spesso accade di ascoltare dichiarazioni che sfidano la realtà dei fatti. Questo è sicuramente il caso dell’assessore regionale Boni, che ieri ha glorificato la politica di Regione Lombardia sulla “questione rom”. Secondo lui, infatti, le scelte regionali contribuirebbero a “riqualificare il territorio” e a “renderlo più vivibile e sicuro”.
Peccato però che sia vero l’esatto contrario, poiché Regione Lombardia semplicemente ha scelto di non disporre di alcuna politica degna di questo nome a riguardo. Anzi, pratica consapevolmente e cinicamente il triste gioco del tanto peggio, tanto meglio.
In primo luogo, va ricordato che esiste una legge regionale, la numero 77 del 1989, la quale prevede lo stanziamento di fondi regionali a favore degli enti locali che ospitano sul proprio territorio insediamenti rom. Tuttavia, i comuni lombardi non hanno mai visto un soldo, per il semplice motivo che la maggioranza di centrodestra boicotta da lunghi anni l’applicazione della legge e, in particolare, il suo rifinanziamento in sede di bilancio.
Per quanto riguarda poi le famose modifiche alla legge regionale sul governo del territorio, la n. 12/2005, ispirate direttamente dall’assessore Boni, sfioriamo il grottesco. Infatti, da una parte, è stata introdotta la norma speciale che impone ai comuni di acquisire il consenso dei comuni limitrofi in caso di insediamento di un cosiddetto “campo nomadi” e, dall’altra, è stato contestualmente abrogato l’articolo 3 della legge 77/89. E quest’ultimo, guarda a caso, prevedeva che l’ubicazione dei “campi” doveva essere individuata “in modo da evitare qualsiasi forma di emarginazione urbanistica e da facilitare l’accesso ai servizi e la partecipazione dei nomadi alla vita sociale”.
In altre parole, dopo aver negato per anni i fondi regionali ai comuni, è stata pure abolita l’inclusione sociale, introducendo in cambio un muro di ostacoli per regolarizzare gli insediamenti rom.
Appunto, tanto peggio, tanto meglio. Ovvero, quanto sta già accadendo, e da anni, a Milano, compresa la Bovisasca, con tanti sgomberi e nessuna soluzione. E, alla fine, l’unico risultato di questa folle politica è il nomadismo coatto degli sgomberi, per popolazioni in larghissima parte non più nomadi da generazioni. In altre parole, l’esatto contrario di quello che sostiene imprudentemente l’assessore leghista.
Come ogni primavera a Milano si ripropone il medesimo problema e centinaia di rifugiati politici e profughi di guerra, presenti regolarmente nel nostro paese, finiranno per strada.
Ebbene sì, perché l’Italia, sprovvista tuttora di una legge organica sul diritto d’asilo, concede ai profughi il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma poi si disinteressa sostanzialmente della loro sorte. E così, i profughi si trovano a dormire nei parchi cittadini o nelle aree dismesse, spesso in condizioni allucinanti e comunque indegne di un paese che si pretende civile.
Quando arriva l’inverno e il freddo, il Comune di Milano apre le porte dei dormitori pubblici e accoglie per la notte almeno una parte dei profughi presenti in città. Ma non appena arriva la primavera, cioè il 31 marzo, quando finisce la cosiddetta “emergenza freddo”, quelle persone finiscono di nuovo per strada.
Insomma, la vicenda dei profughi di via Lecco –vi ricordate?- di due inverni fa, sembra non aver insegnato nulla all’amministrazione comunale. E tutto continua come prima.
Per questo motivo, il Naga e il Sicet hanno indetto per il 27 marzo un presidio davanti al dormitorio di via Barzaghi, dalle ore 8.00 alle ore 11.00, al fine di chiedere una soluzione per i profughi.
Se potete, andateci.
Di seguito, il testo di convocazione del presidio di Naga e Sicet:
DAL 31 MARZO CENTINAIA DI RIFUGIATI POLITICI FINIRANNO IN STRADA
Alla fine del mese infatti chiuderanno le strutture predisposte dal Comune di Milano per “l’emergenza freddo” e da allora centinaia di persone attualmente ospitate non avranno altre soluzioni che dormire nei parchi e nelle stazioni.
In particolare, al Centro della Protezione Civile di via Barzaghi attualmente hanno un posto letto, sotto un tendone, decine di rifugiati politici e alcuni godono di permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Ma anche gli altri dormitori di via Saponaro e di via Ortles termineranno questo servizio.
Il Comune di Milano non predisporrà nessuna struttura alternativa per questi cittadini fuggiti dalla guerra e dalla repressione dei loro paesi d’origine.
A Milano atuttalmente c’è una lista d’attesa di tre mesi e si stima che ci sia un fabbisogno di oltre 300 posti letto solo per accogliere i rifugiati afgani, somali, iraniani, togolesi, etiopici, eritrei e sudanesi.
IL SICET E IL NAGA CHIEDONO CHE LA STRUTTURA DI VIA BARZAGHI RIMANGA APERTA FINO AL REPERIMENTO DI UNA SISTEMAZIONE IDONEA A TUTTI I RIFUGIATI POLITICI RICONOSCIUTI DAL MINISTERO DEGLI INTERNI.
IL SICET E IL NAGA CHE DA TEMPO SEGUONO LE VICENDE DI QUESTI MIGRANTI FORZATI INDICONO UN PRESIDIO DAVANTI IL DORMITORIO DELLA PROTEZIONE CIVILE IN VIA BARZAGHI 2 GIOVEDI’ 27 MARZO DALLE ORE 8 ALLA 11 PER SOTENERE QUESTA RICHIESTA DI CIVILTA’ E PER INFORMARE L’OPINIONE PUBBLICA MILANESE DEL DRAMMA DI CENTINAIA DI PERSONE CHE DAL 31 MARZO RIMARRANNO IN STRADA.
Naga - Centro Har - via Grigna 24, Milano
Sicet: ufficio consulenza, via Grigna 20, Milano
tel. 02-33007411 fax: 02-39208516
La memoria di Dax non trova pace nemmeno a Pasqua. Infatti, anche il murale di piazza Vetra, dedicato a lui e al partigiano Giovanni Pesce, è stato cancellato dal Comune di Milano.
Gli amici di Davide “Dax” Cesare, il giovane assassinato nel marzo di cinque anni fa da alcuni neofascisti, se ne sono accorti oggi. Sabato c’era ancora. Quindi, deve essere successo tra ieri e oggi, una settimana esatta dalla cancellazione del murale sulla Darsena.
Ora l’assessore Cadeo ci spiegherà che la politica non c’entra, ma che si tratta di una questione di “decoro urbano”. Tuttavia, come sempre, non sarà in grado di spiegare come mai le scritte e i graffiti di ispirazione neofascista, o peggio, che riempiono alcuni quartieri popolari della città continuano ad esistere indisturbati. Il vicesindaco De Corato, invece, sarà più trasparente e rilancerà la sfida agli amici e compagni di Dax, nella speranza che la sua guerra privata sortisca qualche effetto utile per la campagna elettorale.
A noi, francamente, mancano ormai gli aggettivi per definire il comportamento dell’amministrazione comunale, specie della componente di An, che a Palazzo Marino sembra fare il bello e il cattivo tempo su tutte le questioni che riguardano in qualche modo il fascismo e l’antifascismo.
Ma il vero problema non sono nemmeno i vari De Corato e Cadeo, bensì una città che sembra sempre più smemorata e incapace di reagire. E così, gli amici e i compagni di Dax vengono lasciati troppo da soli, un po’ come accade spesso all’Anpi, come se si trattasse di vicende private. Invece no, qui è in gioco la memoria pubblica di Milano.
Ecco perché riteniamo che oggi e qui si ponga il problema di aprire in città una riflessione seria e ampia, che coinvolga tutte le forze, sociali e politiche, e i singoli cittadini che non intendono arrendersi all’arroganza e alla mancanza di rispetto dell’amministrazione comunale. È l’unica maniera per non scendere al livello misero di De Corato e per riportare la questione nella sua dimensione propria, cioè la politica.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Formigoni ama definirsi il Presidente di tutti i lombardi e tende a considerare l’amministrazione regionale cosa sua. Questo la sapevamo. Ma quanto accaduto ieri alla Conferenza Stato-Regione, dove il suo fedelissimo, l’assessore ciellino Colozzi, ha posto il veto contro le linee guida sull’applicazione della legge 194, oltrepassa ogni limite di decenza politica ed istituzionale.
E non lo diciamo semplicemente perché siamo avversari politici di Formigoni, bensì perché riteniamo che anche in un clima di un aspro scontro politico ed elettorale vadano rispettate alcune regole.
Formigoni ha ritenuto opportuno candidarsi al Senato della Repubblica, con l’obiettivo di fare poi il Ministro, rimanendo tuttavia in carica come Presidente della Lombardia. Certo, una legge sbagliata glielo consente, ma ciò non toglie che egli sia tenuto a distinguere la sua funzione istituzionale dalla sua battaglia politico-elettorale.
Quanto accaduto ieri è un’offesa bella e buona nei confronti dei lombardi, perché pur di far parlare di sé in campagna elettorale ha abusato del suo ruolo istituzionale, schierando la Lombardia intera sul fronte antiaborista. Appunto, una cosa è il pensiero del ciellino e candidato del PdL, ma altra cosa è l’istituzione Regione Lombardia.
Se poi vogliamo entrare nel merito della questione, dobbiamo rilevare che Formigoni e Colozzi non hanno alcun titolo per pontificare sull’applicazione della legge 194. Anzi, proprio loro dovrebbero sedere sul banco degli accusati, poiché il governo regionale promuove da anni una politica di sistematico boicottaggio dell’applicazione della legge 194. Gli ospedali lombardi straboccano letteralmente di medici “obiettori di coscienza”, per convinzione o per convenienza, mentre le strutture private accreditate, in base a una delibera di Giunta del 2000, possono incredibilmente “obiettare” in quanto tali.
Forse non è un caso che il veto di Colozzi-Formigoni si è scagliato contro delle linee guida che prevedevano anche l’obbligo di garantire in ogni distretto la presenza di almeno un medico non obiettore.
Insomma, se Formigoni non è in grado di rispettare i suoi concittadini e concittadine, anche se non la pensano come Comunione e Liberazione, allora si dimetta subito da Presidente della Lombardia e non quando il gioco delle poltrone ministeriali l’avrà accontentato. Altrimenti, ritiri immediatamente il veto contro l’applicazione della 194. Scelga lui.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
Il 18 marzo scorso il parlamento svizzero ha dato il via libera all’uso di pistole ad elettroshock nelle operazioni di espulsione coatta di cittadini stranieri. Il via libera è arrivato dopo un lungo braccio di ferro politico, visto che in precedenza e per ben tre volte consecutive uno dei due rami del parlamento, il Consiglio degli Stati, aveva rifiutato di inserire questo comma nella nuova legge federale “sull’impiego della coercizione” da parte delle forze di polizia.
Vi è qualcosa di paradossale in questa vicenda, poiché l’esigenza di un nuovo impianto legislativo era nata proprio in seguito alla morte di due immigrati nel corso delle operazioni di espulsione, gestite con metodi spicci dalla polizia elvetica. Cioè, un palestinese, nel 1999, e un nigeriano, nel 2001, morirono per asfissia, provocata dall’imbavagliamento applicato dagli agenti di polizia.
Quindi, d’ora in poi sarà vietato l’uso di caschi integrali o bavagli che rendano difficile la respirazione, ma in cambio potranno essere utilizzati non solo i cani, ma soprattutto i cosiddetti Taser (Thomas A. Swift’s Electronic Rifle), cioè quei dispositivi che fanno uso dell’elettricità per far contrarre i muscoli della persona colpita.
Insomma, dalla padella alla brace, considerato che i Taser, sebbene classificati ufficialmente armi non letali, hanno in realtà causato numerosi morti in giro per il mondo. Secondo quanto denunciato da Amnesty International, infatti, tra il 2002 e il 2007 le pistole ad elettroshock sono responsabili del decesso di almeno 291 persone negli Usa e nel Canada, dove le forze dell’ordine le impiegano da tempo.
Quanto avvenuto nella vicina Svizzera è paradigmatico di un progressivo imbarbarimento della vita pubblica sul vecchio continente. La riduzione a problema di ordine pubblico e di sicurezza delle questioni sociali, compreso il fenomeno migratorio, produce mostri giuridici che combinano in maniera impressionante ipocrisia e violenza. E, soprattutto, che smontano passo dopo passo lo stato di diritto, legittimando trattamenti speciali e disumani. In fondo, la medesima storia che raccontano ogni giorno i Cpt, quelli nostrani oppure quelli esternalizzati in Nord-Africa, di cui manco si parla più.
Dopo oltre sei ore di occupazione di una stanza del Cpt, la Questura ha dovuto prendere atto della totale illegittimità del provvedimento di reclusione nel centro di via Corelli e la signora V.M. è stata liberata. Implicitamente è stato, dunque, riconosciuto che la signora non poteva essere espulsa, in quanto coniugata con un cittadino italiano e in virtù dell'articolo 31 del testo unico di legge, considerata la presenza di tre minori regolarmente inseriti in ambito scolastico, che avrebbero subito un grave danno psicologico qualora fossero stati espulsi.
V.M. potrà così tornare a casa a festeggiare il compleanno del più piccolo dei suoi figli, che compie gli anni proprio oggi.
Resta quindi in Italia in attesa delle risposte ai ricorsi da lei presentati davanti al giudice di pace e al tribunale dei minori.
Certamente, è incredibile che, se non fossimo intervenuti immediatamente e non avessimo compiuto un'azione irrituale come l'occupazione di una stanza del Cpt, a quest'ora la signora sarebbe già stata espulsa con i suoi tre bambini. Ci chiediamo quante altre persone siano nella sua situazione e siano esposte all'arbitrio di singoli pubblici ufficiali, a causa di una legge che alimenta i presupposti per tali illegalità.
Comunicato stampa di Vittorio Agnoletto e Luciano Muhlbauer
Da tempo non si sente più parlare del Cpt di via Corelli. Quasi quasi sembrava che quel luogo di detenzione per immigrati non esistesse più o che si fosse trasformato in qualcosa d’altro. Invece no, tutto come prima e non appena cala l’attenzione pubblica si ripresentano fatti che sfidano lo stato di diritto e il più elementare buon senso.
Ebbene sì, perché in questo momento si trova rinchiusa in via Corelli e rischia l’espulsione una donna, cittadina delle Seychelles, già in possesso di regolare permesso di soggiorno e coniugata con un cittadino italiano. Cioè, secondo la legge, non potrebbe essere privata della sua libertà personale e tanto meno espulsa. Ma non basta, perché la signora è anche madre di tre figli minorenni, frequentanti regolarmente la scuola italiana, che ora rischiano a loro volta l’espulsione coatta dall’Italia.
Come tutto questo sia potuto accadere è ancora un mezzo mistero, che andrà chiarito in tempi brevi e certi. Comunque sia, in questo momento l’europarlamentare Vittorio Agnoletto si trova all’interno del Cpt di via Corelli, insieme agli avvocati della signora, ed è già stata contattata la Prefettura. Eppure, a quanto pare la situazione non si sblocca. Anzi, si parla di tempo necessario, forse giorni, per accertare se la donna sia coniugata o meno, nonostante gli avvocati avessero tutto in mano e inviato alle autorità competenti.
Chiediamo che venga immediatamente posto fine alla detenzione illegale della signora e che venga sospeso ogni provvedimento di espulsione nei suoi confronti e dei suoi figli minorenni.
Continuiamo ad essere convinti che i Cpt vadano chiusi, perché inumani e inutili. Ma nel frattempo pretendiamo che si rispetti almeno la legge. E questo va fatto subito e non tra qualche giorno.
Comunicato stampa di Luciano Muhlbauer
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